Il 10 gennaio uscirà in Italia “Spare. Il Minore” scritto da  un celebre ghostwriter americano, al quale il principe Harry ha dettato le sue storie.

Il 10 gennaio uscirà in Italia “Spare. Il Minore” scritto da un celebre ghostwriter americano, al quale il principe Harry ha dettato le sue storie.

J. R. Moehringer,

Nel luglio del 2021 era stato annunciato che Harry, duca di Sussex, avrebbe pubblicato un libro di memorie con la Penguin Random House, il cui ricavato sarebbe stato devoluto in beneficenza. Harry avrebbe ottenuto un anticipo di almeno 20 milioni di dollari. Nell’agosto del mese successivo Harry precisò che 1,5 milioni di dollari del ricavato del libro di memorie sarebbero stati devoluti in beneficenza all’associazione Sentebale, mentre 300.000 sterline sarebbero state devolute a WellChild, il resto se lo sarebbe tenuto lui. Il libro sta per uscire anche in Italia, il 10 gennaio, con la  Mondadori, e il titolo è Spare, il minore. Questo è stato, in realtà, scritto da J. R. Moehringer, 58 anni.

Harry aveva dichiarato che: “Sto scrivendo questo libro non come il principe che sono nato, ma come l’uomo che sono diventato. Ho indossato molti cappelli nel corso degli anni, sia in senso letterale che figurato, e la mia speranza è che raccontando la mia storia – gli alti e i bassi, gli errori, le lezioni imparate – possa contribuire a dimostrare che, indipendentemente dalla nostra provenienza, abbiamo più cose in comune di quanto pensiamo”. Harry ritiene che il libro mostrerà “gli alti e i bassi” e sarà “accurato e del tutto veritiero”.

L’editore americano, da par sua ha dichiarato che il libro riporta i lettori “immediatamente a una delle immagini più cruente del XX secolo: due ragazzini, due principi, che camminavano dietro la bara della madre mentre il mondo li guardava con dolore”.

L’uso dei ghostwriter è un fatto comunissimo nel mondo anglosassone, ne avevamo già scritto parlando di due celeberrimi personaggi: Winston Churchill, che ebbe un Nobel per la letteratura per un’opera scritta da altri e JFK che arrivò alla presidenza degli USA per un libro che, forse, neppure lesse, ma che portava il suo nome sulla copertina.

Il Times ha scritto che Harry aveva avuto dei ripensamenti sulla pubblicazione del libro, dopo aver visitato sua nonna, la Regina Elisabetta II, durante le celebrazioni del Giubileo di Platino nell’estate del 2022, ma alla fine, dopo il suo funerale, ha deciso di procedere con la stampa.

Questo libro, come già abbiamo detto, non lo ha scritto davvero lui, ma si è affidato al miglior “ghostwriter” del mondo. In italiano potremmo definire il ghostwriter come “scrittore fantasma” e quello scelto da Harry è così famoso che George Clooney ha fatto un film sulla sua vita. Il suo nome è JR Moehringer, ed è un biografo di star come Andrè Agassi . Quando il Principe Harry scelse di lavorare  JR Moehringer, per il suo libro di memorie che sta scuotendo le fondamenta della monarchia britannica, non deve aver badato a spese.

Lo scrittore americano e giornalista vincitore del premio Pulitzer,  J. R. Moehringer, non ha una produzione enorme, ma è noto per il suo approccio coinvolgente a certi argomenti, e la sua preoccupazione per il rapporto padre-figlio e la sua capacità di “scavare in profondità” in questi sentimenti è ben nota.

Quando lavorò con Andre Agassi alla stesura del suo celebre libro di memorie Open del 2009, la star del tennis ha raccontato che Moehringer si è trasferito a Las Vegas e ha comprato una casa a un miglio di distanza, dove ha vissuto per due anni. Agassi ha raccontato che la mattina si incontravano davanti a dei burritos per la colazione da Whole Foods. Più recentemente, il 58enne ha collaborato con il fondatore di Nike Phil Knight per il suo libro di memorie, Shoe Dog.

Usando il suo nome, ha scritto il suo libro di memorie nel 2005, The Tender Bar, da cui è stato tratto un film del 2021 con Ben Affleck (pare che sia stato il regista, George Clooney, a presentargli Harry), e il romanzo del 2012 Sutton. Tutti best sellers negli USA.

Agassi ha dichiarato di aver cercato Moehringer per scrivere il suo libro di memorie, “invoglianto” a farlo dopo aver letto The Tender Bar. “È stata la prima autobiografia che ho letto che non sembrava una conferenza stampa globale”, ha dichiarato al New York Times.

Cresciuto a Manhasset, una città di pendolari di Long Island a New York che ha fatto da sfondo a Il Grande Gatsby, Moehringer e sua madre hanno vissuto in povertà con i nonni, dopo la separazione dal padre.

Nel suo libro di memorie, descrive la sua relazione tossica con l’alcol dopo aver lasciato Yale, dove era uno studente borsista, quando Steve, il proprietario del suo bar preferito, morì. “Bevevo per ubriacarmi. Bevevo perché non sapevo cos’altro fare. Ho bevuto come beveva Steve alla fine, per raggiungere l’oblio”, ha scritto.

Janson-Smith riteneva che Sutton fosse un “romanzo fantastico”, ma la risposta del pubblico fu deludente. “Purtroppo non è successo nulla. Non credo che abbia ricevuto una sola recensione, quindi è stato molto deludente”, ha dichiarato l’editore in pensione e presidente dell’agenzia letteraria londinese Greyhound Literary.

Dopo aver iniziato la sua carriera di scrittore al New York Times come assistente alle notizie, Moehringer è stato successivamente assunto dal Los Angeles Times, dove ha vinto il premio Pulitzer per il suo articolo intitolato Crossing Over. Oggi vive in California. Madeleine Morel, un’agente che si occupa di “abbinare” i progetti di libri ai ghostwriter, ha dichiarato che Moehringer incarna il massimo del ghostwriting. “È l’apice”, ha dichiarato all’Observer. “Sono sicura che tutti aspirano a diventare come lui. È uno scrittore così brillante. È molto difficile scrivere un libro come ghostwriter e non far sembrare che sia stato scritto da qualcun altro”. In apparenza con il libro dei Sussex ci è riuscito, a giudicare dagli imbarazzanti dettagli che contiene.

Chi glielo abbia fatto fare al povero Harry di scrivere questo libro sarà argomento di discussione per gli psicanalisti negli anni futuri. Segare il ramo sul quale si sta seduti non ha assolutamente senso: unico fatto che potrebbe spiegarlo potrebbero essere certi traumi infantili avuti con la morte della madre o una sorta di complesso edipico.

Tutto sommato la sua vicenda personale ricorda l’abdicazione del suo prozio, Edoardo VIII, ancora conosciuto in Inghilterra come “il re traditore”,che aveva sposato l’americana Wallis Simpson. Ecco un nuovo esempio di tragedia che si ripresenta come farsa.

 

Angelo Paratico

 

 

Una lettera del 1955, scritta da Ignazio Silone, appare ancora molto attuale

Una lettera del 1955, scritta da Ignazio Silone, appare ancora molto attuale

Ignazio Silone

Lettera dello scrittore Ignazio Silone pubblicata da EPOCA, il 9 gennaio 1955.

L’eccesso di ideologia che pesa sulla nostra vita pubblica è la conseguenza diretta del fatto che noi siamo ancora alle prese con alcune questioni fondamentali della convivenza civile. Noi discutiamo ancora sulle relazioni tra l’individuo e lo Stato, tra lo Stato e la Chiesa, tra lo Stato e le Regioni, tra il potere giudiziario e quello esecutivo, tra la classe colta e il popolo, e così via, perché queste grosse questioni sono ancora, almeno parzialmente e nello spirito dei cittadini, sul tappeto, e se anche nel passato avevano avuto una qualche soluzione, essa è stata rimessa in causa dalla storia recente. Se invece in Isvizzera, com’è noto, le elezioni politiche si combattono e si vincono sul prezzo del latte, sull’importazione delle albicocche italiane e sulla colorazione del vino bianco, ciò non dipende dal diverso “carattere” di quegli uomini, ma dalla loro storia, che, con un certo anticipo sulla nostra, ha risolto problemi sopra ricordati in un modo che gli elvetici, nella loro grande maggioranza, trovano ancora soddisfacente.

 

L’università La Sapienza impedì al Santo Padre di parlare

L’università La Sapienza impedì al Santo Padre di parlare

 

Nel novembre 2007 il rettore dell’Università La Sapienza invitò papa Benedetto XVI a parlare al corpo docente e agli studenti, per l’inaugurazione dell’anno accademico, previsto per il 17 gennaio 2008.

Il Cardinale Ratzinger, il 15 febbraio 1990, vi aveva già tenuto un discorso che aveva sollevato un gran vespaio. Questo perché aveva citato  il filosofo della scienza austriaco Paul Feyerabend (1924-1994), il quale diede un positivo giudizio dell’operato della Chiesa Cattolica, relativamente al processo a Galileo Galilei. Studi successivi hanno, da quel tempo, dimostrato come questo fosse giusto, al di là delle ricostruzioni fumettistiche della storia del Rinascimento.

Il ragliar d’asini salì al cielo, finché non intervenne lo stesso Feyerabend, che nel 1990 commentò personalmente il discorso del cardinale, dicendo: «La mia tesi è stata presentata correttamente. La Chiesa aveva ragione nell’affermare che gli scienziati non rappresentano l’autorità finale in materia scientifica. Sono in molti oggi a concordare su questo punto. Si è capito che gli scienziati sono competenti solo in campi ristretti, che spesso esulano dalle proprie competenze e, quando lo fanno, i loro giudizi entrano in contrasto».

Paradossalmente, saltò fuori una lettera dello stesso Galileo Galilei che, succintamente, diceva lo stesso di Ratzinger: “Se bene la Scrittura non può errare” scrive a Benedetto Castelli, “potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in vari modi».

Lettera del 21 dicembre 1613, in Edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, dir. A. Favaro, riedizione del 1968, vol. V, p. 282[4])

Questo, fra l’altro, è ciò che disse lo stesso Sant’Agostino, e  il Galilei conosceva bene questa citazione.

Il docente di Fisica Marcello Cini (1923 – 2012), scrisse una lettera per protestare per quel invito, che fu pubblicata dal quotidiano comunista Il Manifesto. Seguì poi una lettera interna il 23 novembre 2007, per il rettore e firmata da 67 docenti (su circa 4.500) dell’Università, fra i quali Luciano Maiani, e sottoscritta successivamente da altri 700 tra professori e scienziati.

Nella prima lettera il Cini, con toni oggettivamente scortesi e mal citando da wikipedia, faceva riferimento a una Lectio magistralis tenuta a Ratisbona da Ratzinger e poi a quella a La Sapienza, accusando il Pontefice di appoggiare la teoria del “Disegno intelligente” nella Creazione, un bersaglio favorito dai darwiniani.

Con l’avvicinarsi della data dell’evento, si ebbero delle manifestazioni da parte di studenti dell’Ateneo, contrari all’invito rivolto al Pontefice, culminate con l’occupazione della sede del Senato Accademico e del rettorato.

Il 15 gennaio 2008, come conseguenza dei fatti riportati, la Santa Sede declinò l’invito del rettore dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” a papa Benedetto XVI. Il discorso inaugurale del papa fu comunque letto dal prorettore.

Di scienza e scienziati si è parlato moltissimo negli ultimi tre anni, dove vediamo spesso uomini e donne che il televisione si autoproclamano scienziati e usano la scienza come un’arma contundente. A tal proposito vorremmo riproporre una famosissima citazione presa da Richard Feynman, Premio Nobel per la Fisica, che ben chiarisce cosa sia e cosa non possa essere la scienza.

Possiamo sempre dimostrare che una certa definita teoria sia sbagliata. Notate, comunque, che non possiamo mai provare che sia giusta. Supponiamo che proponiate una buona teoria, calcolate le conseguenze, scoprite che ogni conseguenza da voi calcolata è in  accordo con l’esperimento. La vostra teoria si dimostra per questo giusta? No. Semplicemente non si dimostra sbagliata.

Angelo Paratico

I Giapponesi lo chiamano Tsundoko. I benefici per il cervello di vivere fra i libri, letti e non letti

Siamo in molti ad acquistare libri con l’intenzione di leggerli, per poi lasciarli riposare sugli scaffali. Ma vi è chi ritiene che circondarsi di libri non letti arricchisca la propria vita, perché ci ricordano tutto ciò che non sappiamo. I giapponesi chiamano questa pratica “tsundoku”, e può dare benefici duraturi.

La parola tsundoku indica ciò che altri chiamano l’antilibreria. Tsundoku è un termine giapponese che indica le pile di libri acquistati ma non letti. La sua morfologia combina tsunde-oku (lasciare che le cose si accumulino) e dukosho (leggere i libri).

La parola è nata alla fine del XIX secolo come battuta satirica nei confronti degli insegnanti che possedevano tanti libri ma non li leggevano. Sebbene questo sia l’opposto del nostro punto di vista, oggi questa parola non ha lo stigma che possiede nella cultura giapponese. Si differenzia anche dalla bibliomania, che è il collezionismo ossessivo di libri per il gusto della collezione, non per la loro eventuale lettura. I libri letti, forse, hanno molto meno valore di quelli non letti. La nostra biblioteca dovrebbe contenere tutto ciò che non conosciamo, nella misura in cui i vostri mezzi finanziari, i tassi dei mutui e l’attuale ristrettezza del mercato immobiliare ci consentono di metterli. Con l’avanzare dell’età accumuleremo più conoscenze e più libri, e il numero crescente di libri non letti sugli scaffali parranno un monito. Infatti, più si conosce, più le file di libri non letti aumentano. Chiamiamo questa collezione di libri non letti un’antilibreria.

Il valore dell’antilibreria deriva dal modo in cui sfida la nostra autostima, fornendo un costante, anche fastidioso, promemoria di tutto ciò che non conosciamo. I titoli che tappezzano la nostra casa ci ricordano che sappiamo poco o nulla sulla crittografia, sull’evoluzione della storia europea, sul folklore italiano, sull’uso delle energie alternative e sulla paleontologia.

Le persone che non hanno questa umiltà intellettuale – quelle che non desiderano acquistare nuovi libri o visitare la biblioteca locale – possono provare un senso di orgoglio per aver conquistato la propria collezione personale, ma una biblioteca di questo tipo ha l’utilità di un trofeo appoggiato al muro. Diventa un’appendice che alimenta in nostro ego, solo come decorazione. Non una risorsa viva e in crescita da cui imparare fino a 80 anni – e, se siamo fortunati, anche qualche anno oltre. I partecipanti allo scambio dei libri troveranno senza dubbio la loro antilibreria/tsundoku in crescita

Sono certo che là fuori c’è qualche bibliomane spavaldo che possiede una collezione paragonabile a quella di una piccola biblioteca pubblica, ma che raramente ne apre la copertina. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che il possesso di libri e la lettura vanno di solito di pari passo, con ottimi risultati.

Uno di questi studi ha rilevato che i bambini cresciuti in case con un numero di libri compreso tra 80 e 350 hanno mostrato, da adulti, migliori capacità di lettura, calcolo e tecnologia dell’informazione e della comunicazione. Secondo i ricercatori, l’esposizione ai libri potenzia queste capacità cognitive rendendo la lettura parte delle routine e delle pratiche della vita.

Molti altri studi hanno dimostrato che l’abitudine alla lettura comporta una serie di benefici. Secondo questi studi, la lettura può ridurre lo stress, soddisfare i bisogni di connessione sociale, rafforzare le abilità sociali e l’empatia e potenziare alcune capacità cognitive. E questo solo per la narrativa! La lettura di saggistica è correlata al successo e agli alti risultati, ci aiuta a capire meglio noi stessi e il mondo e ci dà un vantaggio nella serata dei quiz.

Qualcuno si chiede se l’antilibreria non agisca da contraltare all’effetto Dunning-Kruger, un pregiudizio cognitivo che porta le persone ignoranti a ritenere che le loro conoscenze o capacità siano più elevate di quanto non lo siano in realtà. Poiché le persone non sono inclini ad apprezzare i promemoria della loro ignoranza, i libri non letti le spingono verso, se non la padronanza, almeno una comprensione sempre più ampia della competenza. Inoltre, l’essere fasciati dai libri, fra i quali alcuni che esistono da secoli o, come testo, per millenni, ci comunica un senso di immortalità.

Tutti quei libri che non abbiamo letto sono effettivamente un segno della nostra ignoranza. Ma se sappiamo quanto siamo ignoranti, siamo molto più avanti della stragrande maggioranza delle altre persone. Dopo tutto, Socrate fu detto l’uomo più sapiente del mondo, perché sapeva di non sapere.

Christian De Sica coinvolto nell’assassinio di Lev Trotzky…

Christian De Sica coinvolto nell’assassinio di Lev Trotzky…

Maria Mercader

 

Durante le numerose ospitate televisive di Christian De Sica ricorda spesso suo padre, Vittorio, grande regista e grande attore. In particolare, parla spesso del fatto che il padre aveva una moglie ufficiale, Giuditta Rissone e un’amante, che poi sposò, Maria Mercader, e che fu la madre di Christian. Si doveva sdoppiare per cena e pranzo, ma i grossi problemi arrivavano con il Natale, correva da una parte all’altra di Roma con un taxi. Si veda qui:

il natale tra moglie e amante di vittorio de sica – a domenica in christian de sica ricorda – Media e Tv (dagospia.com)

Maria Mercader giunse in Italia nel 1939  dove ebbe una lunga carriera, ancora nel 1991 recitò in La casa del sorriso, diretto da Marco Ferreri, film che nello stesso anno vinse l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino. Morì a Roma all’età di 92 anni, il 26 gennaio 2011 e ora riposa al Cimitero del Verano.

Christian De Sica, però, non parla mai del suo zio Ramon, il fratello di sua madre. Infatti, egli è passato alla storia come l’assassino di Lev Trotsky, che uccise con una picozza da ghiaccio, rompendogli la testa, il 20 agosto 1940, a Città del Messico, verosimilmente su ordine di Stalin.

Jaime Ramón Mercader del Río (Barcellona, 7 febbraio 1913 – L’Avana, 18 ottobre 1978) scontò 19 anni e 8 mesi nelle carceri messicane per l’omicidio. Fu un agente del NKVD ed è stato insignito del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica, dell’Ordine di Lenin e della Stella d’Oro, dopo il suo rilascio da una prigione messicana nel 1960, su pressione sovietica. Una volta uscito divise il suo tempo tra Cuba, l’Unione Sovietica e altri paesi.

Nato a Barcellona, in Spagna, il padre fu Pau Mercader i Marina, un ricco mercante tessile, mentre la madre, Eustaquia (o Eustacia) María Caridad del Río Hernández, fu cubana di accese simpatie comuniste. Essa ebbe un ruolo importante nella formazione politica del figlio, Ramón, in quale trascorse gran parte della sua gioventù in Francia, al seguito della madre che vi si era rifugiata con i figli, dopo la fuga dal manicomio nel quale la famiglia del marito l’aveva rinchiusa, per evitare che la sua relazione adulterina con un aviatore francese, Louis Delrieu, destasse troppo scandalo.

Fin da giovane, ispirato anche dalle convinzioni politiche della madre, Ramon abbracciò l’ideologia comunista, cooperando con organizzazioni di sinistra spagnole già verso la metà degli anni trenta. Venne anche imprigionato per la sua attività politica ma fu scarcerato nel 1936, quando in Spagna salì al potere un governo di sinistra. Nel frattempo, sua madre divenne un agente segreto sovietico e lui la seguì a Mosca, dove venne battezzato dai suoi superiori “Gnome”. Iniziò, dunque, ad operare per il NKVD, dal quale venne incaricato di assassinare Lev Trozky, che diversi anni prima era stato esiliato dall’Unione Sovietica, ma continuava a fare propaganda contro il leader sovietico Stalin, tramando per rovesciarlo. Trotzky aveva forti appoggi in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti e in molti lo avrebbero voluto al posto di Stalin in URSS.

Nell’attuazione del suo piano omicida Mercader assunse una serie di false identità: dapprima “Jacques Mornard”, uomo d’affari nato a Teheran da un inesistente diplomatico belga, e successivamente, “Frank Jackson”, cittadino canadese. Attraverso la sorella di una segretaria statunitense di Trotzki, Sylvia Ageloff, che aveva sedotto a Parigi e che aveva poi seguito dapprima negli USA, e nell’ottobre del 1939 in Messico, riuscì a venire in diretto contatto con Trotzky. Il politico russo era appena sfuggito, nel maggio del 1940, all’assalto armato organizzato dal celebre pittore David Alfaro Siqueiros, di tendenza stalinista. Mercader durante il suo colpo fu ferito e arrestato dalle autorità messicane, alle quali non rivelò mai la sua vera identità: fu condannato per omicidio a 20 anni di carcere.

Ramon Mercader

Ramon visse a Mosca per circa un decennio (sotto al nome di Ramón Ivanovich López), fino a quando non si trasferì a Cuba negli anni ’70, dove fu assunto come consulente da Fidel Castro, pur continuando a viaggiare. Morì a L’Avana nel 1978 di tumore polmonare causato da un sarcoma e fu sepolto a Mosca nel cimitero di Kuncevo. Un altro zio materno di Christian De Sica sostenne che Ramón, presumibilmente, morì a causa delle radiazioni emanate da un orologio da polso donatogli a Mosca dai vecchi compagni. Nell’orologio sarebbe stata nascosta una pastiglia di tallio radiattivo.

Tutto materiale per un romanzo alla John Le Carrè, ma pare che Christian De Sica non abbia mai accennato a questo lato oscuro della sua famiglia materna, anche se pensiamo che ne avrà sentito parlare dalla madre o forse l’avrà incontrato o addirittura gli avrà parlato.

Angelo Paratico

Chiarimenti dopo una conferenza di H.G. Wells sugli ebrei, tenuta nel settembre 1936 a Nottingham

Chiarimenti dopo una conferenza di H.G. Wells sugli ebrei, tenuta nel settembre 1936 a Nottingham

Il sacco di Gerusalemme raffigurato nel bassorilievo dell’Arco di Tito a Roma. Al centro è visibile la Menorah che era conservata all’interno del tempio

Questo articolo viene pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla Sir Oswald Mosley Society di Londra

 

All’incontro annuale della British Association a Nottingham nel settembre 1936, il Sig. H. G. Wells ha esposto la verità storica riguardante il ruolo interpretato dagli ebrei nel credo religioso, che egli ritiene sia stato molto esagerato. Quando il Sig. Wells ha condotto il suo discorso, ebrei di ogni età sono entrati in scena per ribattere, e hanno fatto sì che molte figure pubbliche non-ebree ripudiassero le opinioni del Sig. Wells. La principale argomentazione ebrea nelle loro repliche è stata – come lo è stata dall’inizio – che i profeti israeliti hanno insegnato il monoteismo all’umanità. La grande questione è se questa contesa ebraica possa essere stabilita alla luce di documenti cuneiformi e da autori classici, entrambi coincidenti con il periodo in cui in popolo d’Israele ha avuto origine e con il Regno Ebreo in Palestina.

I documenti egizi del Medio Regno (1750-1350 a.C.) sotto i due Amenofi, mostrano senza ombra di dubbio che intorno al 1400 a.C. Akhenaten e la sua corte hanno condotto una rivoluzione religiosa introducendo il monoteismo come religione di Stato. I fatti vengono minuziosamente descritti nel Cambridge Ancient History.

La prova dello storico latino Giustino che la città d’origine degli ebrei sia Damasco, viene ora ulteriormente confermata dalle lettere di Tell-Amarna. Questa corrispondenza mostra che per molti secoli Canaan era solo una provincia di confine dell’Egitto la cui appartenenza veniva spesso contestata dagli Ittiti. La lingua della corrispondenza era babilonese.

Queste lettere di Tell-Amarna sono ulteriormente illuminate dagli archivi ittiti di Boghaz-Keuy. Entrambi menzionano una classe sociale di persone chiamate Habiru, una classe di schiavi. Gli studiosi di origine ebraica in ogni paese negano che gli Habiru avessero qualcosa a che fare con gli Israeliti. Vi sono dettagli interessanti nelle lettere di Tell-Amarna. Sei lettere sono destinate al Faraone d’Egitto e provengono da un Abdi-hiba, il governatore di Urusalim (Gerusalemme). Credo che questo Abdi-hiba, sia la traduzione egizia del nome Abramo, in ogni caso un nativo della Siria, mentre l’Antico Testamento fa derivare Abramo dalla Ur di Caldei. L’Abdi-hiba viene continuamente pressato dagli Habiru (circa 1400 a.C.). Lettera dopo lettera egli richiede aiuti militari all’Egitto. “Al Re, mio signore, mio Sole. Abdi-hiba, il suo servitore, ai suoi piedi regali, mio signore, sette e sette volte mi inchino… è una calunnia, quello che affermano contro di me. Guardate, non sono un principe… Guardate, nemmeno mio padre o mia madre mi hanno stabilito in questo luogo; il braccio del re magnanimo mi ha fatto entrare nella casa del mio padre.”

In un’altra lettera d’aiuto scrive al Faraone, “gli Habiru stanno catturando la fortezza del re… tutti sono morti. Possa il re, mio signore, mandare aiuto al suo paese.”

Il Vecchio Testamento non menziona nessuno di questi o dei seguenti fatti, niente sulla grande lotta mondiale tra Ramses II (1292-1225 a.C.) e gli Ittiti di Kadesh, dove tutti gli stati organizzati di allora erano accorsi al fianco di uno dei due belligeranti.

Non vi è una sola parola sul Re Davide o su Salomone in nessuna fonte, tranne che dalla tradizione orale del Vecchio Testamento messa per iscritto molti secoli dopo, probabilmente durante la cattività di Babilonia, ovvero dopo il 585 a.C. Il fatto che non ce ne sia cenno in nessuna fonte, non preclude necessariamente la possibilità della loro esistenza, e la verità approssimativa della storia; a maggior ragione, che il paese più interessato ai territori di Siria e alla Palestina, l’Assiria, era allora in declino, cosa che è avvenuta intorno al 1000 a.C.

La seguente prova cuneiforme fa sorgere le domande sulle origini di Jahur-Jehovah, o Javhè. La tradizione del Vecchio Testamento sull’origine ebraica di tale nome è ben nota. Ma alcune iscrizioni aramaiche ritrovate a Zinjirli (valle dell’Eufrate) mostrano chiaramente che al tempo dell’invasione da parte di Tiglat-Pileser III (740 a.C.) della terra di Sam’al, vi era un piccolo regno indipendente di Y’di che è poi Yaudi. Questa dinastia di Y’di è stata fondata apparentemente nel VIII secolo a. C. da K-r-L; al quale è succeduto Parra I, il quale ha lasciato un iscrizione al suo dio Hadad. Perciò il Re Azrian di Yaudi, che è conosciuto come Azaria di Judah (2 Re, XV) dalla scoperta di tale iscrizione aramaica, risulta appartenere alla Dinastia del medio Eufrate. Questa rivelazione ha creato inoltre un grande disturbo nella storia del Vecchio Testamento. Per tutta la durata del periodo del potere militare di Assiria, da parte di Assurbanipal II (884-860 a.C.) fino alla fine dell’Assiria (612 a.C.), un re di Samaria e uno di Judah vengono menzionati dagli Assiri. È strano che Israele e Canaan non siano menzionati. Erano piccoli principati tributari dell’Assiria, così come il più vicino regno di Damasco. Durante il suo dominio durato 35 anni Sabuanassar III (859-824 a.C.) ha invaso la Siria e la Palestina quattordici volte. Egli cita almeno cinque invasioni durante le quali ha deportato gli abitanti della Palestina in Assiria. Tiglat-Piliser IV (745-728 a.C.), Sargon II (722-705 a.C.), Sanherib (705-682 a.C.), Azarhadon, ecc. tutti a turno hanno invaso e saccheggiato la Siria e la Palestina, diverse volte ciascuno, e hanno deportato gli abitanti ad Assiria e a Babilonia. Come Amenhotep Ahuramazda, Zoroaster ha cantato inni al Sole e ad Ahuramazda, la più pura forma di monoteismo dall’inizio del VIII secolo a.C.

L’unico dio Ahuramazda, la fonte di bontà e purezza, è sopravvissuto anche dopo – e probabilmente a causa del – martirio dello stesso Zoroaster. La prova di questo è che gli Achemenidi (dal 548 a.C. in poi) hanno adottato Ahuramazda come loro unico dio. Adesso può essere provato che Zoroaster ha vissuto nella prima metà del VIII secolo a. c. I popoli della Siria e della Palestina erano sparpagliati in tutto l’impero degli Assiri grazie alle deportazioni non sarebbero stati al corrente in modo uniforme della dottrina monoteista di Zoroaster.

Il Vecchio Testamento dice che Nabu-kudur-utsuri (Nabukednezer del Vecchio Testamento), il re di Babilonia, ha portato gli ebrei in cattività (circa 555 a.C.). Non vi è testimonianza di ciò nei testi babilonesi. Ma ritenendo che ciò sia vero, e molto probabilmente lo è, la cattività babilonese degli ebrei, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme in particolare, meriterebbe naturalmente una riflessione più approfondita. La religione Zoroastriana deve essere stata piuttosto prevalente in quel luogo. Vi è la prova che l’Asia occidentale sia stata profondamente scossa dal crollo totale dell’Assiria (612-606 a.C.) e dall’emergere delle razze Ariane, tutte più o meno devote a Zoroaster. L’idea di un unico dio deve essere penetrata anche tra un popolo così conservativo come quello dei babilonesi. Nabunaid (553-538 a.C.) l’ultimo re di Babilonia, cosciente delle lotte crescenti, ha provato a prevenire il pericolo. Con un pretesto o con un altro ha riunito nelle capitale tutti gli idoli delle diverse città del regno di Babilonia, e le immagini degli dei locali. Quell’azione ha provocato enorme scontento tra i sacerdoti locali e il vasto numero dei loro seguaci. Questa la tradizione del Vecchio Testamento afferma che Cirro ha rilasciato gli ebrei catturati. Penso che il comprensivo persiano non si sia preoccupato affatto delle persone della città, fin tanto che riscuoteva i suoi tributi. La mia opinione è che il monoteismo ebraico sia stato portato in Palestina da coloro che avevano sofferto la cattività a Babilonia. Un sondaggio critico di Ezra 1. e altri capitoli nelle Cronache sono inclini a tale interpretazione. Una consapevolezza razziale è cresciuta tra gli ebrei – se mai prima della grande diaspora del 71 d.C. – come conseguenza della cattività a Babilonia. L’esperienza ha provato che troppi déi non hanno salvato l’umanità. Vi era più probabilità di redenzione dalla venerazione di un solo dio magnanimo.

Fu fonte di confusione per gli studiosi che, nel corso del periodo ellenistico, il comune mezzo di comunicazione tra gli ebrei era il greco. Certamente vi erano il sinedrio e il clero. La lingua principale tra i semiti natii sembra essere stata una forma dialettale dell’aramaico. Non può essere accertato se i sacerdoti ebraici parlassero l’ebraico tra di loro.

Senza alcun dubbio Cicerone è il più intelligente e il più giusto uomo di stato della Roma Repubblicana. In un mondo di totale corruzione e licenza contro le quali non si viene accusati di corruzione o di cattiva condotta, egli è il solo insieme a Catone. I suoi scritti provano la gamma del suo potere intellettuale e della sua ragione. Tra centinaia di consoli e pretori, è l’unico console ad essere ritornato dalla Cilicia con un’esperienza gloriosa. Cicerone è un pensatore politico esaltato, giusto ed onesto. È molto obbiettivo riguardo alle nazioni straniere. Ha scritto della frivolezza dei greci, del servilismo dei Lidi, ma non ha mai chiamato nessuno di questi nemici di nascita. Solo gli ebrei allora e ancora chiama “nostri nemici.” Sequitur auri ilia invidia Iudaici.

L’altra questione è l’accusa riguardante l’oro ebraico… Cum aurum Iudaeorum nomine quotannis ex Italia et ex omnibus nostris provinciis Hierosolymam exportari soleret.-riguardo all’oro esportato a Gerusalemme dagli Ebrei provenienti dall’Italia e dalle nostre province… Huic autem barbarae superstitioni resistere severibatis, multitudineum Iudaeorum flag-rantem non numquam in contionibus prae re publica contemnere gravitatis summae – ma se resistere a questa superstizione barbara sia stato un atto di dignità, condannare la moltitudine di ebrei è stato un atto di giustizia, quando spesso essi erano i più ribelli nelle assemblee, tenute in difesa degli interessi della Repubblica… Non erim credo religionem et Iudaeorum et hostium impedimenta. – il credo religioso degli ebrei, nostri nemici, non è stato un ostacolo … ecc.

L’orazione di Cicerone è probabilmente una delle più belle e patriottiche della lingua latina; durante gli ultimi 50 anni, però, non vi è stata nessuna edizione scolastica per gli istituti pubblici e le università in questo paese, per ovvie ragioni. E nemmeno vi è stata alcuna edizione del Annali di Tacito, per la stessa ragione. Tacito (Annalium. il.85) menziona che sotto l’impero di Tiberio il Senato ha emanato un decreto che proibiva le religioni egiziana ed ebrea e che espelleva 4,000 ebrei liberti da Roma in Sardegna, e con l’obbligo di lasciare Roma immediatamente.

Tacito in realtà afferma in un suo passaggio che nel periodo di massimo splendore del Regno Ebraico (dal secolo a.C. fino alla distruzione di Gerusalemme per mano di Tito nel 70 d.C.) gli ebrei veneravano una testa d’asino nel loro tempio. (Tacito: Historiarum V. 2-5).

Orazio e Giovenale hanno molte altre cose da dire su di loro. Costantino, detto il Grande, ha commesso l’errore di permettere la canonizzazione del Vecchio Testamento durante il primo Concilio di Nicea nel 325 d.C. Per quasi una generazione o due gli ebrei divennero molto popolari in tutto il mondo cristiano come i figli del profeta. Ma neanche un secolo dopo (vale a dire dall’inizio del V secolo) masse di questi vengono costretti a lasciare Costantinopoli e Alessandria. Vi possono essere pochi dubbi sul fatto che, con la visione che avevano di sé stessi nel mondo cristiano, gli ebrei hanno interpretato una parte importante nell’organizzazione il movimento dell’Islam. Eppure, nonostante i loro servigi resi all’Islam, i primi califfi furono spietati con loro. Essendo i cristiani “la Gente del Libro” gli Arabi non li forzarono alla conversione, eccetto inviti formali. Ma sino al califfato degli Abbasiti (850 d.C.) gli islamici non riconobbero mai negli ebrei dei fratelli monotesiti. Intere comunità ebraiche nel Levante furono forzate a convertirsi e i loro maschi furono arruolati nelle armate islamiche.

 

 

La Rivoluzione Tradita di Ezra Pound

La Rivoluzione Tradita di Ezra Pound

 

Tradotto e stampato per gentile concessione della Sir Oswald Mosley Society di Londra. Pubblicato originariamente nel 1937, costituisce un elogio alla nuova Banca d’Italia, riformata da Mussolini.

 

Ritratto di Ezra Pound, Rolando Monti (1932)

La rivoluzione che è stata tradita, in pratica, è la “nostra” Rivoluzione Americana del 1776, non nelle sue fasi locali o particolari, e certamente non in qualità di una divisione del tutto inutile della RAZZA inglese.

Qualunque cosa di buono ne sia derivato o meno da quella scissione, essa non era assolutamente necessaria e, in gran parte, involontaria. Certamente non ha portato alcun beneficio alla Gran Bretagna. È stata, forse, la prima grande ferita inflitta al Paese dai mediatori fatti entrare da Cromwell. Il diciannovesimo secolo fu tutto ciò che La Tour du Pin ha detto, e tutto ciò che Maurras e i clown monarchici francesi hanno cercato di dimenticare, come l’ha definito La Tour du Pin. È stato il secolo dell’usura. È stato il secolo della decomposizione. È stato il secolo più vile di ogni altro che mi passa per la mente nell’era del TRADIMENTO dei termini, il più disastroso e sudicio nel vero senso delle parole.

La RIVOLUZIONE TRADITA non è una rivoluzione tradita in un anno o due o a causa di due passi falsi di Joe Stalin o di qualsiasi governo. La rivoluzione tradita è stata la rivoluzione nata dalle riforme Leopoldine in Toscana, e abbastanza evidenti nel processo Jeffersoniano che è culminato con le vittorie – tutte troppo effimere – di Andy Jackson e Martin van Buren.

Prima di loro le riforme Leopoldine si erano evolute nel concetto di autarchia, e nella credenza che i cereali di una nazione esistessero primariamente in modo che quella nazione (nella persona singola e in tutti i suoi cittadini) potesse nutrirsi.

La rivoluzione è stata tradita abbastanza chiaramente dalle generazioni di Dan Webster, Biddle, Morgan, Baruch, da mimetizzazioni di ogni tipo, Trotsky, Wallace, Perkins, dai due collettivi dei consiglieri di Roosevelt, da esseri come Morgenthau, nutriti fin dalla culla con preconcetti usurai, il risparmio degli ebrei.

Su questo termine voglio insistere. Il veleno semitico è nel semite temperato dall’instabilità semita, dall’oscillazione semitica da un eccesso all’altro. L’instabilità lo rende un pericolo per le razze statiche e di mentalità pratica. Ma nell’entourage orrendo, pericoloso e sovversivo, di Roosevelt vi è stato un ebreo, M. Ezekiel, che ha per primo inciampato verso un economia di ABBONDANZA nel suo 2,500 dollari all’anno. (Mordecai Brill Ezekiel, nato il e morì , è un economista americano specializzato nel New Deal n.d.t).

Questo libro è spregevole, tanto quanto uno scritto evasivo e semitico può essere, evita il vero problema del denaro. È un compromesso ebraico, ha tutto il desiderio di J. Simonic di un affare regolare e di una tranquillità generale, MA è meglio di Wallace e Perkins. E ogni ragionevole antisemita obbiettivo ammetterà anche che i fatti con cui Mordecai Ezekiel sta cercando di trovare un compromesso emergono dalla recensione di un comitato guidato dall’ebreo sportivo Loeb (il servetto del Sig. Hemingway).

Se credete che un’intera razza debba essere punita per la colpa di alcuni dei suoi membri, ammetto che l’espulsione di due milioni di ebrei a New York non sarebbe una punizione eccessiva per il danno commesso dalla finanza ebraica nei confronti della razza inglese in America.

Qualunque cosa il compagno Wyndham Lewis abbia detto sul fatto che gli ebrei che governano in Inghilterra svolgono un buon lavoro, gli ebrei NON governano in America in modo altrettanto soddisfacente, ma l’ebreo finanziere non è il nostro peggior nemico. Il nostro peggior cattivo è l’ebreo che è capace di prendere una strada sporca e di rimanerci senza alcuna deviazione o ombra di dubbio, senza nessuno momento ebraico di pietà, eccitazione o bisogno di ostentazione opulenta. Una razza può essere probabilmente considerata responsabile per i suoi peggiori individui. La razza ebraica non si è assunta per anni la responsabilità per il rafforzamento delle sue stesse leggi. Nella storia evangelica, che lo prendiate come fatto o come fantasia esemplificativa, l’esecuzione di Gesù veniva archiviata facendo scaricabarile. Il rafforzamento della legge si deve ai Romani. Se un uomo diventa antisemita, lasciate che sia obiettivamente antisemita. Lasciate che raccolga più prove possibile, e che non batta ciglio.

L’ebreo ha portato l’antisemitismo su di sé a causa della MANCANZA DI ORGANIZZAZIONE, rifiutando di assumersi le sue responsabilità. Se l’ebreo desidera vivere in un vicinato mondiale tra persone ILLUMINATE, deve sottoporsi alla disciplina dei meno piacevoli trasgressori della legge ebraica. Per quanto ne so, per circa 2,000 anni non è stato molto volenteroso di fare ciò. Nessun altra razza chiede di avere un paese governato per lei, o conquistato per lei, almeno non in Occidente. Se i bramini lo fanno, allora si meritano il nome di “sporchi negri”, e così, forse anche alcuni cinesi epigoni, non confuciani.

Il gabinetto di Roosevelt ha due malattie. L’usura di New York, che è collegata a tutta l’usura di Londra e quindi di Basilea e delle fogne di Parigi. Ma ha anche la cattiveria ebraica e l’avarizia dei seguaci di Perkins. Questa è la cattiveria del “parlamentare” e ha la persistenza del parlamento, la falsa morale dell’avarizia, nata quasi probabilmente dall’invidia ma in ogni caso condannabile.

La “dozzina di economisti” che il N. Y. Tribune ha elencato nel mese di novembre 1937, consigliando a Roosevelt di mettere fine al crollo, non merita nessuna pietà umana per il consiglio che gli hanno dato, anche se fosse stato dato dalla bruta ignoranza o dalla pura malizia. “Rafforzare la fiducia pubblica”ecc. Questi uomini hanno avuto l’opportunità di affrontare il problema di eguagliare il potere d’acquisto pubblico ai beni necessari disponibili, e hanno fallito, e non sono degni di alcuna compassione così come Neimeyer, Baruch, o qualunque genero dell’usura incorporata. Considerate questo e quello! Rivolgendoci allo stato organizzato, abbiamo un’imposta sul capitale INCORPORATO.

Questa mossa tremenda ha causato a stento un’increspatura sulla stampa nei paesi pseudo-democratici. I rossi piagnucolosi non lo hanno acclamato come un trionfo di idee. I documenti sui prestiti obbligazionari l’hanno definito come un imposta sulla proprietà privata. Nessuno dei grandi quotidiani ha distinto tra la proprietà (terreno, case, mobili) e una richiesta contro “ proprietà di più interesse” o “contro l’interesse “e la possessione totale se l’interesse non viene pagato puntualmente”. Naturalmente, non hanno fatto ciò, essi sono un retaggio, una mano morta e putrida dalla tomba, dalla fossa comune del XIX secolo.

Quel secolo è stato il traditore delle parole. Ha insozzato ogni idea luminosa del secolo precedente. Voltaire, il deista, venne fatto passare come un ateo. LIBERTÀ – che significava il diritto di fare quello che non danneggia gli altri, fu travestita dal diritto di ferire gli altri. UGUAGLIANZA secondo le parole di Jefferson significava che gli uomini avevano gli stessi diritti per legge; che nessun uomo era nato con un handicap insormontabile. Aveva un sentore del “un uomo è un uomo per questo” di Burns, ma non significava, al tempo di Jefferson, nemmeno suffragio universale. Il suffragio potrebbe essere un premio di merito. Non è stato definito rigorosamente come insieme dei membri di un partito, ma non è stato conferito a suini inconsapevoli. Prima che queste sanità mentali potessero essere contestate e violate era necessario che gli usurai tradissero i veri mezzi di comunicazione. Il linguaggio doveva essere storpiato. Ogni parola che veniva nobilitata doveva essere svuotata per coprire i gangster furtivi dei problemi bancari, il capitale di prestito.

La LIBERTÀ è impossibile senza l’ordine, e l’ordine viene dall’organizzazione. Una nazione agricola, come per la maggior parte quella di Jefferson, non aveva  bisogno immediato di un’organizzazione corporativa come ne avevano bisogno le città medievali e come l’hanno evoluta. Nessun sistema è infallibile e a prova di tempo. Sviluppate un meccanismo sociale perfetto e mettetelo in atto, e i figli dell’inferno inizieranno a raggirarlo; le sanguisughe inizieranno a succhiare sangue e i vermi infetteranno angoli lasciati incustoditi. La misura in cui la stampa ha sconcertato il lettore anglosassone in Inghilterra e negli USA è evidente in una lettera arrivata ieri e che ora è sulla mia scrivania, da un uomo senza dubbio imbecille. La cito per mostrare cosa può essere:

Nel suo ultimo libro Christopher Hollis dichiara che Mussolini ha dato all’Italia un sistema monetario decente togliendo ai banchieri privati il potere di creare denaro o credito arbitrariamente con una penna stilografica. Egli suggerisce che il governo controlli e determini l’emissione del denaro nel Paese. Riluttante dal prendere la sua parola da sola data la tale riforma rivoluzionaria in un’economia nazionale, che deve essere stata combattuta con i denti e con le unghie dai banchieri, vi chiedo se sia il caso. Se lo è, l’Italia sarebbe in luogo in cui andare.

Questo accadde nel novembre 1937; ovvero due anni dopo la riforma delle banche italiane. I fatti sono lì, ma il giovane uomo è stato talmente condizionato dalla stampa del capitale prestato che non può credervi senza la fidata parola di un amico.

Gent appena visto al Caffé qui sotto, appena arrivato dall’Inghilterra, non sapeva che la tassa fosse sul capitale incorporato, non su quello privato. Pensava di aver capito che cos’era successo. Aveva letto la breve nota non accentata nel suo giornale di Londra.

La rivoluzione russa fu la fine di un ciclo. Ha portato avanti il tradimento delle parole del XIX secolo, ha utilizzato una mistificazione della terminologia, come nel caso de “la dittatura del proletariato”, che in realtà significa dittatura di poche persone ecc. I bolscevichi ora non definiscono nemmeno le parole. Non vogliono la rivoluzione. Per lo meno nessuno che abbia incontrato su carta stampata, o nei giorni in cui chiedono una risposta. Non intraprenderanno una lotta per termini chiari, per una definizione chiara dei significati, cosicché nonostante quanto qualcuno possa non essere d’accordo con alcune cose destinate ad essere distrutte, uno non può semplicemente continuare a rimanere immobile, ancorato a loro. Non possiamo, o almeno non posso, al momento, ottenere delle informazioni più chiare dalla Russia su che cosa Stalin intenda in senso monetario. Nessuno ritiene che egli, Stalin, ne sappia qualcosa. Almeno non ho visto nessuna dichiarazione del genere, e il suo opponente, Sig. Bronstein, non è più trasparente di lui. Da qui la Intelligentzia rosa.

Non hanno intenzione di definire le parole. Non hanno intenzione di collezionare informazioni. Non cercano di riportare gli eventi reali in questa penisola, come gli atti di Rossoni e le dichiarazioni chiare.

“Nell’ammasso di cereali vi è, inoltre, una ragione politica: il pane dovrebbe essere garantito ad ogni italiano, senza nessuna assurda differenza di prezzo, senza speculazioni immorali.” Rossoni ammette che questa non è un tipo di economia nuovo, o almeno le sue parole sono “non abbiamo raggiunto una nuova economia”. Abbiamo, in ogni caso, progredito dalla carota-davanti-al-naso (“ricerca” della felicità). Edmondo Rossoni 1884 – 1965 fu membro del Gran Consiglio, votò per l’ordine del giorno Grandi e si salvò poi grazie ai Salesiani che lo protessero. Ex Socialista. Fu l’architetto delle Corporazioni e delle riforme del Lavoro NdE.

In un certo senso questo rappresenta più o meno un ritorno al sistema dei nove campi ammirato da Menciù. Dal lato negativo non equilibra direttamente il denaro a una quantità di beni consumabili. Ma, dall’altro lato, è efficace, perché ogni controllo onesto di prezzo per il pubblico, e del bene pubblico, influenzano il potere d’acquisto del denaro esistente. Due anni fa un italiano, famoso quanto Rossoni o forse ancora di più, ma non nel Gabinetto, mi ha scritto:

“Le due malattie della società moderna sono la legalizzazione dell’usura per via bancaria e la legalizzazione del furto nelle leggi sulla società a responsabilità limitata”.

Era una lettera privata e non ho mai saputo se fossi libero di citarla. Ora mi sento abbastanza libero di farlo, dato che tale idea non è più imprudente. Che la lettera fosse originariamente un’opinione privata o un’indicazione di cosa sarebbe diventato pubblico al momento adatto, l’idea di fondo è stata messa in pratica IN ITALIA.

Si può misurare il corso Fascista attraverso vari gradi:

  1. Nella Consegna, anno XII: “disciplinare le forze economiche e equipararle ai bisogni della nazione.”
  2. Il discorso di Milano dell’autunno seguente: “risolto il problema della produzione, gli economisti spronati dallo stato dovrebbero risolvere il problema della distribuzione.”
  3. La dottrina di C. H. Douglas. In analogia con la politica di Jefferson. Le basi di un’economia stabile sono state le stesse per millenni. Certamente una nazione non può pagare un dividendo in modo appropriato e onesto finché non ha i mezzi per dividerlo.

Questi possibili metodi di distribuire il potere d’acquisto avrebbero bisogno di un intero numero di questo giornale per essere descritti.

Per mantenere la lode in vera misura, gli anti democratici devono ammettere che la Costituzione americana dà al Governo degli Stati Uniti il pieno potere di centralizzare la propria moneta. Non è niente di più di una sbavatura di Roosevelt e di una fandonia di Baruch per pavoneggiarsi sulla costituzionalità. Il Congresso degli Stati Uniti, se fosse onesto e supponendo che contenga poche dozzine di uomini tra le sue centinaia di scimmie, potrebbe fissare domani il potere d’acquisto del dollaro a uno staio o qualsiasi altra misura di cereali, a sei libbre della miglior bistecca di manzo, a due yard di stoffa o quattro libbre di lana di un certo livello, o qualunque cosa fosse trovata appena dopo un’accurata ricerca di risorse nazionali.

Nessuno a parte un bugiardo o un uomo che lotta per un vantaggio politico personale può cercare di oscurare questo. Negli USA NON è un difetto dello strumento verbale del Governo, ma una marcia radice di volontà o una pura ignoranza animalesca che impedisce queste riforme.

Se tali riforme fossero Fasciste, sarebbe un Fascismo Jacksoniano. Ogni Paese ha bisogno di una forma di ordine. La guerra ispano-americana, quando noi bambini (bambini del mio tempo) venivamo violati, introdotti a un gergo sull’ordine aperto. Potrebbe essere che le ultime isole e il continente americano richiedono un ordine aperto, non adatto all’Europa in quanto continente. Ma in ogni caso proviamo a vedere cos’è, cos’è stato, e lasciateci provare a tenere queste realtà separate da quello che Milords Bunkum e Wunkum ci dicono, e ci hanno detto nei loro giornali.

La disciplina delle truppe in aperta formazione differisce da quella delle truppe sotto Braddok, che hanno provato a combattere gli Indiani prima del 1776. Mi scuso per i confronti militari se ci fossero i modi per me per fare questo. Ma vorrei descrivere il mio punto di vista in qualche modo. Vorrei istituire una vera demarcazione per le parole “libertà”, “ordine”, “responsabilità”, “equivocità”.

La recente dichiarazione di Mussolini che “il Capitale è al servizio dello Stato”, è la risposta alla sentenza di Adam Smith: “gli uomini dello stesso commercio non si incontrano mai senza una cospirazione contro al pubblico in generale”.

La cosa dannabile sulla stampa, e sugli pseudo-economisti assunti è che non sottolineano mai la reale grandezza degli scrittori che professano di ammirare, e a cui attribuiscono le loro teorie deleterie. Questo detto di Smith era vero.

Il XIX secolo non l’ha mai affrontato. Aveva bisogno di un centinaio di anni e del figlio del fabbro dalla Romagna per trovare le sua risposta e il suo equilibrio. Perciò varie corporazioni, o organizzazioni ad alta guida centralizzata, incluso la corporazione de “Previsione e Credito”. Il credito proclamato come sangue vitale.

Il resto di questo articolo è applicato per rispondere a dichiarazioni eterogenee di scrittori onesti. Qualcuno deve provare a correlare il pensiero attuale, deve cercare di eliminare alcune incomprensioni, anche se non appartengono tutti alla stessa parte del soggetto.

Come postilla in risposta alla lettera che indaga sul fatto che l’Italia abbia creato il suo stesso denaro. L’Italia crea il suo denaro, ma il credito è un prodotto umano naturale. Quindi finché un uomo crede nell’altro, nessuno stato può prevenire TOTALMENTE piccole toppe di credito individuale dallo sbocciare come l’erba, per natura, benevola e fraterna.

L’Italia non ha una idolatria statale. La frase “culto dello stato” è stata coniata nell’ignoranza, e a scopo di propaganda.

Si può capire direttamente dalla bocca della fontana. Lo stato in Italia non è lì per sopprimere l’iniziativa individuale, ma per prevenire abusi e per trovare una giusta misura quando interessi contendenti non hanno al loro interno un senso sufficiente a trovare la propria soluzione.

Per replicare a una dozzina di corrispondenti e per mettere fine a una dozzina di conversazioni, SÌ, ci sono difetti nello stato corporativo italiano in questo momento E sono dovuti alla superstizione, agli avanzi, e alle sporche abitudini di ex monopolisti. Ci sono in Italia, come in tutti i paesi, porci umani, e menti torbide e pigre che proseguono nella stessa vecchia pozzanghera, cercando di sabotare, di fregare i loro vicini, prevenendo persone semplici e ingenue dall’ottenere il massimo dei risultati da sé stessi e tanto quanto dal pubblico che le loro attività potrebbero coinvolgere.

Ma è un mio credo fermo che questi difetti saranno affrontati in funzione dell’ordine. Non ho ancora trovato nessuna tendenza a scoraggiare qualcuno che si sia offerto di combattere contro questi ostacoli in diminuzione, o “mulini a vento” per conto proprio.

“La donazione dei romani è la misura”, con questo intendo che il genio Romano per più di 2000 anni è stato un genio per la misura.

Vi sono limiti al potere dello stato (su qualunque teoria esso si basi), alcune cose lo stato NON le può fare. L’immoderato esperimento russo è ora impegnato nell’illustrare cosa succede quando lo stato prova a farsi troppo carico oltre il suo Plimsoll.

Il XIX secolo ha provato a farcela senza zavorra. L’Italia di Mussolini è forse il primo stato che si chiede seriamente quanta libertà può essere lasciata nelle mani private senza che venga mandata in rovina. Intendo che nessun altro stato ha mai esaminato questa questione così seriamente.

I seguaci di Jefferson attaccavano i demoni del privilegio e il marciume della tirannia finanziaria centralizzata. Sapevano che per quell’epoca non sarebbero stati in grado di andare oltre l’avversario.

Se non credessi che il Fascismo in Italia abbia significato il pieno sviluppo e il massimo campo di libertà individuale compatibile con un ordine sociale sano dovrei essere tanto antifascista quanto i ragazzi esclusivi e gli pseudo-letterati francesi, che ancora non sanno che qualcosa è cominciato in Italia. A ognuno è permesso credere nella libertà attraverso l’ordine. È molto più probabile ottenerlo con norme di traffico decenti che tramite teste di gallina o con la disinvoltura, come quell’eroe che è riuscito a sparare al suo stesso cammello durante un attacco con i cammelli  (Lawrence d’Arabia n.d.e).

Ora sono tanto preoccupato dalla mancanza di circolazione di notizie politiche ed economiche, o meglio di notizie riguardanti lo stato del pensiero economico, quanto lo ero 25 anni fa, riguardo alla mancanza di notizie reali sui libri. Non vi era allora, alcun posto dove si potesse sapere in modo pratico cosa si stava scrivendo all’estero. Un serio antifascista oggi vorrebbe sapere contro cosa si oppone, e se i suoi bersagli preferiti corrispondano a una realtà oggettiva e ancora esistente.

“Vi è” dice Karl Winter, nell’edizione di ottobre di Civiltà Fascista, “un antifascista nel mondo democratico che è istruito e in mala fede, vi è anche un antifascista ignorante e in buona fede”.

Consiglio quell’articolo di Winter, e che cosa ha da dire sulla sinistra in qualità di elemento costruttivo nei paesi totalitari. Beniamino de Ritis contribuisce anch’egli a quell’edizione.

Ho detto ripetutamente che chiunque voglia amare o odiare la nuova Italia in modo intelligente, deve leggere almeno alcune delle riviste mensili italiane, come La Stirpe di Rossoni, La Revista del LavoroCritica Fascista, o Rassegna Monetaria, editate dal Prof. Spinedi, dal Senatore Bevione e da Furio Lenzi.

Infine, vi è un’espressione nell’ammirabile articolo di Montague Fordham nel B.U.Q. di dicembre che vorrei vedere più chiaramente definita. Quando egli “dubita il valore dei problemi economici speciali per i consumatori in quanto tali” non sono sicuro di che cosa intenda. Non potrebbero alcuni lettori pensare che tali problemi siano una parte della tesi essenziale di Douglas? Non lo sono.

In quanto mera questione di equiparare il potere d’acquisto totale ai beni voluti disponibili, la discrepanza, quando ve n’è una, potrebbe teoricamente essere realizzata nel mercato immediato da chiunque che creerebbe e che spenderebbe nuovo denaro (o credito).

Molti dei anti Douglasiti hanno visto che la distribuzione a i più bisognosi significa spesa più veloce. Il (dannato) sussidio di disoccupazione britannico viene certamente dato a persone NON coinvolte nella produzione, ovvero, ai produttori a tempo determinato. Il “tempo determinato” è una teoria piuttosto sottile nei casi di uomini che da otto anni non lavorano.

Ma il dividendo di Douglas è dato, come mi sembra di ricordare che il Major ci abbia detto, agli azionisti, in quanto tali, della nazione. Gli viene dato in rispetto al lavoro (prevalentemente inventivo, ma anche lavori di costruzione di stabilimenti) messo in atto dai nostri predecessori, ovvero, da lavoratori che non sono più qui a magiare cibo e utilizzare abitazioni.

Non so se il Sig. Fordham consideri l’assegno per i figli, in Italia, come destinato ai futuri produttori o ai produttori a tempo determinato; è certamente fatto per consumatori immediati e non produttori a tempo determinato.

Vi sono per lo meno le seguenti alternative, che comportano le seguenti condizioni.

Il problema del credito – se non viene considerato un problema diretto dei “sinistri misurati” non fruttiferi, ad esempio le banconote (come venne compreso almeno dal 1816 da Jefferson e da tutti gli economisti informati da allora) vengono emesse prendendo in prestito e pagando interessi, e vorrei sapere chi il Sig. F. pensa che debba ricevere tale interesse, anche se dovesse tanto vile da supporre che il Sig. Roosevelt lo debba pagare ai sostenitori di vecchie idee. I problemi del credito preso in prestito sono considerati debito. I problemi del credito non preso in prestito sono problemi monetari.

Il Sig. Fordham afferma “specifici problemi di soldi”, e non voglio ingiustamente leggere in questo il significato di “problemi di speciali tipi di” soldi.

Voglio però, in ogni caso, rendere chiaro che un problema di moneta d’Avigliano o una cambiale di Gesellite con le sue spese di controstallia è un problema di sinistri misurati che spariscono in 100 mesi, senza lasciare alcun debito.

Douglas definisce i francobolli mensili come una tassa, ma ancora voglio sottolineare che lo stato, nel fornire una misura di scambio che sia anche un diritto scambiabile, mette in atto un servizio e che il francobollo mensile può essere considerato come una ricompensa per tale servizio. Esso, in ogni caso, elimina il bisogno di ogni altra tassazione fino ad un importo all’anno pari al 12 per cento del certificato in circolazione.

  • molto più facilmente comprensibile di ogni schema di cancellazione di Douglas. Il suo valore pedagogico è enorme. Intendo che anche persone semplici che hanno utilizzato tale tipo di denaro hanno un’idea molto più chiara di che cosa SIA il denaro di quanto ce l’hanno gli studenti di un corso generale di “economia” di Cambridge.

Vi sono numerosi schemi alternativi per le spese di controstallia sul potere d’acquisto inutilizzato, ma nessuna di esse è così genericamente educativa. Il piano di Milhaud, ad esempio, educherebbe solo pochi esportatori e importatori e solo alcuni dei loro seguaci.

Naturalmente, se si emette credito o denaro o addirittura speciali tipi di denaro in eccesso dei beni VOLUTI disponibili si ha l’inflazione, che è, una malattia, che sconfigge lo scopo dell’emissione, A MENO CHE il governo non mantenga i prezzi fissi, come richiesto da Douglas cosa che è attualmente ATTIVA oggi in Italia.

La svalutazione è un imbroglio e, inoltre, è una riduzione drastica della quota di potere d’acquisto in generale. L’uomo che sceglie il tempo di svalutazione può sempre reclutare qualcun altro. Anche se le sue intenzioni sono decenti, egli tenta e quasi forza la speculazione attraverso truffatori e uomini in difficoltà che faticano a vivere nel crogiolo del mercantilismo e nell’inferno di un ambiente mercantilistico e usuraio.

I possessori d’oro, essendo stati molto più intelligenti, scaltri e sanguisughe del generale pubblico, hanno naturalmente e (se non fossimo così idioti) costruttivamente, istituito fondi di stabilizzazione, così da poter proteggere i PROPRI interessi.

Uno SCHIAVO è colui che aspetta che qualcuno lo venga a liberare.

Ezra Pound

 

(trad. Giulia Molinari)

Oswald Mosley, nel 1933, espose le basi filosofiche del Fascismo

Oswald Mosley, nel 1933, espose le basi filosofiche del Fascismo

Questo discorso, tenuto da Sir Oswald Mosley, mercoledì 22 Marzo 1933, alla English Speaking Union, non è mai stato pubblicato prima in Italia. 

Le Basi Filosofiche del Fascismo

I nostri oppositori sostengono che il Fascismo non possieda, né un background storico, né una filosofia, e questo pomeriggio è dunque mio compito suggerire che il Fascismo ha radici profonde nella storia ed è stato sostenuto da alcuni dei voli più raffinati della mente speculativa. Io sono, ovviamente, consapevole del fatto che solo una piccola parte della sua filosofia venga menzionata assieme alle nostre attività nelle colonne dei quotidiani, e quando avete letto che tenevo una lezione sulla “Filosofia del Fascismo”, probabilmente molti di voi avranno detto: “Cosa c’entrerà questo gangster con la filosofia?”. Tuttavia, penso che voi crediate che quei grandi specchi dell’immaginario pubblico non sempre riflettano un’immagine accurata, e mentre leggete dei momenti più emozionanti del nostro progresso, sono però altri momenti, i quali possiedono una certa profondità di pensiero e di concezione costruttiva.

Fin’ora è in qualche misura vero che la filosofia fascista non ha assunto una forma concreta e ben definita, ma è doveroso ricordare che la fede fascista esiste da poco più di dieci anni: è una creatura dell’ultimo decennio. Tuttavia, il suo background filosofico è già capace di alcune formulazioni, e ciò è accaduto in un tempo molto più ridotto rispetto al corrispondente sviluppo di altre grandi fedi politiche nella storia. Il movimento fascista stesso, in diversi grandi paesi, sta avanzando verso il potere ad una velocità fenomenale, tanto che la fede e la filosofia fasciste come concetto permanente, come attitudine alla vita, stanno avanzando molto più velocemente delle filosofie di altre fedi. Prendete ad esempio il Liberalismo: è trascorso molto tempo tra gli scritti di uomini come Voltaire e Rousseau, e la formazione finale del credo liberale nelle mani degli uomini di stato inglesi, tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo.

Infatti, questi grandi movimenti politici e sconvolgimenti psicologici si sono cristallizzati in un sistema di pensiero definito solo in modo molto lento, così come nel sistema d’azione; e nel caso fascista è probabilmente piuttosto presto per aspettarsi che in dieci anni abbia già assunto una forma cristallizzata. Nonostante ciò io credo che la filosofia fascista possa essere espressa in termini intellegibili, e mentre dona un contributo completamente nuovo al pensiero del nostro tempo, può ancora essere dimostrato che la sua origine e la sua base storica derivano dal pensiero instaurato del passato.

In primo luogo, sostengo che molte filosofie d’intervento derivano dalla sintesi dei conflitti culturali di un periodo precedente. Laddove, in una era di cultura, di pensiero, di speculazione astratta, si trovano a convivere due grandi culture in forte contrapposizione, solitamente, nelle successive sfere di azione si trovano alcune sintesi concrete tra le due forti antitesi che portano ad un pratico credo di intervento. Tale concetto vi sembrerà che suggerisca, in una certa misura, un approccio Spengleriano; ed è inoltre vero che il grande filosofo tedesco ha contribuito probabilmente, più di chiunque altro, a incidere nell’ampio background del pensiero fascista. Ma esso è un background molto vasto. Il pensiero fascista emerge da un grande contesto di storia mondiale. Non molto più di questo. E probabilmente che sia inibito dal giungere sempre più vicino al soggetto del suo innato pessimismo, il quale, a suo modo, io ritengo umilmente emerga dalla sua totale ignoranza della scienza moderna e dello sviluppo meccanico.

Se guardate la realtà attraverso le lenti spengleriane, giungerete a una conclusione di estremo pessimismo, in quanto oscurano il fattore che per la prima volta mette nelle mani dell’uomo l’abilità di eliminare il problema della povertà. E io credo che l’incomprensione da parte del nostro filosofo tedesco di questo nuovo immenso fattore lo conduca alla sua conclusione pessimistica. Nonostante ciò, questo non compromette in alcun modo il suo enorme contributo al pensiero mondiale.

Voi dedurrete giustamente che il mio pensiero riguardo al matrimonio tra culture apparentemente antitetiche porterà nel successivo periodo dell’azione alla produzione di un figlio filosofico del tempo, il quale verrà espresso con l’intervento, abbia qualche derivazione dal pensiero spengleriano. Ma penso di potervi mostrare in modo pratico che questa tesi funziona nel caso del fascismo. Vi vorrei ricordare che nell’ultimo secolo, la sfida intellettuale più grande è derivata dal tremendo impatto del pensiero nietzschiano sulla civiltà cristiana, vecchia di duemila anni. Tale impatto è stato riconosciuto dopo molto tempo. Ma il suo impatto si rivela ai nostri occhi solo oggi. Svoltando dove si vuole nel pensiero moderno, si troveranno i risultati di quella colossale lotta per la padronanza della mente e dello spirito dell’uomo. Vi era una religione che, per quanto riguarda l’interesse dell’Occidente, ha largamente dominato il pensiero umano per molti secoli. E, all’improvviso, per la prima volta, quella religione e quel pensiero sono stati sfidati concretamente, e le loro fondamenta in quel momento vennero scosse ad ogni livello. Fu condannata con energia furibonda e con genio straordinario – condannata radicalmente.

Non sono io, come potrete accorgervi in seguito,  che mi pronuncerò contro la Cristianità, perché vi dimostrerò come credo sia possibile che le dottrine nietzschiana e cristiana possano essere capaci di sintesi. Ma a questo punto è necessario che io esamini le differenze essenziali di questi due credi, e che osservi dove sono accumulate le differenze e dove le somiglianze emergono.

Nietzsche ha messo in discussione, come sapete, i principali pilastri del pensiero cristiano. Ha affermato infatti: “Questa è la religione dello schiavo e del debole. Questa è la fede delle persone che sono in lotta con la vita, che non affrontano la realtà, che cercano la salvezza in qualche onirico aldilà – la salvezza che essi non hanno la vitalità né la virilità di conquistarsi da soli qui sulla terra. Ciò deriva da uno spirito di debolezza e di resa”. Egli l’ha definita in una grande citazione, se ricordo correttamente, come la “religione che ha incatenato e indebolito il genere umano”.

E con rispetto a questa fede ha creato il concetto del superuomo, l’uomo che affronta le difficoltà, il pericolo, che va oltre le cose materiali e attraverso le difficoltà dell’ambiente per raggiungere, vincere e creare, qui sulla terra, un suo mondo. Era una sfida all’intera base dell’esistenza, non solo al pensiero. E ha scosso le fondamenta del pensiero mondiale. Deve essere apparso, a coloro i quali erano seriamente coinvolti alla controversia del tempo, che l’uno o l’altro credo doveva rivelarsi vittorioso, mentre l’altro doveva sopperire, in modo che ogni combinazione, ogni sintesi tra le due dottrine conflittuali fossero totalmente fuori questione.

Ora credo che, come spesso accade nella vita di tutti i giorni, quei credo che appaiono così diversi sono al contrario soggetti a qualche riconciliazione se esaminati più da vicino, e quindi è possibile una certa sintesi; e penso di potervi mostrare realmente che, nella dottrina fascista di oggi, potete trovare un completo matrimonio tra le principali caratteristiche di entrambe le fedi. Da una parte troviamo nel Fascismo, derivanti dalla cristianità, derivanti direttamente dalla concezione cristiana, l’immensa visione del servizio, dell’abnegazione, del sacrificio per le cause altrui, del mondo e della patria; non l’eliminazione dell’individuo, piuttosto la fusione dell’individuo in qualcosa molto più grande di egli stesso; e così avete la la dottrina di base del Fascismo – servizio, dono di sé – che il Fascista deve concepire come la più grande causa e il più grande impulso al mondo.

Dall’altra parte si trovano, derivanti dal pensiero nietzschiano della virilità, la sfida rivolta a tutte le cose esistenti che impediscono l’avanzare del genere umano, l’assoluta abnegazione della dottrina della resa, la forte abilità di affrontare e di superare tutti gli ostacoli. In tal mondo avrete la creazione di una dottrina fatta di uomini di vigore e di auto assistenza, che è l’altra caratteristica eccezionale del Fascismo.

Per questo – penso di poter affermare – troviamo alcuni punti di unione tra queste due grandi dottrine espressi nel credo pratico del Fascismo di oggi. E ciò, infatti, risolve la nostra completa attitudine alla vita. Possiamo adattarla ai dettagli più insignificanti dell’intera esistenza. Dal concetto più ampio e astratto possiamo arrivare alle cose più concrete della vita quotidiana. Pretendiamo da tutto il nostro popolo una concezione fondamentale del servizio pubblico, ma gli concediamo anche in cambio e, crediamo che la concezione fascista dello Stato dovrebbe concedere, assoluta libertà. Nella sua vita pubblica, un uomo si deve saper comportare come un membro forte dello stato, in ogni sua azione egli deve essere conforme al benessere della Nazione. Dall’altro lato egli riceve dallo stato, una libertà completa di vivere e di svilupparsi come individuo. E nella nostra morale – e credo di poter affermare che solo la morale pubblica, nella quale la pratica privata coincide, con la protesta pubblica – l’unico singolo test di ogni questione morale è se essa impedisca o distrugga in qualsiasi modo il potere dell’individuo di servire lo Stato. Egli deve dare una risposta alle domande: “Questa mia azione danneggerà la nazione? Danneggerà altri membri della Nazione? Danneggerà la mia stessa abilità di servire la Nazione?” e se la risposta sarà chiara, l’individuo possiederà  libertà assoluta di fare ciò che vuole; e questo gli conferisce la più grande misura di libertà, all’interno di uno Stato, che ogni sistema statale o qualsiasi autorità religiosa abbia mai conferito all’uomo.

L’approccio più prossimo al test morale era probabilmente l’approccio della civiltà greca, nella cui organizzazione vi era, ovviamente, un concetto di Stato non molto inferiore a quello fascista di oggi. Quell’atteggiamento, quel contesto filosofico impone al Fascista alcune regole di condotta sociale molto chiare, che equivalgono ad una dettagliata sfida all’ordine esistente delle cose, anche se non entreremo nel dettaglio, mostreremo che questi principi generali siano adatti a essere ridotti al dettaglio. Infatti, consideriamo altrettanto ridicolo un sistema in cui un uomo può venire punito se rischia di danneggiare sé stesso bevendo un whisky dopo l’orario nel quale è legale farlo, ma che, nelle sua veste pubblica di grande o piccola figura pubblica, può agire in un modo che potrebbe minacciare l’intera struttura dello Stato rimanendo completamente impunito. Se corre il minimo rischio di farsi male, l’intera macchina della legge viene mobilitata contro di lui, eppure nelle sua veste pubblica potrebbe minacciare l’intera vita della Nazione: potrebbe mettere in pericolo i principali pilastri dello Stato.

Il principio fascista è libertà nel privato e servizio nel pubblico! Ciò ci impone, nella nostra vita pubblica, e nella nostra condotta nei confronti degli altri uomini, una certa disciplina e un certo ritegno; ma solamente nella nostra vita pubblica; e dovrei affermare davvero molto fortemente che l’unico modo per ottenere la libertà nel privato sia attraverso una organizzazione pubblica che porti ordine al di fuori del caos economico che sia presente nel mondo attuale, e che tale organizzazione pubblica possa essere garantita attraverso i metodi di autorità e disciplina, che sono insiti nel Fascismo.

Ritornando al campo filosofico, tuttavia, troviamo una certa disciplina che viene imposta al Fascista in modo naturale dalla sua filosofia, un ordinato atletismo, come lo chiamo io, e un senso di fiducia nella leadership, un credo nell’autorità, che sono alieni ad altri movimenti. Ed ecco qui che ci ritroviamo in collisione con i dogmi del Socialismo e del Liberalismo. Il Socialismo si differenzia, ovviamente, in modo netto dal Liberalismo nella sua concezione di organizzazione economica, ma per ciò che riguarda la filosofia penso vi siano pochi Socialisti o Liberali che si troverebbero in disaccordo nell’affermare che hanno realmente un origine comune se si ritorna abbastanza indietro nel tempo, nell’atteggiamento nei confronti della vita di Voltaire e di Rousseau; e soprattutto questi ultimi. Ora non sarebbe bene che vi mostrassi la differenza fondamentale che emerge tra Liberalismo e Socialismo da un lato, e Fascismo dall’altro? Rousseau, nella nostra ottica, potrebbe aver commesso un enorme errore o potrebbe essere stato frainteso. Rousseau menzione l’uguaglianza. Noi rispondiamo, se si riferisce all’uguaglianza nelle opportunità, sì; se si riferisce all’uguaglianza fra gli uomini allora no. Ciò è un’ assurdità. Personalmente credo che se letto accuratamente, Rousseau intendesse uguaglianza di opportunità, e che il principale attacco di Rousseau sia diretto, e giustamente, al decadente sistema sotto il quale visse. Egli affermò in effetti “ È ridicolo che questi nobili oziosi e decadenti della Francia” (come certamente erano al tempo) “debbano pretendere per sé stessi privilegi che mettono a repentaglio la vita della Nazione. L’uguaglianza di opportunità è un concetto fondamentale. Lasciate che governino coloro che sono adatti a governare.” Questa era una rivolta contro il privilegio, un affermazione che l’uomo di talento e di capacità deve essere colui che conduce gli affari di una grande nazione. Ma di tale dottrina si impadronirono tempo dopo i suoi discepoli interpretandola come l’uguaglianza tra gli uomini, come se tutti gli uomini fossero uguali.

Da questa costruzione deriva l’intero errore, così come lo vediamo. È un’assurdità chiara ed evidente. Un uomo, in mente e fisico, si differenzia immensamente da un altro. Non è una questione, come spesso dicono i socialisti, di uguaglianza morale o spirituale. È una cosa totalmente diversa. Moralmente e spiritualmente, l’uomo che pulisce il pavimento di una grande impresa potrebbe essere molto superiore rispetto all’uomo che la dirige. Ma la questione è: quale uomo sia predisposto a fare quel lavoro. Qual è il ruolo esatto che deve ricoprire? Alcuni sono bravi in una cosa e altri in un’altra. Certamente eliminiamo nel suo insieme la concezione di classe sociale del Fascismo perché quella si basa sulla possibilità di eredità, ma affermiamo che certe persone sono adatte per natura a svolgere certi compiti, e altre non lo sono. E una volta adottata questa chiave di pensiero, viene sfidata l’intera concezione di democrazia.

In questo modo viene sfidata la convinzione che ogni questione nel mondo, per quanto complessa, può essere risolta da chiunque, anche se inesperto; e visto sotto alla stessa luce, è una cosa assurda che un tecnico di governo o in qualsiasi altro ambito possa essere istruito da persone che si sono occupate della questione per circa cinque minuti all’anno. Se entrassi in uno studio di ingegneri, guardassi l’ingegnere svolgere il suo lavoro, e iniziassi poi a dirgli come deve essere svolto, egli mi direbbe -giustamente- che non sono nient’altro che un arrogante. Allo stesso modo, il fatto che un uomo che non ha svolto alcuno studio riguardo i problemi del paese dovrebbe posare il suo bicchiere di birra sul bancone, recarsi al seggio elettorale e fornire istruzioni dettagliate su come dovrebbe essere governato il suo paese nei quattro anni successivi, ci sembra una nozione ridicola. “Tutti gli uomini sono uguali e tutti gli uomini sono ugualmente qualificati per esprimere un parere su qualsiasi questione, a patto che tale questione sia tanto complessa quanto il governare un paese”: questa è l’interpretazione posta dalla socialdemocrazia in merito agli scritti di Rousseau e questo concetto è evidentemente assurdo. Questa è, in ogni caso, la base filosofica dell’intero sistema democratico. Noi quindi diffidiamo che il concetto di fondo che tutti gli uomini siano pari a giudicare su ogni problema. Noi accettiamo e facciamo nostra l’uguaglianza di opportunità e ci opponiamo -dobbiamo opporci- al concetto di eredità privilegiata.

Nel momento in cui un uomo si è dimostrato tale, potrebbe essere capace di ricoprire le cariche più alte del paese, e il nostro intero sistema educativo dovrebbe essere volto a questo scopo. Ma non potrebbe raggiungere la carica massima solo perché suo padre o suo nonno l’hanno ricoperta prima di lui. Quindi da una parte sfidiamo il privilegio della Destra, e dall’altra sfidiamo la ridicola dottrina della Sinistra che tutti gli uomini siano uguali per natura. Ora voi direte, magari avendo in parte anche ragione, che queste dottrine sono già state sentite prima, che questo era alla base del Bonapartismo, o andando ancora più a ritroso alla sua origine, costituiva la base del Cesarismo.

È, certamente, vero che il Fascismo ha una relazione storica con il Cesarismo, ma il mondo moderno è molto diverso nelle forme e nelle condizioni dal mondo antico. L’organizzazione moderna è troppo vasta e troppo complessa per gravare su un solo individuo, non importa quanto dotato. Il moderno Cesarismo, come tutte le cose moderne, è collettivo. La volontà e il talento del singolo individuo vengono sostituite dalla volontà e dall’abilità delle migliaia di disciplinati che costituiscono un movimento Fascista. Ogni camicia nera è una cellula individuale di un collettivo Cesarismo. La volontà organizzata delle masse devote, oggetto di una disciplina volontaria, e ispirata all’ideale passionale della sopravvivenza della nazione, sostituisce la volontà di potere e di ordine superiore dell’individuo superuomo. In ogni caso, questo Cesarismo collettivo, armato degli strumenti della scienza moderna, si trova nella stessa relazione storica con il Cesarismo da un lato e con l’anarchia dall’altro. Il Cesarismo si è schierato contro lo Spartachismo da una parte e contro il Senato patrizio dall’altra. Tale posizione è tanto vecchia quanto la storia degli ultimi duemila anni. Ma a quei tempi sono mancate le opportunità per un obiettivo costruttivo, che invece sono presenti oggi, e l’unica lezione che possiamo trarre dalle scoperte precedenti fatte da questa dottrina è semplicemente questa: che ogni qual volta il mondo, sotto l’influenza di Spartaco si dirige verso il collasso completo e il caos, è sempre quello che Spengler chiamava il “grande uomo d’azione” a portare fuori dal caos il mondo e a dare all’umanità molto spesso secoli di pace e di ordine con un sistema nuovo e con una nuova stabilità. E così si è fatto, ed era stato fatto, da i movimenti fascisti moderni “riconoscendo alcuni fatti fondamentali di politica e di filosofia”. E ancora una volta si ha un matrimonio tra due dottrine apparentemente conflittuali. Veniamo spesso accusati di prendere qualcosa dalla Destra e qualcos’altro dalla Sinistra. Comunque, dimostra grande sensibilità il fatto di prendere in prestito da altre fedi, di tralasciare ciò che non va bene e tenere ciò che è buono, e direttamente ci si allontana così dalla vecchia mentalità parlamentare, e si vede di conseguenza la saggezza di ogni tale corso. E il Fascismo ovviamente fa propri aspetti della Destra e della Sinistra, e ad essi aggiunge nuovi elementi per restare al passo con l’era moderna.

In questa la nuova sintesi del Fascismo, che si avvicina sempre più alla nostra attuale situazione, noi troviamo e costruiamo il grande principio della stabilità supportata dall’autorità, dall’ordine, dalla disciplina, i quali sono contributi della Destra, e li sposiamo con il principio del progresso, del cambiamento dinamico, che prendiamo invece dalla Sinistra. Il Conservatorismo – chiamandolo con il nome con cui è conosciuto in questo paese – crede nella stabilità e la sostiene grazie alla sua fiducia nell’ordine, ma l’ambito in cui il conservatorismo ha sempre fallito nel mondo moderno è l’incapacità di comprendere che la stabilità può essere raggiunta solamente tramite il progresso: che una resistenza ferma al cambiamento faccia precipitare la situazione rivoluzionaria, cosa che il Conservatorismo teme di più. Dall’altra parte, la Sinistra ha sempre fallito nel riconoscere, grazie al loro complesso di Rousseau, che l’unico modo di raggiungere il progresso è di adottare gli strumenti esecutivi attraverso cui il cambiamento viene reso possibile.

Siamo giunti, quindi, a questa conclusione: che la stabilità si può avere solo se si è preparati ad attraversare cambiamenti ordinati, in quanto per rimanere stabili ci si deve adattare agli avvenimenti della nuova epoca. Dall’altra parte il progresso si può raggiungere, cosa che la Sinistra si auspica, adottando gli strumenti esecutivi del progresso, rispettivamente, autorità, disciplina e lealtà, i quali sono sempre stati ritenuti appartenenti agli ideali di Destra. Unendo questi due principi, possiamo costruire le basi del Fascista e dell’organizzazione del Fascio.

E ancora voi direte: “Questo è ancora una volta un esempio di Cesarismo o di Bonapartismo. Ha terminato di essere una questione di sola leadership individuale. Il meccanismo con cui abbiamo a che fare è troppo vasto per qualunque individuo da gestire da solo. Quindi è diventato un Cesarismo collettivo -la leadership di una massa organizzata e disciplinata, unita insieme in una disciplina volontaria da ideali di rigenerazione nazionale e globale che lo ispirano con entusiasmo. Ma i principi basilari rimangono gli stessi, e, di conseguenza, mentre il movimento fascista adempie alle finalità a cui il Cesarismo ha adempiuto in precedenza, potrebbe mettere ordine al caos evocato dal conflitto tra Spartaco e la reazione contro di esso, potrebbe portare pace nel mondo per diversi anni o secoli, ma porta con sé la sua stessa rovina, e non riesce a portare a termine ciò che davvero crediamo sia necessario”.

Credo che la risposta a tale argomentazione, che è anche l’unica valida da porre, è che nelle epoche precedenti il fattore della scienza moderna era assente. Ora c’è un fattore completamente nuovo. Se si riuscisse a introdurre nel sistema di governo una nuova efficienza, e tutti riconoscessero che tali movimenti quando salgono al potere sono tutto tranne che efficienti: se si portasse al governo anche solo per pochi anni un potere esecutivo e una dirigenza che riesca a ottenere risultati, si potrebbe liberare  – e lo farete – il genio imprigionato della scienza, affinché esegua il compito che è tenuto a realizzare nel mondo moderno. Per quanto le nostre visioni siano divergenti sulla struttura dello stato e dell’economia, penso che tutti siamo d’accordo sul fatto che sia possibile, attraverso una sensata organizzazione del mondo, con il potere della scienza moderna e dell’industria, produrre, risolvere una volta per tutte il problema della povertà, e abolire, per sempre, la povertà e le peggiori cause di malattia e di sofferenza del mondo.

Perciò, se fosse possibile avere un’efficiente forma di governo, sarebbe disponibile a servizio di un tale sistema, per la prima volta nella storia, uno strumento con cui si potrebbe cambiare il volto della terra per l’eternità. Una volta che l’essenziale sarà fatto, una volta che la scienza moderna e la tecnica saranno state realizzate e avranno portato a termine il loro compito, una volta che avrete cambiato il sistema politico e filosofico passando da uno transitorio e politico a uno permanente e dalle basi tecniche, non ci sarà più bisogno delle politiche e delle controversie che distraggono oggi il mondo. Il problema della povertà verrà risolto, i problemi più gravi saranno estirpati come sarebbe possibile, e tutti sanno che può esserlo, se la scienza moderna venisse mobilitata a dovere. L’umanità sarà liberata in favore delle cose che nella vita contano davvero.

Quindi, mentre forse è vero che alcuni di questi fenomeni nelle eterne ricorrenze della storia sono già stati affrontati in precedenza nel mondo, e con grande sollievo per il genere umano, mai prima d’ora i grandi movimenti esecutivi hanno avuto la possibilità di portare a termine i compiti che la scienza moderna e l’invenzione ora gli conferiscono.

In un momento di grande crisi globale, una crisi che alla fine si inasprirà inevitabilmente, emerge un movimento da un background storico che rende questa comparsa inevitabile, portando con sé caratteristiche tradizionali derivate da un passato davvero glorioso, ma affrontando i fatti attuali armati di strumenti che solo in quest’epoca sono stati conferiti al genere umano. Attraverso questa nuova e fantastica coincidenza di strumenti e di eventi i problemi di quest’epoca possono essere superati, e il futuro può essere assicurato di una progressiva stabilità. Probabilmente questa è l’ultima grande ondata mondiale dell’immortale, eternamente ricorrente movimento Cesariano, ma con l’aiuto della scienza, e con l’ispirazione della mente moderna, quest’ondata potrà portare l’umanità a compiere un ulteriore passo.

Oswald Mosley a pesca con il futuro presidente degli USA F.D. Roosevelt, con la prima moglie, Cimmie Lady Curzon

Poi, allora, il “Cesarismo”, la più potente emanazione dello spirito umano nel grande sforzo per un permanente risultato, avrà compiuto al sua missione nel mondo, avrà espiato il suo sacrificio nella lotta degli anni, e avrà compiuto il suo destino storico. Un’umanità liberata dalla povertà e da molti degli orrori e delle sofferenze, avrà ancora bisogno di un movimento fascista trasformato in funzione dell’obiettivo di un nuovo e più nobile ordine del genere umano, ma non avrete più bisogno degli uomini strani e inquietanti che, nei giorni di lotta e di pericolo e nelle notti buie e di lavoro, hanno forgiato lo strumento dell’acciaio con il quale il mondo si concentrerà su questioni più alte.

 

Sir Oswald Mosley

 

 

 

(Trad. Giulia Molinari)

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George Orwell nel 1943 scrisse che Benito Mussolini lo avrebbero ucciso gli inglesi, ma senza processarlo

George Orwell nel 1943 scrisse che Benito Mussolini lo avrebbero ucciso gli inglesi, ma senza processarlo

Nel 1943 uscì una lunga recensione al best seller The Trial of Mussolini (Il processo a Mussolini) sul quotidiano britannico TRIBUNE. L’autore era il socialista (assai scettico dopo la guerra civile in Spagna) George Orwell (1903-1950). Divenne celebre come autore, di “La fattoria degli Animali” (1945) e di “Millenovento-ottantaquattro” (1949).

La sua recensione era intitolata “Chi sono i Criminali di Guerra?”. Giustamente Orwell dice che difficilmente Mussolini potrà essere processato e si chiede chi ne avrebbe il diritto e la dirittura morale per farlo? Lo riproduciamo qui, in una nostra traduzione, il suo lucidissimo saggio.

 

 

Chi sono i criminali di guerra?

George Orwell

In apparenza, il crollo di Mussolini pare una storia uscita dal melodramma vittoriano. Finalmente il Giusto ha trionfato, il malvagio è stato sconfitto, i mulini di Dio stavano facendo il loro dovere. A pensarci bene, però, questo racconto morale è meno semplice e meno edificante. Per cominciare, quale crimine ha commesso Mussolini, se ne ha commesso uno? Nella politica del potere non ci sono crimini, perché non ci sono leggi. E, d’altra parte, c’è qualche caratteristica del regime interno di Mussolini che potrebbe essere seriamente contestata da qualsiasi gruppo di persone che potrebbero giudicarlo? Infatti, come l’autore di questo libro (The Trial of Mussolini by ‘Cassius’) dimostra abbondantemente – e questo è in effetti lo scopo principale del libro – non c’è una sola mascalzonata commessa da Mussolini tra il 1922 e il 1940 che non sia stata lodata fino al cielo proprio da coloro che ora promettono di portarlo in giudizio.

Ai fini della sua allegoria, “Cassio” immagina Mussolini incriminato davanti a un tribunale britannico, con un Procuratore Generale come pubblico ministero. L’elenco delle accuse è impressionante e i fatti principali – dall’omicidio di Matteotti all’invasione della Grecia, dalla distruzione delle cooperative di contadini al bombardamento di Addis Abeba – non vengono negati. Campi di concentramento, trattati violati, manganelli di gomma, olio di ricino: tutto è ammesso. L’unica domanda fastidiosa è: come può qualcosa che era lodevole al momento in cui fu fatto – dieci anni fa, per esempio – diventare improvvisamente riprovevole ora? A Mussolini viene concesso di chiamare testimoni, sia vivi che morti, e di dimostrare con le loro stesse parole stampate che, fin dall’inizio, i responsabili dell’opinione pubblica britannica lo hanno incoraggiato in tutto ciò che ha fatto. Per esempio, ecco Lord Rothermere nel 1928:

Nel suo Paese (Mussolini) è stato l’antidoto a un veleno mortale. Per il resto dell’Europa è stato un tonico che ha fatto a tutti un bene incalcolabile. Posso affermare con sincera soddisfazione di essere stato il primo uomo, in una posizione di influenza pubblica, a mettere nella giusta luce lo splendido risultato di Mussolini. È la più grande figura della nostra epoca”.

Ecco Winston Churchill nel 1927:

Se fossi stato un italiano, sono sicuro che sarei stato con voi con tutto il cuore nella vostra lotta trionfale contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo… (L’Italia) ha fornito il necessario antidoto al veleno russo. In futuro nessuna grande nazione sarà sprovvista di un mezzo di protezione definitivo contro la crescita cancerosa del bolscevismo.

Ecco Lord Mottistone nel 1935:

Non mi sono opposto (all’azione italiana in Abissinia). Volevo dissipare la ridicola illusione che fosse una bella cosa simpatizzare con i perdenti… Ho detto che era una cosa malvagia inviare armi o fare in modo che venissero inviate a questi crudeli e brutali abissini e ancora negarle ad altri che stanno facendo una parte onorevole.

Ecco Duff Cooper nel 1938:

Per quanto riguarda l’episodio dell’Abissinia, meno si dice ora meglio è. Quando vecchi amici si riconciliano dopo un litigio, è sempre pericoloso per loro discutere le cause originarie.

Ecco il signor Ward Price, del Daily Mail, nel 1932:

Persone ignoranti e piene di pregiudizi parlano degli affari italiani come se quella nazione fosse soggetta a una tirannia di cui si libererebbe volentieri. Con quella commiserazione un po’ morbosa per le minoranze fanatiche che è la regola per certi settori imperfettamente informati dell’opinione pubblica britannica, questo Paese ha a lungo chiuso gli occhi sul magnifico lavoro che il regime fascista stava facendo. Ho sentito più volte lo stesso Mussolini esprimere la sua gratitudine al Daily Mail per essere stato il primo giornale britannico a mettere in chiaro i suoi obiettivi davanti al mondo.

E così via. Hoare, Simon, Halifax, Neville Chamberlain, Austen Chamberlain, Hoare-Belisha, Amery, Lord Lloyd e vari altri entrano nel banco dei testimoni, tutti pronti a testimoniare che, sia che Mussolini stesse schiacciando i sindacati italiani, o intervenendo in Spagna, spargendo gas mostarda sugli abissini, gettando gli arabi dagli aerei o costruendo una marina da usare contro la Gran Bretagna, il governo britannico e i suoi portavoce ufficiali lo sostennero in ogni momento. Ci viene mostrata Lady Austen Chamberlain che stringe la mano a Mussolini nel 1924, Chamberlain e Halifax che banchettano con lui e brindano “all’Imperatore dell’Abissinia” nel 1939, Lord Lloyd che adula il regime fascista in un opuscolo ufficiale nel 1940. L’impressione netta lasciata da questa parte del processo è semplicemente che Mussolini non sia colpevole. Solo in un secondo momento, quando un abissino, uno spagnolo e un antifascista italiano testimoniano, inizia a delinearsi il vero caso contro di lui.

Ora, il libro è fantasioso, ma questa conclusione è realistica. È estremamente improbabile che i conservatori britannici mettano Mussolini sotto processo. Non c’è nulla di cui possano accusarlo, se non la sua dichiarazione di guerra nel 1940. Se il “processo ai criminali di guerra” che alcuni si divertono a sognare avverrà mai, potrà avvenire solo dopo le rivoluzioni nei Paesi alleati. Ma l’idea di trovare capri espiatori, di incolpare individui, o partiti, o nazioni per le calamità che ci sono capitate, solleva altre riflessioni, alcune delle quali piuttosto sconcertanti.

La storia delle relazioni britanniche con Mussolini ha illustrato la debolezza strutturale di uno Stato capitalista. Ammesso che la politica di potere non sia morale, il tentativo di comprare l’Italia per farla uscire dall’Asse – e chiaramente questa idea era alla base della politica britannica dal 1934 in poi – era una mossa strategica naturale. Ma non era una mossa che Baldwin, Chamberlain e gli altri erano in grado di realizzare. Si sarebbe potuta realizzare solo essendo così forti che Mussolini non avrebbe osato schierarsi con Hitler. Questo era impossibile, perché un’economia governata dal profitto non è semplicemente in grado di riarmarsi su scala moderna. La Gran Bretagna iniziò ad armarsi solo quando i tedeschi erano a Calais. Prima di allora, infatti, erano state votate somme piuttosto ingenti per gli armamenti, ma queste scivolavano tranquillamente nelle tasche degli azionisti e le armi non si materializzavano. Non avendo alcuna intenzione di ridurre i propri privilegi, era inevitabile che la classe dirigente britannica portasse avanti ogni politica a metà e non si rendesse conto del pericolo imminente. Ma il collasso morale che questo comportava era qualcosa di nuovo nella politica britannica. Nel XIX e all’inizio del XX secolo, i politici britannici potevano essere ipocriti, ma l’ipocrisia implicava un codice morale. Era stata una novità quando i deputati Tory esultavano alla notizia che le navi britanniche erano state bombardate da aerei italiani, o quando i membri della Camera dei Lord si prestavano a campagne diffamatorie organizzate contro i bambini baschi che erano stati portati qui come rifugiati.

Se si pensa alle menzogne e ai tradimenti di quegli anni, al cinico abbandono di un alleato dopo l’altro, all’ottimismo imbecille della stampa Tory, al rifiuto categorico di credere che i dittatori volessero la guerra, anche quando lo gridavano dai tetti delle case, all’incapacità della classe ricca di vedere qualcosa di sbagliato nei campi di concentramento, nei ghetti, nei massacri e nelle guerre non dichiarate, si è portati a pensare che la decadenza morale abbia giocato il suo ruolo oltre alla semplice stupidità. Nel 1937 circa non era possibile avere dubbi sulla natura dei regimi fascisti. Ma i signori conservatori avevano deciso che il fascismo era dalla loro parte ed erano disposti a ingoiare i topi più puzzolenti purché la loro proprietà rimanesse sicura. Nel loro modo maldestro stavano giocando al gioco di Machiavelli, al “realismo politico”, a “qualsiasi cosa sia giusta per far progredire la causa del partito” – il partito in questo caso, ovviamente, era il Partito Conservatore.

Tutto questo “Cassius” lo mette in evidenza, ma si sottrae al suo corollario. In tutto il libro è sottinteso che solo i conservatori sono immorali. Eppure c’è ancora un’altra Inghilterra”, dice. Quest’altra Inghilterra detestava il fascismo fin dal giorno della sua nascita… era l’Inghilterra della sinistra, l’Inghilterra del lavoro”. È vero, ma è solo una parte della verità. Il comportamento effettivo della sinistra è stato più onorevole delle sue teorie. Ha combattuto contro al fascismo, ma i suoi pensatori rappresentativi sono entrati altrettanto profondamente dei loro avversari nel mondo malvagio del “realismo” e della politica di potere.

Il “realismo” (una volta si chiamava disonestà) fa parte dell’atmosfera politica generale del nostro tempo. È un segno della debolezza della posizione di ‘Cassius’ il fatto che si potrebbe compilare un libro simile intitolato Il processo a Winston Churchill, o Il processo a Chiang Kai-shek, o ancora Il processo a Ramsay MacDonald. In ogni caso, i leader della sinistra si contraddirebbero quasi altrettanto grossolanamente del leader dei conservatori citato da “Cassius”. Perché la sinistra è stata anche disposta a chiudere gli occhi su molte cose e ad accettare alcuni alleati molto dubbi. Oggi ridiamo nel sentire i Tory che maltrattano Mussolini quando cinque anni fa lo adulavano, ma chi avrebbe previsto nel 1927 che la sinistra avrebbe un giorno accolto Chiang Kai-shek nel suo seno? Chi avrebbe previsto, subito dopo lo sciopero generale, che dieci anni dopo Winston Churchill sarebbe stato il beniamino del Daily Worker? Negli anni 1935-9, quando quasi ogni alleato contro il fascismo sembrava accettabile, la sinistra si trovò a lodare Mustapha Kemal e poi a sviluppare tenerezza per Carol di Romania.

Sebbene fosse in ogni modo più perdonabile, l’atteggiamento della sinistra nei confronti del regime russo è stato decisamente simile a quello dei conservatori nei confronti del fascismo. C’è stata la stessa tendenza a scusare quasi tutto “perché sono dalla nostra parte”. Va bene parlare di Lady Chamberlain fotografata mentre stringe la mano a Mussolini; la fotografia di Stalin che stringe la mano a Ribbentrop è molto più recente. Nel complesso, gli intellettuali di sinistra difesero il Patto russo-tedesco. Era “realistico”, come la politica di appeasement di Chamberlain, e con conseguenze simili. Se c’è una via d’uscita dal porcile morale in cui viviamo, il primo passo è probabilmente quello di capire che il “realismo” non paga, e che svendere i propri amici e starsene con le mani in mano mentre vengono distrutti non è l’ultima parola in fatto di saggezza politica.

Questo fatto è dimostrabile in qualsiasi città tra Cardiff e Stalingrado, ma non sono in molti a vederlo. Nel frattempo, è dovere di un libellista attaccare la destra, ma non adulare la sinistra. È in parte perché la sinistra è stata troppo facilmente soddisfatta di sé stessa che si trova dove è ora.

Mussolini, nel libro di “Cassio”, dopo aver chiamato i suoi testimoni, entra in scena lui stesso. Si attiene al suo credo machiavellico:

“La forza è giusta, vae victis!”. È colpevole dell’unico crimine che conta, quello del fallimento, e ammette che i suoi avversari hanno il diritto di ucciderlo – ma non, insiste, il diritto di incolparlo. La loro condotta è stata simile alla sua e le loro condanne morali sono tutte ipocrisie. Ma poi arrivano gli altri tre testimoni, l’abissino, lo spagnolo e l’italiano, che sono moralmente su un altro piano, dato che non hanno mai avuto a che fare con il fascismo né con la politica di potere; e tutti e tre chiedono la pena di morte.

La chiederebbero nella vita reale? Succederà mai una cosa del genere? Non è molto probabile, anche se le persone che hanno il vero diritto di processare Mussolini dovessero in qualche modo metterlo nelle loro mani. I conservatori, naturalmente, anche se si sottrarrebbero a una vera inchiesta sulle origini della guerra, non sono dispiaciuti di avere la possibilità di far ricadere l’intera colpa su alcuni individui famosi come Mussolini e Hitler. In questo modo la manovra Darlan-Badoglio sarà facilitata. Mussolini è un buon capro espiatorio finché è in libertà, anche se sarebbe scomodo in prigionia. Ma come la mettiamo con la gente comune? Ucciderebbe i suoi tiranni, a sangue freddo e con le forme della legge, se ne avesse la possibilità?

È un dato di fatto che nella storia ci sono state pochissime esecuzioni di questo tipo. Alla fine dell’ultima guerra le elezioni sono state vinte in parte con lo slogan “Impiccate il Kaiser”, eppure se si fosse tentato di fare una cosa del genere la coscienza della nazione si sarebbe probabilmente ribellata. Quando i tiranni vengono messi a morte, dovrebbero essere i loro stessi sudditi a farlo; quelli che vengono puniti da un’autorità straniera, come Napoleone, vengono semplicemente trasformati in martiri e in leggende.

L’importante non è far soffrire questi gangster politici, ma far sì che si screditino. Fortunatamente in molti casi ci riescono, perché in misura sorprendente i signori della guerra, in una armatura lucente, gli apostoli delle virtù marziali, tendono a non morire combattendo quando arriva il momento. La storia è piena di fughe ignominiose di grandi e famosi. Napoleone si arrese agli inglesi per ottenere protezione dai prussiani, l’imperatrice Eugenia fuggì in una carrozza con un dentista americano, Ludendorff ricorse a degli occhiali blu, uno dei più impronunciabili imperatori romani cercò di sfuggire all’assassinio chiudendosi nel gabinetto, e durante i primi giorni della guerra civile spagnola un importante fascista fuggì da Barcellona, con squisita disinvoltura, attraverso una fogna.

È un’uscita di questo tipo che ci si augura per Mussolini, e se sarà lasciato a sé stesso forse ci riuscirà. Forse anche Hitler. Di Hitler si diceva che quando sarebbe arrivata la sua ora non sarebbe mai fuggito o si sarebbe arreso, ma sarebbe morto in qualche modo operistico, come minimo suicidandosi. Ma questo accadeva quando Hitler aveva successo; nell’ultimo anno, da quando le cose hanno cominciato ad andare male, è difficile pensare che si comporterà con dignità o coraggio. Cassius termina il suo libro con il riassunto del giudice e lascia il verdetto aperto, sembrando invitare i lettori a decidere.

Ebbene, se fosse lasciato a me, il mio verdetto sia su Hitler che su Mussolini sarebbe: non la morte, a meno che non sia inflitta in qualche modo frettoloso e non spettacolare. Se i tedeschi e gli italiani hanno voglia di sottoporli a una corte marziale sommaria e poi a un plotone di esecuzione, che lo facciano. O, meglio ancora, che i due fuggano con una valigia di titoli al portatore e si sistemino come accreditati di qualche pensione svizzera. Ma niente martirizzazioni, niente Sant’Elena. E, soprattutto, nessun solenne e ipocrita “processo ai criminali di guerra”, con tutto il lento e crudele sfarzo della legge, che dopo un po’ di tempo ha uno strano modo di mettere una luce romantica sull’accusato e di trasformare una canaglia in un eroe.

 

George Orwell

210 anni fa la battaglia della Beresina, molti veneti, lombardi e napoletani fra i combattenti

210 anni fa la battaglia della Beresina, molti veneti, lombardi e napoletani fra i combattenti

La divisione della Guardia Reale partì da Milano il 18 febbraio 1812, e traversò il Tirolo, la Baviera, e la Sassonia, giunse il 17 aprile a Goldberg, una delle città della Slesia Prussiana. Fu seguita dalla divisione Pino composta totalmente d’italiani, quindi dalle divisioni Broussiers, e Delsons, (alimentate sempre, durante il loro lungo soggiorno in Italia, dai dipartimenti italiani aggregati alla Francia) e finalmente dai reggimenti di cavalleria della guardia comandati dai colonnelli Narboni, e Marranesi, e dalla brigata di cavalleria leggera, sotto agli ordini del general Villata. Tutte queste truppe compresi i cannonieri, gl’ingegneri, i servizi riuniti ecc. formarono il contingente italiano, il quale si recò pure nella Slesia Prussiana componendo un solo corpo sotto agli ordini del duca d’Abrantes. Un ordine dello stato maggior generale li informò che l’armata d’Italia aveva preso il nome di 4° corpo, e riunita a Glogau sull’Oder, fu capitanata dal viceré d’Italia, Eugenio, si diresse alla Vistola. Li raggiunse lì l’ordine di Napoleone che comandava di entrare in Russia e marciare su Mosca.

Fra questi italiani c’era anche un giovane, Francesco Benedetti, originario di Ceredo, una frazione di Sant’Anna d’Alfaedo, in Lessinia. Vi era nato nel 1795, e per mettere insieme pasto e cena decise di arruolarsi nell’esercito francese. Si unì nel 1812 alle truppe napoleoniche che dal Veneto marciavano verso la Russia. Dopo la Moscova era entrato in  una Mosca in fiamme. Infine, durante la ritirata si trovò a combattere la battaglia della Beresina, affluente di destra del Dnepr, tra la Grande Armata di Napoleone e l’esercito dell’impero russo, tra il 26 e il 29 novembre 1812. Ritornato, dopo diverse peripezie, nella sua Ceredo, anche se non sollecitato, continuò a raccontare gli orrori di quella campagna. Raccontava di essersi protetto dal freddo sventrando un cavallo ed essergli entrato nella pancia! Forse per questo, nel tempo «Bresini» sono chiamati, ancor oggi, i suoi discendenti di Ceredo.

Durante la ritirata, la temperatura durante il giorno, variava dai venticinque ai trenta gradi sottozero, eppure i pontieri francesi riuscirono a costruire un ponte, tuffandosi, con i corpi spalmati di grasso di foca, nelle acque ghiacciate del fiume e quando uno di loro moriva, veniva trascinato via dalla corrente, ma subito un suo sostituto si tuffava a prendere il suo posto, per pochi minuti, prima di esalare l’anima. Si sacrificarono per permettere a Napoleone e al loro esercito di ritirarsi, sfuggendo alla trappola tesa da Kutuzov. Napoleone, dopo aver fatto traversare quel che restava del suo esercito, ordinò la distruzione del ponte, lasciandosi dietro migliaia di uomini, donne e bambini, perlopiù francesi.

Gli italiani furono molti, 45.000 (meno di un terzo tornarono indietro) su un corpo di spedizione di mezzo milioni di armati: c’erano napoletani, toscani e molti lombardo-veneti.

Il Corpo d’armata italiano era composto dalla 13°, 14° e 15° divisione di fanteria, della Guardia Reale Italiana e della Cavalleria.  Questo includeva 54 battaglioni di fanteria, 15 compagnie del reggimento artiglieria, 20 squadroni, 5 compagnie di cavalleria, 8 batterie di artiglieria, 4 unità di servizi, 4 compagnie del genio, una compagnia di marinai e un reparto carreggiato. In totale, il Corpo d’armata contava 45.300 uomini (di cui 1.447 ufficiali), circa 9.500 cavalli e 116 cannoni.  Inoltre, molti italiani facevano parte del 111°  Reggimento Piemonte e del 113° Reggimento Toscana di  fanteria di linea. Dell’esercito napoleonico facevano parte anche 9000 soldati elvetici, arruolati in base a un trattato imposto dalla Francia alla Svizzera. Ne sopravvissero 400.

La battaglia della Beresina, nell’odierna Bielorussia, ebbe luogo dal 26 al 29 novembre 1812, tra la Grande Armée di Napoleone e l’esercito imperiale russo guidato dal feldmaresciallo Wittgenstein e dall’ammiraglio Chichagov. Napoleone si stava ritirando verso la Polonia, nel caos dopo l’occupazione interrotta di Mosca e stava cercando di attraversare il fiume Berezina a Borisov. L’esito della battaglia fu inconcludente poiché, nonostante le pesanti perdite, Napoleone riuscì ad attraversare il fiume e a continuare la ritirata con i resti superstiti del suo esercito.

Napoleone aveva combattuto per uscire dalla Russia nelle battaglie di Maloyaroslavets, Vyazma e Krasnoi. Il suo piano prevedeva di attraversare il fiume Berezina a Borisov, nella Russia occidentale, per ricongiungersi con l’alleato austriaco, il feldmaresciallo Schwarzenberg, a Minsk. Mentre il nucleo centrale della Grande Armée di Napoleone marciava verso Borisov, tuttavia, le truppe russe sostenute dai cosacchi si mossero per bloccare le sue forze malconce, ridotte a 49.000 uomini sotto le armi e 40.000 sbandati. Il 21 novembre, i russi attaccarono e catturarono la guarnigione francese a Borisov, compreso il ponte sulla Berezina. Una forza avanzata francese tentò di riconquistare Borisov il 23 novembre, ma i russi distrussero il ponte e rimasero in controllo della riva occidentale. A nord, il feldmaresciallo russo Wittgenstein e un’armata di 30.000 uomini seguirono Napoleone mentre si muoveva verso ovest. Da Minsk, a ovest, l’ammiraglio russo Chichagov e un’armata di 35.000 uomini avanzarono verso Borisov. E a inseguire l’esercito di Napoleone da est c’era il generale russo Miloradovich, con una forza di altri 32.000 soldati.

Fortunatamente, il comandante dei costruttori di ponti, il generale Jean Baptiste Eblé, aveva disobbedito ai precedenti ordini di Napoleone, impartiti durante la ritirata, di distruggere le attrezzature, le fucine e gli strumenti necessari per la costruzione dei ponti. Per distogliere l’attenzione dei russi dalle vicinanze dell’attraversamento, furono intrapresi numerosi diversivi. Il 25 novembre, la costruzione del ponte iniziò a Studienka, nonostante si osservassero numerosi falò delle forze dell’ammiraglio Chichagov al di là del fiume, a Brili.

I movimenti del corpo d’armata del generale francese Nicolas Oudinot e le numerose voci fecero credere ai russi che Napoleone avrebbe attaccato a Borisov e tentato di riparare il ponte, oppure avrebbe condotto le sue truppe a sud di Borisov e attraversato la Berezina a valle. Di conseguenza, Chichagov decise di spostare il corpo principale delle sue forze a sud di Borisov, a Szabaszeviki, in modo da poter sorvegliare e pattugliare un tratto di 90 chilometri del fiume Berezina. Al generale russo Tshaplitz e alla sua forza di circa 3.000 uomini accampata a Brili fu ordinato di spostarsi di 15 chilometri a sud per sostenere le forze russe a Borisov. Di conseguenza, la mattina del 26 novembre, i francesi scoprirono che i russi avevano abbandonato il loro campo sulla riva occidentale. Quaranta soldati della cavalleria francese attraversarono il fiume e protessero la traversata di 400 uomini in barca. Questa piccola forza mise poi in sicurezza la sponda occidentale, in modo che i ponti potessero essere completati. Nel frattempo, nessuna delle forze russe che inseguivano Napoleone dalle retrovie era molto aggressiva ed entrambe rimasero a distanze considerevoli a nord e a ovest del fiume Berezina mentre i francesi gettavano i ponti. Questo fiume era largo 20-30 metri e pieno di ghiaccio alla deriva, ma le sue sponde sono paludose, rendendo l’attraversamento dello stesso estremamente difficile.

Nella notte tra il 26 e il 27 novembre, il generale russo Chaplitz si accorse dell’attraversamento francese, consolidò le forze e tentò di tornare a Brili per intercettare i francesi. Le forze di Tshaplitz, tuttavia, furono fermate ben a sud di Brili dai battaglioni di Oudinot. Sempre il 27, Chichagov iniziò a spostare la parte principale della sua armata verso Borisov quando divenne evidente che non c’erano attività francesi a valle. Chichagov, tuttavia, scelse di non muoversi immediatamente verso nord, verso Brili, in quanto i suoi uomini erano ancora in transito e non completamente assemblati.

A mezzogiorno del 27, Napoleone e la sua Guardia Imperiale passarono. Una delle campate si ruppe nel tardo pomeriggio, ma gli ingegneri la ripararono entro la prima serata. I corpi del maresciallo Davout e del principe Eugenio, con i suoi italiani, riuscirono ad passare prima della fine della giornata. L’ultima unità sulla riva orientale, il IX Corpo del maresciallo Victor, ricevette l’ordine di difendersi dall’avvicinamento di Wittgenstein, che aveva raggiunto Borisov. Nell’ambito di questa operazione, la 12ª Divisione del IX Corpo del generale francese Louis Partouneaux subì una grave sconfitta, arrendendosi con oltre 8.000 uomini quando fu travolta da Wittgenstein a Staroi-Borisov.

Il 28 novembre, i russi coordinarono i loro sforzi e attaccarono la Grande Armée di Napoleone su entrambe le sponde del fiume. Sulla sponda occidentale, Tshaplitz, rinforzato con altra fanteria, attaccò le posizioni avanzate francesi e iniziò a spingere Oudinot verso Brili. Il generale francese Ney prese il comando quando Oudinot fu ferito e l’avanzata russa fu fermata. Venticinquemila uomini ingaggiarono uno scontro a fuoco che durò tutta la notte. Alla fine, il generale francese Doumerc guidò una carica di cavalleria dei corazzieri costringendo i russi a indietreggiare e ponendo fine alla battaglia per quel giorno. Sulla riva orientale del fiume, Wittgenstein attaccò il IX Corpo di Victor alle 5 del mattino. I francesi furono respinti in un combattimento che durò otto ore. Alle 13, i russi raggiunsero una posizione che permise loro di affiancare i francesi e di far piovere cannonate sui ponti. Il bombardamento dell’artiglieria cadde in gran parte sui soldati sbandati, provocando un’ondata di persone che si precipitavano verso i ponti o si gettavano nel freddo fiume nel tentativo di raggiungere a nuoto l’altra sponda. I combattimenti e i bombardamenti durarono per circa quattro ore, quando gli ingegneri del ponte iniziarono a lavorare per liberare un percorso che permettesse al IX Corpo di Victor di attraversare il fiume.

Alle 22 circa di quella sera, il IX Corpo di Victor effettuò l’attraversamento e tre ore dopo i ponti erano liberi dalle truppe armate di Napoleone. I ponti erano quindi a disposizione dei soldati sbandati; tuttavia, nonostante gli incoraggiamenti, la maggior parte di coloro che avevano lottato così duramente per attraversare il fiume durante il bombardamento preferirono accendere i loro falò e passare la notte sulla riva orientale. Il mattino seguente, il comandante degli ingegneri, il generale Eblé, ebbe l’ordine di Napoleone di bruciare i ponti alle 7. Eblé ritardò l’esecuzione dell’ordine fino alle 8:30, quando decine di migliaia di soldati sbandati e i loro compagni civili furono lasciati indietro.

Il risultato immediato della battaglia di Berezina fu semplice: la ritirata francese proseguì, l’esercito russo la seguì.  In effetti, nonostante le enormi perdite, Napoleone era in grado di rivendicare una vittoria strategica, avendo strappato ciò che restava del suo esercito a una catastrofe apparentemente inevitabile. Per il resto della ritirata non ci sarebbero stati grandi scontri militari, anche se le incessanti vessazioni dei cosacchi russi e le condizioni atmosferiche continuarono a pesare sui membri superstiti dell’esercito francese.

Le perdite erano state straordinarie. Si stima che 20-30.000 combattenti francesi siano rimasti vittime. Al numero dei caduti in azione vanno aggiunti probabilmente 30.000 non combattenti. La Guardia, che non era entrata affatto in azione, perse circa 1.500 uomini su 3.500. Molto, tuttavia, era stato salvato. Napoleone, i suoi generali, 200 cannoni, il forziere di guerra, gran parte del bagaglio e migliaia di ufficiali e soldati veterani erano fuggiti. Complessivamente, si salvarono circa 40.000 membri dell’esercito napoleonico. Senza questo nucleo di uomini esperti, Napoleone non avrebbe potuto ricostruire le sue armate per le battaglie della Guerra della Sesta Coalizione.

Dei 612.000 uomini (compresi i rinforzi) che erano entrati in Russia, ne rimanevano non più di 110.000. Le perdite russe furono di circa 250.000 uomini.