Adolf Hitler e i soldati tedeschi erano drogati?

Adolf Hitler e i soldati tedeschi erano drogati?

Lo scrittore berlinese Norman Ohler, nato nel 1970, era uscito nel 2015 con un libro intitolato: “Der totale Rausch – Drogen im Dritten Reich”. Che è poi stato tradotto e pubblicato in diciotto lingue. Un grosso risultato per questo autore di tre romanzi, nonché coautore del film di Wim Wenders “Palermo Shootin” con Giovanna Mezzogiorno.
L’ultima sua opera è di carattere prettamente storico e Ian Kershaw, che l’ha letta, la descrive come: “Impeccabile e di grande valore.”
Il libro è il frutto di un’accurata e approfondita ricerca archivistica che ha rivelato l’entità dell’abuso di droghe da parte di Adolf Hitler e dell’esercito del Terzo Reich durante l’ultima
guerra mondiale. Pare quasi di rivivere la storia della setta degli assassini mandati dal grande vecchio della montagna.

Ohler pensò dapprima di scriverci un romanzo ma poi, studiando l’archivio del dott. Theodor
Morell, il medico personale di Hitler, capì che questa vicenda valeva molto di più di un’opera di
fantasia. Andò a parlarne allo storico Hans Mommsen che lo aiutò, e poi sondò altri archivi,
confrontando tutto il materiale e le testimonianze che riuscì a scovarvi. Non vi si parla solo di stimolanti chimici, ma anche di eroina, metadone, morfina e cocaina, descrivendo tutti gli effetti perversi che queste sostanze produssero sulla mente di Hitler, nonché su quella di comuni soldati e ufficiali. Gran parte di queste notizie erano note da tempo, essendo state già incluse in opere pubblicate a partire dagli anni ’70, ma ciò che mancava era una trattazione organica di tale spinoso argomento.
Leggendolo apprendiamo come durante gli ultimi mesi di vita del Fuhrer egli era a tutti gli effetti
un drogato in crisi d’astinenza: soffriva di allucinazioni e le sue vene erano rovinate dai buchi
prodotti dagli aghi. Un fatto nuovo, studiato da Ohler in dettaglio, riguarda gli inizi della guerra, in particolare la
fulminante vittoria tedesca sulla Francia del 1940. Pare che l’incredibile successo della Wermacht sia stato fortemente influenzato dall’uso di droga da parte dei comandanti delle formazioni di Panzer, che agirono sotto all’influenza di potenti stimolanti durante quei fatidici giorni, capaci di restare lucidi, senza sonno, anche per quaratotto ore filate.
Il libro si apre con la Repubblica di Weimar e con una panoramica sull’industria farmaceutica
tedesca. A quel tempo la Germania era il maggior esportatore mondiale di oppiacei, come la
morfina e di molte altre varietà di medicazioni, che si potevano acquistare senza ricetta medica.
Fu a quel tempo che la figura di Hitler cominciò a essere vista dai suoi seguaci come un
“insonne” un uomo capace di lavorare senza sosta per il bene della Patria, pur essendo
apparentemente contrario a ogni forma di stimolante, anche del tabacco e del caffè.

Quando nel 1933 i nazisti presero il potere, bandirono ogni droga e i drogati furono eliminati e altri vennero chiusi in campi di concentramento. Eppure certe droghe, credute benefiche alla società, furono mantenute e studiate.
Una ditta farmaceutica tedesca, la Temmler Pharma GmbH & Co KG, aveva a capo del proprio
laboratorio il dott. Fritz Hauschild. Costui, impressionato e ispirato dall’uso di benzedrina fatto
dagli atleti americani durante le olimpiadi del 1936, ne brevettò una variante che divenne nota
come Pervitina. Ebbe un grande successo e fu vista come miracolosa. Tutti la usarono, le
massaie, gli operai, gli studenti. Veniva pubblicizzata con lo slogan: “Il cioccolato di Hildebrand è
sempre delizioso.”
Il dott. Otto Ranke condusse dei test con la Pervitina e concluse che, dopo averla assunta, un
soldato poteva tirare avanti 50 ore senza provare stanchezza e sonno, inoltre la droga aveva
effetti sul sistema inibitorio morale, rendendo i soldati come dei robot.
Nel libro di Ohler appare una lettera datata 1939 scritta da Heinrich Böll mentre si trovava al
fronte: il futuro Premio Nobel implorava i genitori di mandargli della Pervitina.

Quando nel 1940 furono approntati i piani per invadere la Francia passando dalle Ardenne,
venne raccomandato ai medici militari di prescrivere una pasticca di Pervitina al giorno e due di
notte. Fu proprio in quei giorni che la Wehrmacht piazzò un enorme ordine, proprio alla Temmler, per
35 milioni di pastiglie, sia per l’esercito che per la Luftwaffe.

Fu dunque la Blitzkrieg il risultato dell’assunzione di droghe? Un giornalista inglese ha posto
questa domanda a Norman Ohler, il quale ha risposto: “Ecco, Mommsen mi ha sempre
raccomandato di non essere mai mono-causale. Ma l’invasione della Francia fu certamente
possibile grazie dall’uso di droga. Niente droga, niente invasione. Quando Hitler sentì del piano
di prendere la Francia passando per le Ardenne ne fu subito conquistato, dato che le truppe
alleate erano ammassate nel Belgio settentrionale. Ma l’alto comando tedesco fece notare che
questo era impossibile, perché le truppe avrebbero dovuto riposare di notte, dando così il tempo
al nemico di ritirarsi, bloccando gli invasori sulle montagne e nelle foreste. Fu in quel momento
che fu promulgato il decreto che imponeva l’uso di stimolanti ai soldati. Rommel, che
comandava una divisione di panzer e tutti gli altri ufficiali, si doparono pesantemente in quei
giorni e senza l’apporto dei corazzati non avrebbero mai potuto sfondare il fronte e passare.”
Con il progredire della guerra altre droghe furono sviluppate, dopo essere state sperimentate
nei campi di concentramento, come in quello di Sachsenhausen. Ohler ha scovato rapporti di
somministrazione forzata di queste sostanze ai prigionieri, i quali venivano poi costretti a
camminare, finquando non collassavano, spesso stroncati da un infarto cardiaco.

Nel 1941 Hitler cadde ammalato e il dott. Morell cominciò a iniettargli un oppiaceo noto come
Eukodal (oggi noto come Oxycodone) simile all’eroina, che induceva grande euforia. Con il
passare del tempo Hitler pretendeva iniezioni di Eukodal varie volte al giorno e, alla fine,
combinava questa droga con due dosi giornaliere di cocaina pura, che aveva cominciato ad
assumere per via dei problemi a un timpano, causati da un’esplosione nel suo bunker.

Queste droghe avevano un effetto miracoloso su Hitler, che da larva umana, incapace quasi di
reggersi in piedi, si trasformava in un folletto urlante ed estremamente presente con la mente.
Verso la fine della guerra le fabbriche che producevano Pervitina e Eukodal furono bombardate
e, forse per questo motivo, Adolf Hitler, rimasto senza le sue dosi giornaliere, scivolava per ore
in una sorta di stupefatto letargo.

 

Helene Mayer, la schermitrice più grande di tutti i tempi, ebrea innamorata di Hitler

Helene Mayer, la schermitrice più grande di tutti i tempi, ebrea innamorata di Hitler

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Helena Mayer, rimane uno dei grandi misteri delle Olimpiadi. Era, per definizione della legge tedesca dell’epoca, parzialmente ebrea, il che le era costato la maggior parte dei suoi diritti di cittadinanza. Alla stampa del suo paese era proibito menzionare il suo nome. Una volta era stata una delle atlete più amate della Germania, eppure è sempre stata nazista.

Nel 1924, Helena Mayer vinse il campionato nazionale tedesco di scherma femminile all’età di 13 anni. Continuò a difendere con successo il suo titolo per sei anni di seguito. Il suo straordinario talento abbagliò il paese, facendole guadagnare fama e adulazione. Statuine sue furono vendute nei negozi di souvenir in tutta la Germania. Molti la consideravano la più grande schermitrice della storia. Rappresentò la Germania alle Olimpiadi estive di Amsterdam del 1928, portando a casa una medaglia d’oro.

Quattro anni dopo, partecipò ai Giochi di Los Angeles. Due ore prima degli incontri finali, apprese che il suo ragazzo era morto in un incidente di addestramento militare. Finì quinta.

La Mayer rimase in California e frequentò il college di diritto internazionale, sperando di diventare un giorno diplomatica per il suo paese. Nel 1933, Hitler e il partito nazista presero il potere in Germania e si misero subito al lavoro per eliminare i diritti dei cittadini ebrei – compresa la Mayer, il cui padre era ebreo.

L’iscrizione della Mayer al club di scherma della sua città natale fu revocata, e divenne chiaro che non poteva tornare in Germania. L’ex celebrità fu ridotta ad insegnare tedesco in un college di Oakland.

Continuò a tirare di scherma con successo negli Stati Uniti, ma si struggeva per la sua patria e per la fama che le era stata strappata. Nel periodo precedente le Olimpiadi del 1936 a Berlino, molti negli Stati Uniti stavano sostenendo un boicottaggio dei giochi contro Hitler.

Considerando la prospettiva di un boicottaggio come un potenziale disastro, il capo del comitato olimpico americano Avery Brundage convinse la Germania a consentire a qualche atleta ebreo-tedesco di competere.

Un invito fu esteso dunque alla Mayer e a Gretel Bergman di entrare nella squadra tedesca. Consumata dalla nostalgia e desiderosa di recuperare la gloria olimpica perduta, accettò.

Il suo ritorno in Germania fu tutt’altro che trionfale. La stampa la ignorava e il governo tollerava la sua presenza con velato disprezzo. Ha combattuto alle Olimpiadi con determinazione, ma alla fine perse il suo duello finale contro Ilona Elek dell’Ungheria. In piedi sul podio del vincitore per accettare la sua medaglia d’argento, Mayer ha concluso la sua ultima Olimpiade con un saluto nazista a Hitler.

Ma la domanda più grande, quella che ha tormentato storici, biografi ed esperti dell’olocausto per otto decenni, è perché era lì. Era ingenua? Era ignara delle atrocità che Adolf Hitler stava già commettendo? Sapeva come il mondo avrebbe visto la sua partecipazione a quelli che sarebbero diventati noti come i Giochi Nazisti? Le importava? Stava proteggendo la sua famiglia? Stava proteggendo se stessa? La realtà è complicata Mayer, che morì giovane, a soli 42 anni e non lasciò molta corrispondenza. Non ha vissuto abbastanza a lungo dopo la seconda guerra mondiale per rilasciare interviste rivelatrici in un mondo mediatico moderno. Non ci sono filmati di lei che parla di quel periodo. Non ha mai scritto un libro. Le sue intenzioni sono state messe insieme da una manciata di ricercatori che hanno analizzato le poche lettere che esistono e hanno ottenuto risposte da un piccolo gruppo di persone che la conoscevano. Ma anche questi ritratti sembrano vuoti. Era stata un’eroina nazionale in Germania e fu celebrata, con sue foto ovunque. Secondo un profilo di The Guardian, “Era alta, bionda, elegante e vivace”.

Parte della complessità per Mayer è che lei non sembra essersi considerata ebrea. Suo padre, Ludwig, un medico rispettato nel sobborgo di Francoforte Offenbach, era ebreo e attivo nelle organizzazioni ebraiche, ma sua madre non era ebrea e sappiamo che per essere davvero ebrei bisogna avere una madre ebrea.

Mayer tornò negli Stati Uniti, diventandone cittadina nel 1940. I suoi fratelli rimasero in Germania dove furono costretti a nascondersi prima di essere catturati e costretti a lavorare in una fabbrica. Solo la fine della guerra risparmiò le loro vite. Quanto Mayer abbia avuto contatti con loro non lo sappiamo. Tornò in Germania nel 1952 e presto si sposò, ma il cancro stava prendendo il sopravvento sul suo corpo. Il 10 ottobre 1953 morì.

 

HITLER CHIEDE PERDONO. MA SI TRATTA DI UN SOGNO

HITLER CHIEDE PERDONO. MA SI TRATTA DI UN SOGNO

«Il mio sogno: Adolf in ginocchio», il nuovo libro di Rossana Barbara Mondoni, scritto assieme al giornalista e storico Luciano Garibaldi e pubblicato dalla Gingko Edizioni di Verona, vede la luce in concomitanza con il “Giorno della Memoria”, dedicato al ricordo delle vittime della follia nazista, il 27 gennaio di ogni anno, il giorno in cui, nel 1945, fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz, dove migliaia di prigionieri, perlopiù ebrei, attendevano la crudele sorte cui li aveva condannati Adolf Hitler.

Tra i superstiti nel campo di sterminio di Mauthausen, c’era il padre di Rossana Mondoni, professoressa di liceo, che anni fa, di ritorno da un “viaggio della memoria” con i suoi studenti ad Auschwitz-Birkenau, fu “aggredita” da un sogno, al centro del quale figurava Hitler. «Un incubo o qualcosa di simile», scrive l’autrice nella prefazione del libro, e così prosegue: «L’ex-Führer lo percepivo come tutto avvolto in un groviglio di rovi, simili al filo spinato che avevo appena visto nei campi di morte nazisti. Tra le spine, scorgevo i suoi freddi occhi azzurri che tanto avevano magnetizzato la folla, che si incrociavano con i miei. Questa volta però parevano supplichevoli e un sussurro usciva dalle sue labbra. Era un’implorazione, una supplica di portare le sue scuse all’Umanità intera, perché solo col perdono da parte delle sue vittime, avrebbe potuto accedere alla fila di coloro che erano in attesa di essere ascoltati dall’Altissimo.

«All’inizio», continua la professoressa Mondoni, «ero spaventata e inorridita di trovarmi faccia a faccia con chi aveva fatto costruire i campi di concentramento e i Lager, dove era stato rinchiuso mio padre Giovanni, per quindici lunghi mesi e sopravvissuto per miracolo all’infame tragedia. Sognare un dittatore sanguinario, che non ha esitato a scatenare una guerra mondiale con milioni di morti tra militari e civili, attuando lo sterminio di sei milioni di ebrei, non è cosa che si possa accettare facilmente. Avevo l’impressione di essere in un incubo ricorrente, per cui ogni volta cercavo affannosamente di svegliarmi. Inutile, il mio sogno continuava. Una volta, per liberarmene, dovetti accettare la situazione e adattarmi ad ascoltare le sue parole che provenivano da dentro i rovi. Fu un lungo monologo, quasi una confessione, necessaria per lui per accedere al perdono». Nel suo libro, la professoressa Mondoni ricostruisce nei particolari quella lunga confessione notturna concludendo con queste parole: «La sua salvezza (del Führer) è ancora possibile, se mai l’Altissimo gli concederà di mettersi in fila tra quelli che chiedono perdono con convinzione».

Nella sua parte, Luciano Garibaldi, già autore, a suo tempo, di numerosi reportages in Germania consistenti in una serie di incontri e interviste ai protagonisti della opposizione tedesca al nazismo che si concretarono con ampi servizi giornalistici pubblicati sui settimanali “Tempo” e “Gente” e su vari quotidiani, realizza una scorrevole sintesi della Germania nazista, ricostruendo eventi storici come l’opposizione della Chiesa cattolica al nazismo, l’ “Operazione Walkiria” (il tentativo fallito di un gruppo dei vertici della Wehrmacht di neutralizzare il Führer), l’amaro destino delle donne di Hitler (tutte suicide), le rivelazioni fattegli a suo tempo dal generale Karl Wolff, già comandante delle Waffen SS in Italia, un anno prima della sua scomparsa, e riprese dalla stampa di tutto il mondo.

«Date queste premesse», scrive Luciano Garibaldi, «non potevo certo restare indifferente al resoconto fattomi da Rossana del suo incontro onirico con Hitler. Mi venne dunque istintivo esortarla a mettere per iscritto il suo sogno davvero non comune. Un pretesto più che valido per affrontare assieme un nuovo testo: questa volta dedicato a Hitler, al nazismo, al capitolo storico che più di ogni altro ha segnato la mia passione di ricercatore, concretatasi con i libri che ho dedicato alla figura di Adolf Hitler e al fenomeno nazista: «O la Croce o la Svastica» (Lindau), «Operazione Walkiria. Hitler deve morire» (Ares), «Adolf Hitler. Il tempo della svastica» (White Star, scritto con la figlia, Simonetta Garibaldi).

Da non sottovalutare, infine, l’attualità del sogno di Rossana in un clima politico che, a 76 anni dalla scomparsa di Hitler, vede rifiorire non solo in Germania i nostalgici dei metodi nazisti.

 

Ambrogio Bianchi