Di Carlo Vivaldi-Forti
Da alcuni mesi si è messo in moto il meccanismo della “madre di tutte le riforme”, che dovrebbe assicurare maggiore stabilità all’esecutivo e governabilità al Paese. A prescindere dal fatto che il patema d’animo suscitato da tale annuncio sembra un po’ intempestivo, vista la lunghezza di questi processi, è indubbia l’incidenza di simile progetto sulla polemica politica, anche in attesa delle elezioni europee. Ecco perché ritengo utile un sia pur sommario esame della proposta , dal momento che non disponiamo ancora del testo definitivo.
Iniziamo subito col rilevare la bontà e l’utilità di talune disposizioni di base, come l’elezione diretta del Premier e le clausole anti-ribaltone, che se davvero applicate porrebbero fine allo sconcio mercato per l’acquisto di parlamentari e ai governi tecnici, non eletti da nessuno, il cui vero scopo non è fronteggiare le emergenze, bensì rovesciare la volontà espressa dal popolo. La durata quinquennale della legislatura è poi un altro effetto positivo della riforma, data la continuità e la coerenza dell’azione politica. Meno comprensibile appare invece l’istituto del secondo Premierato (a meno che , beninteso, le dimissioni del primo Capo del Governo non dipendessero da circostanze di forza maggiore indiscutibili e verificabili) prestandosi a potenziali manovre di palazzo all’interno della maggioranza .
Quanto alla realizzabilità di tali modifiche, occorre considerare che mai, nell’attuale Parlamento, si troveranno i due terzi favorevoli, e questo indipendentemente dagli emendamenti presentati in corso d’opera. Tutti dovrebbero infatti sapere che l’opposizione non convergerà su alcun testo proposto dalla Meloni, fosse pure il più vicino ai propri concetti, per il semplice motivo che essa non guarda al merito delle questioni, ma cerca soltanto ogni appiglio per creare problemi alla maggioranza , puntando su alternative alla Dini, alla Monti o alla Draghi. Il ricorso al referendum è dunque certo e la sua celebrazione rappresenta un fortissimo rischio per la tenuta dell’esecutivo, malgrado la volontà di Giorgia, ripetuta più volte, di tenere separato il problema costituzionale sulla vita del governo. Basta infatti un rapido excursus storico per comprendere che la massa degli elettori è poco o nulla interessata alle riforme costituzionali, di cui tra l’altro non è in grado di comprendere il rilievo data la carenza di cultura giuridica, interpretando lo strumento referendario come un semplice plebiscito pro o contro la classe al potere; ciò non si evince soltanto dalle recenti esperienze italiane, di Berlusconi nel 2006 e di Renzi nel 2016, ma pure dalla storia di una delle nazioni europee più avvezza all’uso referendario: la Francia.
La prima volta, dopo la rivoluzione, che i francesi vengono consultati in via referendaria, anche se all’epoca il referendum si chiama plebiscito, è nel 1799 per l’approvazione della cosiddetta Costituzione dell’anno VIII° , che prevede il Triumvirato con Napoleone Primo Console. La seconda , nel 1802, per nominarlo Console a vita; la terza, nel 1804, per elevarlo a Imperatore. L’introduzione del plebiscito quale metodo di riforma costituzionale entrerà a far parte della consuetudine fino all’avvento della Quinta Repubblica . Il nipote del Bonaparte, Luigi Napoleone, se ne serve ancora nel 1851 per prolungare a dieci anni la durata della sua Presidenza, e un anno dopo il 2 dicembre 1852, per essere proclamato Imperatore. Quelli che c’interessano più direttamente , tuttavia, sono i referendum costituzionali indetti da de Gaulle rispettivamente nel 1958, nel 1962, nel 1969. Il primo ha come tema la nascita della nuova Costituzione, il secondo l’elezione diretta del Capo dello Stato, il terzo la riforma del Senato da organo partitico in partecipativo, con la rappresentanza di tutte le forze economiche, sociali, culturali del Paese. I primi due sono vinti a mani basse, mentre il terzo è respinto , sia pur di stretta misura, dagli elettori, tanto da indurre il Generale a dimissioni immediate.
Ora, la vasta esperienza francese c’insegna che i referendum si vincono quando l’alternativa è fra l’approvazione della proposta e una situazione caotica insostenibile; si perdono quando tale alternativa non è chiara e il popolo se ne serve invece per manifestare il proprio generico scontento.
La bocciatura della riforma del 1969 non deve ritenersi un meditato rifiuto di questa su basi tecniche , bensì l’espressione della stanchezza che si era impadronita dei cittadini per diverse cause: la recente esperienza sessantottina con i gravissimi disordini di maggio, la protesta dei giovani sempre più orientati a sinistra, l’avvio di un declino economico che avrebbe raggiunto l’apice negli anni successivi e, da ultimo, la lunga permanenza di de Gaulle all’Eliseo, che induce una crescente volontà di cambiamento. Pure in Italia gli insuccessi di Berlusconi e Renzi sono dovuti a una opposizione di principio ai loro governi che non al merito delle riforme proposte. Tutto ciò considerato, la scommessa di Meloni sulla vittoria al referendum appare razionalmente molto dubbia, in un periodo caratterizzato da difficoltà economiche crescenti, contrasti con l’Europa, crisi internazionali drammatiche, di cui non è possibile prevedere gli sviluppi. Si spera certo che il tempo volga al meglio e non al peggio, ma è comunque sicuro che gli italiani non si esprimeranno sul contenuto della riforma, bensì sull’immagine di cui godrà il governo in quel momento , sui risultati contingenti e immediati della sua azione.
Passiamo ora a un altro aspetto del problema. Come tutti ricordiamo, il programma del centro destra parlava di Presidenzialismo e non di Premierato. La differenza non è marginale, in quanto il Presidente del Consiglio, anche se eletto dal popolo, resta pur sempre il leader di un esecutivo politico dipendente dalla fiducia dei partiti, mentre il Capo dello Stato svolge funzioni di arbitro super partes, non essendo tra l’altro per nulla obbligatorio che debba appartenere a uno specifico movimento politico, la suprema carica rimanendo aperta a qualunque personalità di prestigio. Gli elettori del 25 settembre 2022 erano persuasi della bontà di questa proposta, e la sua derubricazione in Premierato potrebbero non approvarla o capirla fino in fondo. In una recente intervista, la ministra Alberti Casellati ha fornito, con grande onestà intellettuale, le ragioni di tale cambiamento, dovuto alla speranza di coinvolgere le opposizioni nella riforma ed evitare il referendum. Il tentativo sarebbe stato encomiabile, se avessimo avuto a che fare con una minoranza aperta al dialogo e pensosa del bene del Paese. Purtroppo così non è, eccettuato forse Renzi, che malgrado i diversi distinguo potrebbe alla fine approvare, ma già Calenda appare assai più recalcitrante , e in ogni caso i voti di entrambi non basterebbero. Pertanto, sacrificare il Presidenzialismo per i detti motivi può non essere stato un buon investimento: infatti, oltre al voto ideologico e pregiudiziale delle sinistre, potrebbe mancare all’appello anche parte di quello di destra, magari alimentando il massiccio assenteismo che sempre ha caratterizzato gli appuntamenti referendari in Italia. Per mutare la Legge Fondamentale occorrono circostanze straordinarie, come furono per de Gaulle le terribili stragi coloniali degli anni Cinquanta, che avevano condotto la Francia sull’orlo della guerra civile.
Inizio il mio saggio , Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo, Solfanelli, Chieti 2018, rispondendo alla seguente domanda: Quando cambiano le Costituzioni? Quando esse, anziché rappresentare la più alta espressione del sentire di una comunità, divengono la gabbia entro la quale questa viene costretta e condannata alla ingovernabilità e alla disgregazione. Le alternative che a quel punto si pongono sono due: riformarla profondamente ovvero sostituirla integralmente. Scegliere l’una o l’altra dipende dalla gravità del male. Non vi è dubbio che l’Italia di oggi si trovi alle prese con una gravissima crisi economica, sociale ma soprattutto morale e psicologica, che ne pone a serio rischio lo sviluppo e nei tempi lunghi la stessa appartenenza ai paesi maggiormente progrediti. Tuttavia, la coscienza di tale situazione non è ancora avvertita dall’opinione pubblica in modo sufficientemente drammatico , in quanto concentrata su altre urgenze, quali il costo della vita, le tasse, le bollette, i bassi stipendi, le pensioni, la sicurezza e simili, preoccupazioni ritenute prioritarie rispetto alle modifiche costituzionali e sostanzialmente non collegate ad esse, malgrado che ciò non sia vero. Per questi motivi, l’esigenza di cambiare la Costituzione non è ancora avvertita allo stesso livello del 1946, all’indomani di una catastrofica guerra perduta. Tutto ciò può allontanare dalle urne chi è più interessato alla politica quotidiana, mentre il voto identitario della destra potrebbe diminuire per delusione dell’abbandono del Presidenzialismo.
Cosa fare , dunque? Dovremmo rinunciare a riformare la Costituzione, tra l’altro sprecando l’opportunità di una maggioranza a ciò favorevole? Certamente no. In realtà, vi sarebbe un’ipotesi diversa, che nessuno ha finora considerato, ma che invece potrebbe rappresentare una carta vincente.
Il Parlamento potrebbe deliberare, a maggioranza semplice, la convocazione di elezioni straordinarie per la nomina di una Assemblea Costituente , alla quale parteciperebbero tutti i partiti che presentassero proprie liste. Questo sarebbe oltretutto il miglior modo per coinvolgere l’intera cittadinanza nel tema affidando al suffragio universale , fuori dal sospetto di ogni faziosità o partigianeria, la definizione dei rapporti di forza per giungere allo scopo. Come insegnano le precedenti esperienze italiane e straniere, nell’Assemblea Costituente, il dialogo fra le diverse componenti della politica nazionale, sarebbe inevitabile e obbligatorio, in quanto nessuna potrebbe sottrarvisi. Il risultato finale deriverebbe quindi dalle scelte degli elettori, ma in tal caso l’assenteismo , peraltro di sicuro inferiore a quello per il referendum, non giocherebbe alcun ruolo paralizzante: ciascun partito cercherebbe una maggioranza favorevole alle proprie istanze, senza tuttavia doverle snaturare a priori , mantenendo inoltre un dialogo aperto e costante con l’opinione pubblica su ogni singolo aspetto. Qualcuno obietterà forse che il Capo dello Stato, impugnando la Carta Costituzionale , si potrebbe opporre a tale soluzione , bocciandola o rinviandola sine die. Tale ipotesi, anche se dovesse verificarsi, non toglierebbe però alla votazione delle Camere il suo valore politico e simbolico, promuovendo un dibattito generale e probabilmente una sana drammatizzazione del problema, propedeutica a successivi sviluppi. Dopo una probabile bocciatura referendaria, invece, di questa riforma non si parlerebbe mai più.
Questo il mio suggerimento alla on. Meloni: perché non provarci?
Carlo Vivaldi-Forti , fiorentino di nascita ma genovese d’origine, è docente ordinario di Sociologia e Psicologia Sociale presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (CH) . Vanta un lungo curriculum di scrittore e giornalista, collaboratore di molte riviste e giornali italiani e stranieri, è autore di saggi scientifici ed opere letterarie. Con una di queste, La corona di San Venceslao, ed. La Città armoniosa, Reggio Emilia 1982, entrò nelle semifinali del Premio Viareggio del 1984, avendo inoltre vinto i concorsi letterari Il Setaccio di Montecatini Terme del 1984, Accademia Città di Roma del 1985 e Il Machiavello del 1986. Con Pravda vitezi – La verità vince, ed. Campanotto , Pasian di Prato (UD) 2008, ho vinto il prestigioso Premio Firenze Il Fiorino d’Oro. In epoca recente si è dedicato allo studio delle riforme costituzionali in Italia, pubblicando il saggio Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo, ed. Solfanelli , Chieti 2018. La sua ultima fatica è stata il libro di ricordi La scoperta della Corsica , un’avventura dello spirito, ed. Tabula Fati (Solfanelli) , Chieti 2020. Nel 2021 ha pubblicato con Gingko edizioni Sogno Veneziano dedicato all’opera che Puccini non fece in tempo a scrivere.