La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La celebre Venere di Willendo è una statuetta di forme femminili alta 11 centimetri, trovata nel 1908 in un sito paleolitico vicino a Willendorf, un villaggio della Bassa Austria. La sua età stimata è di circa 30.000 anni e fu forse usata per scopi magici o medici. Questa è la più antica rappresentazione di un corpo femminile.

In un nuovo studio pubblicato dall’Università di Vienna in collaborazione con il Museo di Storia Naturale di Vienna, i ricercatori hanno applicato la tomografia ad alta risoluzione, trovando che la Venere proviene da una regione del nord Italia. Potrebbe trattarsi della pietra Galina, usata fra l’altro per la statua equestre di Cangrande della Scala.

L’antropologo Gerhard Weber dell’Università di Vienna ha utilizzato la tomografia a microcomputer per analizzare la Venere fino a una risoluzione di 11,5 micrometri. Insieme ad Alexander Lukeneder e Mathias Harzhauser del Museo di Storia Naturale di Vienna, il team si è procurato campioni comparativi dall’Austria e dall’Europa per confrontarli e determinarne geologicamente l’origine.

Lo studio ha scoperto che i dati della tomografia della statuetta avevano sedimenti depositati nelle rocce in diverse densità e dimensioni. In mezzo c’erano sempre piccoli resti di conchiglie e sei grani molto densi e più grandi, la cosiddetta limonite. Quest’ultima spiega le precedentemente misteriose rientranze emisferiche sulla superficie della Venere con lo stesso diametro: “Le limoniti dure sono probabilmente scoppiate quando il creatore di Venere stava scolpendo”, spiega Weber: “Nel caso dell’ombelico della Venere, hanno poi apparentemente fatto di necessità virtù”.

Il team ha anche scoperto che l’oolite della Venere è porosa perché i nuclei dei milioni di globuli (ooides) che la compongono si sono dissolti. Un’analisi più approfondita ha anche identificato un minuscolo residuo di conchiglia, lungo appena 2,5 millimetri, che è stato datato al periodo giurassico. Questo ha escluso tutti gli altri potenziali depositi della roccia del Miocene, molto più tardi, come quelli del vicino Bacino di Vienna.

I calcari nummulitici presentano un colore biancastro-giallastro, con struttura ruvida e grana grossolana. Il nome deriva dai nummuliti fossili (gusci circolari a forma di moneta; dal latino “nummus”=”moneta”), di cui sono ricchi. Due “varianti” dei calcari nummulitici sono il Calcare di Torbole e la Pietra di Avesa (Pietra Galina), posta in parte nel vicino comune di Quinzano. Entrambi i comuni fanno oggi parte del territorio di Verona.

La pietra è ricca in echinodermi e foraminiferi, ed è una calcarenite ad alghe e molluschi ben stratificata, ma anche un calcare di scogliera a coralli. La seconda è una pietra tenera, con struttura ruvida ma finissima, utilizzata nelle costruzioni romaniche cittadine.

Un’analisi sulla granulometria degli altri campioni ha rivelato che i campioni della Venere erano statisticamente indistinguibili dai campioni provenienti da una località del nord Italia vicino al lago di Garda. Questo è notevole perché significa che la Venere (o almeno il suo materiale) ha iniziato un viaggio dal sud delle Alpi al Danubio a nord delle Alpi. Anche se appare difficile sche si sia trasportato un frammento ancora da lavorare, molto più probabile che la figurina sia stata creata nel territorio di Avesa o Quinzano.

Uno dei due possibili percorsi dal sud al nord porterebbe intorno alle Alpi e nella pianura Pannonica ed è stato descritto in simulazioni da altri ricercatori alcuni anni fa. L’altro modo per andare dal lago di Garda alla Wachau sarebbe un passaggio attraverso le Alpi.

La più antica e dettagliata rappresentazione del volto femminile, finora ritrovata, riguarda la Dama di Brassempouy, ricavata da un frammento di avorio di Mammuth e sarebbe vecchia di 25.000 anni, fu scoperta nel 1892 in un piccolo villaggio della Nouvelle-Aquitaine, vicino al confine con la Spagna.
La Dama di Brassempouy
CELEBRAZIONI PER IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI MARIA CALLAS

CELEBRAZIONI PER IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI MARIA CALLAS

In memoria di Maria Anna Cecilia Sofia Kalogheropoulou

New York, 2 dicembre 1923 – Parigi, 16 settembre 1977.

 

Organizzazione:

Associazione Culturale MarinaMu Ensemble, Via 4 Rusteghi, 14 – Verona

marinamuensemble@gmail.com

 

Altri soggetti coinvolti:

-Teatro Giochetto di Maurizio Gioco

-Casa Editrice Gingko Edizioni

Casa Editrice Scripta

Libreria Il Minotauro

 

 

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Racconto  dell’Arcangelo Gabriele dopo l’Annuncio a Maria

Racconto  dell’Arcangelo Gabriele dopo l’Annuncio a Maria

Racconto  dell’Arcangelo Gabriele dopo l’Annuncio a Maria

 

di Angelo Franco

 

 

 

                                                                                                                    Alla memoria di mia nonna Giuseppina

                                                                                                                    che, con estrema venerazione,

                                                                                                                    ogni giorno di sua vita,

                                                                                                                    più e più volte,

                                                                                                                    pronunciò i dolci accenti

                                                                                                                    dell’Ave Maria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“… Avvenga di me quello che hai detto” – concluse – e l’Arcangelo, indugiando, dispose al volo le ali per far ritorno laddove dimora il Signore. Ancora uno sguardo incantato, ancora un ultimo sospiro, poi l’angelo partì da lei. Fulmineo percorse il limite dello spazio e del tempo, varcò l’ombra delle cose e nell’immenso s’immerse.

Al suo arrivo, miriadi di celesti lo accolsero trepidanti e curiosi; Gabriele portava ancora dipinta sul volto l’estasi dell’incontro.

“Racconta, Gabriele, dicci com’è? – chiesero curiosi gli abitanti del cielo, facendogli ressa intorno – parla, non esitare”.

L’Arcangelo, col volto fiammante, ancora confuso per tanta meraviglia, si scostò, ma gli altri, impazienti, non gli davano tregua. “È bella? Parla, Gabriele, non vedi quanta ansia ci prende?”.

Mentre parlavano, un bagliore improvviso si diffuse per il Paradiso: tutti, serafini e cherubini, angeli ed arcangeli, vennero laddove Iddio chiamava. Gabriele, al centro di una moltitudine in festa, adorava con gli altri il Signore. Questi gli porse il suo sguardo compiaciuto, l’Arcangelo comprese e, col volto reclinato, si dispose a parlare. Tutti ristettero, quasi tremanti, in attesa delle sue parole.

“È bella – disse – è orma di Paradiso”.

“Al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, sia gloria” – nel Paradiso s’udì improvviso.

Gli angeli festanti, roteando su sé stessi, quasi vortici inarrestabili, danzavano nell’immensità tra canti e preghiere. Poco prima, il prodigio s’era compiuto: l’eterno Figlio s’era incarnato nel seno di una vergine donna, il Creatore s’era fatto creatura, l’immensità s’era limitata nel grembo di una madre.

“Tu, o Dio, ci stupisci – riprese Gabriele – tu, il Signore degli eserciti, il tre volte Santo, ti umili nella carne dell’uomo. Quando assistevo sbalordito e senza fiato alla creazione dei cieli e della terra, delle cose tutte, non immaginavo affatto che un giorno, in maniera così celata e vereconda, Tu avresti concepito una meraviglia ancor più grande: tua Madre”.

Una luce vermiglia percorse il cielo infinito… una schiera di angeli corse da oriente ad occidente, roteando come fiamma di fuoco, lodando e cantando la gloria del Signore. Gabriele, con profonda nostalgia, memore di un ricordo ancor vivo, iniziò a dire: “Era il momento in cui, dopo il tramonto, nella prima sera, il tempo sembra fermarsi per i mortali. Il rosso occaso, da poco scomparso dietro i monti, annunciava un giorno nuovo. Scesi dalle celesti dimore… la primavera già schiudeva il suo incanto. Avvertivo lo struggimento del cielo desideroso di ricongiungersi con l’umanità e la nostalgia di questa verso la patria perduta.

Mi diressi verso la casa di Nazaret. Entrai da lei… la vidi. Qualcosa turbò anche me”. “Cosa? Dicci cosa, Gabriele”, proferì curioso Raffaele. “Non credevo affatto – riprese – che alla bellezza del Paradiso potessero mancare il suo sorriso, il suo sguardo, i suoi occhi dolcissimi e belli. Pregava intensamente; avvertivo il mistero della sua preghiera, il fuoco che da essa si liberava e giungeva sino al cuore di Dio. Non volli disturbarla. Quale grande empietà sarebbe stato interromperla! Rimasi là, incantato, tanto che pregai anch’io il Signore chiedendogli di donarmi la grazia di avvicinarmi a così pura e bella creatura. Aleggiava in quella stanza la potenza dello Spirito…”.

“E poi, Gabriele? Cos’altro è successo? Su dai, parla” – proruppe il principe delle milizie celesti. Il messaggero continuò: “Michele, è tanto bella perché tanto ama. Potrei dire che l’orma più grande dell’onnipotenza divina è stata scolpita in lei. La mirai – ricordo – intenta a pregare: il volto chinato dolcemente in avanti e le mani giunte. Sul capo, un candido velo copriva verecondo la chioma nera ed ondulata. M’avvicinai trepidante e rispettoso. Scorsi il profilo del suo nobile viso… le sue gote incontaminate e pure… i lineamenti delicati… ed i suoi occhi…”

“Sì, racconta, dicci dei suoi occhi” intervenne all’improvviso Raffaele che non riusciva a contenere la meraviglia.

“Quando le fui di fronte, prima ch’ella potesse vedermi, alzò lo sguardo al cielo. Di un acceso verde, quegli occhi sono il capolavoro di Dio: immensi come l’azzurro spazio, profondi tanto quanto gli abissi del mare. D’ora innanzi si dirà del turbamento ch’ella provò nell’incontrarmi; ma vi assicuro che sebbene di questo non si farà mai cenno, il mio turbamento fu ancor più grande: mi trovavo dinanzi ad un angolo di cielo infinito, dinanzi ad un capolavoro di umiltà e magnificenza”.

“E poi, cosa accadde oltre?” chiese di nuovo Michele.

“Non appena ebbe terminato di pregare, mi feci innanzi. S’era appena levata dall’inginocchiatoio, quando le dissi: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te».

A quelle mie parole, l’Immacolata rimase turbata come ogni uomo che contempli il mistero: mi fissava attentamente con sguardo profondo, poi, quando comprese chi fossi, mi sorrise.

Era circondata da tanta luce e quel sorriso, accennato e pudico, rivelava l’immensità e la profondità delle sue virtù. Iddio, che l’ha voluta per madre, l’ha rivestita degli abiti più belli.

Con far soave e gentile mi porse la mano chiedendomi di rialzarmi. Vi assicuro, fratelli, che non v’è nulla di più bello che raccogliere un suo invito ed esaudire un suo desiderio. Ad un tratto, mi disse: «Perché mi hai salutato in quel modo?».

«Non temere – le dissi – perché hai trovato grazia presso Dio».

Ricordo ancora – e l’eternità stessa non potrà affievolirne la traccia – l’espressione accesa di quei suoi occhi: vi lessi la potenza del Padre, la sapienza del Figlio e il soffio d’amore dello Spirito”.

A questo punto l’Arcangelo si fermò un tantino, quasi rapito nell’estasi del ricordo. “Continua, Gabriele – replicarono gli altri – non fermarti”.

Egli riprese: “Le dissi che nella mente di Dio era conservato un segreto infinito, un mistero altissimo dal quale sarebbe rifiorita l’alleanza tra il Cielo e l’uomo. Le dissi che il momento era giunto e che per compiere l’opera della redenzione, il Signore aveva deciso di farsi uomo. «Tu sei stata scelta qual Madre di Dio – le rivelai stentando a parlare, tanto grande era la commozione del momento – l’Eterno in te si farà bambino».

Mi fissò attentamente.

Io continuai: «In virtù di questo, Iddio ti ha resa, sin dal primo istante del tuo concepimento, Immacolata e priva della benché minima traccia di peccato: tu sei la piena di grazia, tu sei ricolma di Dio».

Tacque alcuni istanti. Ad un tratto tentò nuovamente di parlare, ma qualcosa la frenò. Cadde inginocchio per terra e, elevati gli occhi al cielo, si affidò nuovamente al suo Signore.

«Hai ferito d’amore – le dissi – il cuore di Dio. La tua umiltà e la tua fedeltà hanno innamorato il Paradiso. Tutta bella tu sei… e non vi è in te macchia alcuna che possa sporcare l’abito di cui Iddio t’ha rivestita».

Una lacrima le corse lungo le vermiglie gote.

Mentre Gabriele narrava, i serafini oranti, dagli alti troni della loro gerarchia, intonarono nuovamente il gloria, alle loro voci fece eco tutto il Paradiso.

Il messaggero riprese: “Le dissi: «Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù». Attonita ascoltò quelle parole; poi, come riavutasi da un momento di confusione, disse: «Ma come sarà possibile? Sebbene promessa sposa, ho consacrato a Dio la mia verginità. Come mai adesso il Signore mi chiede di rinunciare al voto che liberamente gli ho fatto?». «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Non temere; tu sarai Madre, né il tuo voto sarà infranto, nulla è impossibile a Dio. Il Signore ha accettato la tua offerta e la custodisce gelosamente, ma, nella sua onnipotenza, chiama te, donna esemplare a divenire madre di sé stesso. Esulta figlia di Sion, tra tutte le donne della storia, tu sola sei stata prescelta qual Madre di Dio. Né sulla terra, né in cielo, il Signore ha potuto trovare alcuna che potesse esserti pari o superiore. Attraverso le tue materne gioie, verrà al mondo il sole di giustizia. Tuo figlio sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Riceverà in eredità il trono di Davide e il suo regno non avrà fine. Tu sarai la Madre di Dio».

A quelle parole rimase silenziosa. Quanti pensieri corsero nella sua mente in quel momento e chissà quali furono: Iddio ha voluto tenerli nascosti perché il sublime è incomunicabile… soltanto Egli li ha conosciuti e benedetti”.

“Cosa accadde dopo? – chiese ancora Michele impaziente – come reagì al tuo annuncio?”. “Quello fu l’attimo in cui tremò il cielo e la terra: Iddio aveva proposto… a lei la libera scelta. Il creato sapeva che qualunque risposta fosse stata data, nulla sarebbe stato più come prima. La fissai… la mente umana concepiva grandi perplessità. Divenire madre, così all’improvviso e senza intervento umano, chi mai avrebbe creduto a questa storia? E Giuseppe, avrebbe compreso il prodigio? E il paese con tutti i suoi limiti e pregiudizi, cosa avrebbe pensato? Io divenire la madre di Dio? Quanti interrogativi in quel momento. Ma subito notai una ferma risoluzione sul suo volto: il timore, giustificabile e comprensibile, in lei dileguò in un sol istante. La vidi alzare gli occhi al cielo… il suo volto brillò come d’incanto: «Ecco – disse – sono la serva del Signore…».

Nel cielo della sera, una stella luminosissima saettando nell’aria percorse il firmamento da un lato all’altro: era il segno con cui il Signore benediva l’ora che segnò i destini della redenzione.

Et Verbum caro factum est.

Ella vide quell’astro luminoso, corse alla finestra e rimase a contemplare… in quell’istante immaginò le gioie della sua maternità: con la mente fantasticò sul primo sguardo e sul primo bacio che ella avrebbe dati al Figlio. Lo strinse col pensiero tra le sue braccia, lui, l’onnipotente indifeso… Non sapeva ancora che un dì avrebbe accompagnato il Creatore sul sublime altare del Golgota.

«Sai – mi disse – il pianto di Eva tramuterò in gioia. Per me, come scala che il cielo alla terra congiunge, giungerà la salvezza del Signore. La nostalgia divina, per mezzo di mio Figlio, sarà acquietata: l’umanità vedrà il volto di Dio».

Aveva appena terminato di parlare quando un rumore improvviso, lugubre e sinistro, s’avvertì. «Non lo temo – mi disse convinta e sicura – non vincerà su di me. Mi odierà con tutta la sua miseria, ma non vincerà giammai. Io sono la piena di grazia… il Signore è con me! Ricordo di aver letto che nel giorno del peccato di Adamo, Iddio pose l’antica inimicizia: io sono quella Donna e mio Figlio il lignaggio che gli schiaccerà il capo. Non lo temo. Quanti a me ricorreranno saranno protetti dalle sue minacce ed invulnerabili alle sue insidie. Non perderò nessuno di quanti a me ricorreranno con fede e intima tenerezza… nessuno perirà. Benedirò quanti avranno sul loro labbro il mio nome, quanti mi ameranno come loro madre. Moltiplicherò le mie preghiere per questi miei figli e prometto, sì, prometto di condurli all’Onnipotente».

Era ritornata sul suo inginocchiatoio a pregare, un altro sussurro dell’anima, poi disse: «Avvenga di me quello che hai detto».

Mi genuflettei dinanzi a quel tabernacolo nel quale dimorava il mio Signore, indi, indugiando, mossi le ali verso il Paradiso”.

Gabriele aveva terminato il racconto… tutti ristettero silenziosi ed assorti. Ad un tratto il cielo s’accese: le schiere beate, dai più alti troni, si mossero vorticosamente… il Signore si compiacque: tutto fu luce, nel Paradiso risuonò sublime il nome di Maria.

 

Angelo Franco

 

Il pittore Ridanio Menini oggi inaugura la sua Mostra, a San Rocco di Quinzano

Il pittore Ridanio Menini oggi inaugura la sua Mostra, a San Rocco di Quinzano

Ridanio Menini (foto G. Carli).

Avevamo già visitato lo studio dell’artista Ridanio Menini nel centro antico di Quinzano e ne avevamo scritto su questo giornale:

Ridanio Menini, grande artista di Quinzano – Giornale Cangrande

Questa sera, 11 agosto 2002, alle 19, presso alla chiesa di San Rocco di Quinzano, si terrà il vernissage della mostra che raccoglie i suoi nuovi quadri. Tale mostra continuerà per 6 giorni, in concomitanza con la Festa di San Rocco; un evento organizzato, realizzato e sostenuto, da un gruppo di risoluti volontari, guidati da Giorgio Carli, che si sono sobbarcati tutte le fatiche, i bizantinismi burocratici e i grattacapi necessari per realizzare questo evento.

Non mancate di visitare la bella mostra di Ridanio Menini, e poi fermatevi a mangiare a San Rocco, con il sottofondo di tanta buona musica.

Ridanio noi lo conosciamo bene, è un artista vero, sincero e aperto. Potremmo definirlo “il pittore dell’equilibrio e della serenità”.

Angelo Paratico

 

Giorgio Carli, un vero eroe democratico

Giorgio Carli, un vero eroe democratico

 

A Quinzano, oggi parte di Verona ma un tempo comune indipendente, si fa alta cultura.

Buona parte del merito va ascritto alla piccola comunità che gravita attorno a San Rocco e all’eremo di San Rocchetto. Parliamo di un gruppo di volenterosi che impiegano il proprio tempo e le proprie risorse per restaurare e finanziare questi centri. Il motore di queste attività è ascrivibile a Giorgio Carli, coadiuvato da Gianfranco Barbieri, Ridanio Menini, Andrea Toffaletti, Cristiano Girelli e dalla Cooperativa Pericoti di Quinzano. Sono tutti amanti della storia locale e infaticabili animatori delle interessanti serate culturali, di riprese cinematografiche condotte dal regista Mario Vittorio Quattrina, di concerti e di cori.  Tutte queste attività vengono organizzate solo grazie al loro impegno personale e sono resistite al test acido del Covid.

L’impegno profuso da Giorgio Carli è commovente e ha qualcosa di eroico. Dopo aver partecipato al restauro delle chiesa di San Rocco e dell’Eremo di San Rocchetto, oggi si occupa anche della loro manutenzione ordinaria e straordinaria, raccogliendo il denaro necessario con l’annuale sagra di San Rocco, che si tiene il 16 agosto. Deve pagare i diritti musicali per la banda a una esosissima SIAE e dulcis in fundo deve pagare una quota di affitto annuale al comune di Verona, pari a ben 5000 euro! Una bizzarria, dato che dovrebbe essere il comune a versare a loro questo denaro, invece che riceverne.

La storia e la cultura sono importanti per mantenere una comunità unita e forte. Come diceva il grande pensatore inglese Roger Scruton: “I regimi autoritari tendono a disgregare la solidarietà fra la gente comune per poter meglio controllarne la mente” ecco, dunque, perché l’opera di Carli  promuove la democrazia.

Il poeta libanese Khalil Gibran scrisse che: “Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, vengono scoccati”. E se le frecce sono spuntate, sbilanciate o storte, che succede?

A parte la cronica mancanza di fondi, alle serate di San Rocco si lamenta la completa assenza dei giovani, e questo è un fatto comune a tutta Verona.  Le insegnanti e gli insegnanti dovrebbero stimolare la curiosità dei loro studenti, spingendoli a partecipare a eventi culturali e poi presentare delle relazioni di quanto hanno udito e visto. Perché non lo fanno? I programmi scolastici non lo prevedono? Al diavolo i programmi scolastici.

I nostri giovani stanno a casa a giocare ai videogame, a guardare le partite di calcio, oppure girano per i bar, in  branco, trascurando libri e cultura fuori dalle aule scolastiche. Tutto questo avrà un pesante costo, con gravi ripercussioni sulla società futura, che diverrà più povera, più violenta, più indifferente. E la colpa è solo nostra, non dei nostri giovani, perché non li abbiamo ben educati e istruiti e, così facendo, permetteremo a chi verrà dopo di noi di mangiargli gli gnocchi in testa.

Dal un deposito di Montecitorio emerge una Gioconda. Ma non è una copia di Leonardo.

Dal un deposito di Montecitorio emerge una Gioconda. Ma non è una copia di Leonardo.

La copia della Monna Lisa appare sul sito parlamentare “ArteCamera”, accompagnata da una breve scheda redatta dagli studiosi della quadreria statale di appartenenza che si sono guardati dal parlare di «bottega di Leonardo» o di «mano del maestro», definendola «una copia che aspira a replicare diligentemente il suo modello», la Gioconda del Louvre. La prima “sorella gemella” della Gioconda, una copia (quasi) perfetta del quadro di Leonardo Da Vinci, la tela più famosa al mondo ospitata al Museo del Louvre di Parigi, era stata trovata a Montecitorio a inizio dicembre 2022, durante alcuni lavori nel palazzo del potere italiano per eccezione. I lavori di restauro sulla tela avevano poi rivelato che dietro ci potrebbe essere stata la «mano» di Leonardo Da Vinci.

A restaurare il dipinto è stata Cinzia Pasquali, e sulle restauratrici che confondono fasi per vere ne son piene le cronache, pur essendo tra le restauratrici più famose al mondo. Romana ed esperta di Leonardo da Vinci, vive da oltre 25 anni a Parigi e lavora al Louvre. È l’autrice di quello che è stato definito il “restauro del secolo”: la “Sant’Anna con la Vergine e il Bambino”, proprio di Da Vinci. Quando si è accorta delle analogie con la “vera” Gioconda, ha chiamato Vincent Delieuvin, capo curatore dei dipinti per il Louvre, che ha preso il primo volo per Roma.

L’opera è nota anche come Gioconda Torlonia perché in passato è stata di proprietà della nobile famiglia romana, ed è una delle decine di copie esistenti della celeberrima Monna Lisa di Leonardo da Vinci. Non è neanche tra quelle di miglior qualità menzionando anche l’opera che adesso si vuole far passare come appena scoperta). Si tratta di un dipinto dalla storia ben nota: documentata nel 1814 negli inventari dei Torlonia come “copia della Gioconda di Leonardo da Vinci” (fu attribuita a Bernardino Luini da Giuseppe Antonio Guattani, ma anche quest’attribuzione poi decadde in quanto troppo debole), entrò a fa parte della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini nel 1892, dopodiché, nel gennaio del 1927, fu concessa in deposito alla Camera dei Deputati, e da allora si trova a Montecitorio..

Lapidario anche Vittorio Sgarbi: “Macché seconda Gioconda! È solo una modesta tela! Roba da arredamento confusa da menti ottenebrate”, ha detto il vulcanico storico dell’arte ferrarese. “Una modesta tela esposta in un palazzo pubblico, nell’Ufficio del Questore di Montecitorio, è stata fatta passare come una seconda Gioconda di Leonardo, che, per inciso, ha fatto fatica (ci ha messo 5 anni) a dipingerne una. L’eccitazione di menti ottenebrate ha evocato con grande suggestione magazzini, depositi, polvere, evitando l’unica parola pertinente: arredamento! E cioè quello che solitamente, provenendo dai depositi di un museo viene chiesto, a partire dalla Camera e dal Senato, e poi da ambasciate e prefetture, per arredare sale aperte al pubblico, come da anni è Montecitorio.

La vera storia di San Valentino, la festa degli innamorati?

La vera storia di San Valentino, la festa degli innamorati?

La genesi della festa di San Valentino, è frutto di una antica censura. Nell’anno 496 l’allora papa Gelasio I volle porre fine a quegli antichi riti pagani dedicati al dio della fertilità Luperco e che, nonostante l’impero fosse già caduto e fossero sottoposti al re dei Goti, Teodorico, un certo senatore Andromaco volle resuscitare quelle sacre celebrazioni. Infatti, i lupercalia comprendevano, mascherate, cortei, e giornate in cui i servi prendevano il posto dei padroni e viceversa, con l’intento di innescare un processo di rinascita che riportasse al caos primigenio. Parte di queste manifestazioni ritualistiche e orgiastiche sono sopravvissute fino a oggi, nelle tradizioni del Carnevale. L’apice delle celebrazioni vedeva giovinetti nodi, cosparsi col sangue di pecore sacrificate, che correvano attorno al Palatino, toccavano con dei rami tutte le donne nude che offrivano i propri corpi. Per “creare” una festa pudica dell’amore, Papa Gelasio I decise di spostarla al giorno precedente il 14 febbraio – dedicato appunto a San Valentino – trasformandolo in un certo modo nel protettore degli innamorati. Esistevano però molti Santi di nome Valentino nel martirologio romano e, a parte il fatto che tutti furono martiri, non si sa molto di loro. Il più noto fu San Valentino da Terni, morto nel 176 per mano dell’imperatore Claudio II, e che si disse essere un protettore degli innamorati. Li guidava verso il matrimonio e li incoraggiava a mettere al mondo dei figli. La letteratura religiosa (e non storica) descrive il santo come guaritore degli epilettici, degli apicultori e difensore delle storie d’amore. Si racconta, a esempio, che abbia messo pace tra due fidanzati che litigavano, offrendo loro una rosa.

Sebbene la figura di san Valentino sia nota anche per il messaggio d’amore portato da questo santo, l’associazione specifica con l’amore romantico e gli innamorati è quasi certamente posteriore, e la questione della sua origine è controversa, ma certamente originaria del Nord Europa. Da là, infatti, origina il vezzo di chiamare “valentina” la propria amante. La più antica di cui sia rimasta traccia  fu scritta da Carlo D’Orleans  detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt del 1415. Carlo si rivolse a sua moglie Bonne di Armagnac con le parole: Je suis desja d’amour tanné, ma tres doulce Valentine.

Successivamente, nell’Amleto di Shakespeare (1601), durante la scena della pazzia di Ofelia (scena V dell’atto IV), la fanciulla canta, ormai delusa e imbrogliata: “Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra, voglio essere la tua Valentina“.

 

Giacomo Zerman, un artista veronese di grande talento

Giacomo Zerman, un artista veronese di grande talento

Giacomo Zerman, nato nel 1994 a Verona, ha iniziato a dipingere nel 2016. Il suo è un dono innato e si sta facendo conoscere con quadri “che fanno pensare” e lasciano chi li ammira con la certezza di avere di fronte un artista a tutto tondo, capace di interpretare il mondo classico greco e romano e coglierne i frutti migliori che poi offre al mondo moderno. Abbiamo postato alcuni suoi dipinti al termine di questo articolo. Predilige i colori acrilici su una base di tela.

 

 

 

 

 

Per farlo conoscere meglio ai nostri lettori gli abbiamo chiesto di completare il celeberrimo Questionario di Proust.

 

1) Il tratto principale del mio carattere

Energico e pensieroso

2) La qualità che desidero in un uomo.

Gentilezza

3) La qualità che preferisco in una donna.

Sensualità e fedeltà. Che sappia trasformare i miei difetti in punti di forza e che mi possa amare per quel che sono.

4) Quel che apprezzo di più nei miei amici.

L’essere alla mano, allegri e buoni 

5) Il mio più grande difetto

Non saper controllare la rabbia

6) Il mio sogno di felicità

Non dico nulla sennò non s’avvera

7) Quale sarebbe, per me, la più grande disgrazia:
Restare paralizzato o perdere un figlio o una figlia

8) Quel che vorrei essere.

Me stesso, con pregi e difetti

9) Il paese dove vorrei vivere.
Paesi caraibici, Spagna o Stati Uniti

10) Il colore che preferisco.

Blù in tutte le sue tonalità, rosso e giallo ocra.

11) Il fiore che amo.

Tutti quelli di colore blu

12) L’uccello che preferisco.

Il gufo

13) I miei autori preferiti in prosa.

Stevenson e Salgari

14) I miei poeti preferiti.

Leopardi

15) I miei eroi nella finzione.

Spiderman, Amleto, Dioniso, Achille, Naruto.

16) Le mie eroine preferite nella finzione.

Elettra

17) I miei compositori preferiti.

Paolo Conte

18) I miei pittori preferiti.

Leonardo da Vinci, Raffaello, Dagas, Delacroix, Giotto, De Chirico, Rubens, Turner.

19) I miei eroi nella vita reale.

Nessuno

20) Le mie eroine nella storia.

Giovanna D’Arco e Madam Curie.

21) I miei nomi preferiti.

Giacomo, Giovanni, Filippo…

22) Quel che detesto più di tutto.
Ce ne sono un’infinità

23) I personaggi storici che disprezzo di più.
Non sono abbastanza istruito

24) Il dono di natura che vorrei avere.
Capacità di danzare a 27 anni

25)  Come vorrei morire.
Di vecchiaia a 85 anni

26) Le colpe che mi ispirano maggiore indulgenza.
Quelle che comprendo

27) Il mio motto.

Niente è impossibile, mai arrendersi

Dante a Verona – Un Poema di Dante Gabriel Rossetti (1828 – 1882)

Dante a Verona – Un Poema di Dante Gabriel Rossetti (1828 – 1882)

Dante At Verona Poem by Dante Gabriel Rossetti

 

 

 

 

Behold, even I, even I am Beatrice.
(Div. Com. Purg. xxx.)
OF Florence and of Beatrice
Servant and singer from of old,
O’er Dante’s heart in youth had toll’d
The knell that gave his Lady peace;
And now in manhood flew the dart
Wherewith his City pierced his heart.
Yet if his Lady’s home above
Was Heaven, on earth she filled his soul;
And if his City held control
To cast the body forth to rove,
The soul could soar from earth’s vain throng,
And Heaven and Hell fulfil the song.
Follow his feet’s appointed way;—
But little light we find that clears
The darkness of the exiled years.
Follow his spirit’s journey:—nay,
What fires are blent, what winds are blown
On paths his feet may tread alone?
Yet of the twofold life he led
In chainless thought and fettered will
Some glimpses reach us,—somewhat still
Of the steep stairs and bitter bread,—
Of the soul’s quest whose stern avow
For years had made him haggard now.
Alas! the Sacred Song whereto
Both heaven and earth had set their hand
Not only at Fame’s gate did stand
Knocking to claim the passage through,
But toiled to ope that heavier door
Which Florence shut for evermore.
Shall not his birth’s baptismal Town
One last high presage yet fulfil,
And at that font in Florence still
His forehead take the laurel-crown?
O God! or shall dead souls deny
The undying soul its prophecy?
Aye, ‘tis their hour. Not yet forgot
The bitter words he spoke that day
When for some great charge far away
Her rulers his acceptance sought.
“And if I go, who stays?”—so rose
His scorn:—“and if I stay, who goes?”
“Lo! thou art gone now, and we stay”
(The curled lips mutter): “and no star
Is from thy mortal path so far
As streets where childhood knew the way.
To Heaven and Hell thy feet may win,
But thine own house they come not in.”
Therefore, the loftier rose the song
To touch the secret things of God,
The deeper pierced the hate that trod
On base men’s track who wrought the wrong;
Till the soul’s effluence came to be
Its own exceeding agony.
Arriving only to depart,
From court to court, from land to land,
Like flame within the naked hand
His body bore his burning heart
That still on Florence strove to bring
God’s fire for a burnt offering.
Even such was Dante’s mood, when now,
Mocked for long years with Fortune’s sport,
He dwelt at yet another court,
There where Verona’s knee did bow
And her voice hailed with all acclaim
Can Grande della Scala’s name.
As that lord’s kingly guest awhile
His life we follow; through the days
Which walked in exile’s barren ways,—
The nights which still beneath one smile
Heard through all spheres one song increase,—
“Even I, even I am Beatrice.”
At Can La Scala’s court, no doubt,
Due reverence did his steps attend;
The ushers on his path would bend
At ingoing as at going out;
The penmen waited on his call
At council-board, the grooms in hall.
And pages hushed their laughter down,
And gay squires stilled the merry stir,
When he passed up the dais-chamber
With set brows lordlier than a frown;
And tire-maids hidden among these
Drew close their loosened bodices.
Perhaps the priests, (exact to span
All God’s circumference,) if at whiles
They found him wandering in their aisles,
Grudged ghostly greeting to the man
By whom, though not of ghostly guild,
With Heaven and Hell men’s hearts were fill’d.
And the court-poets (he, forsooth,
A whole world’s poet strayed to court!)
Had for his scorn their hate’s retort.
He’d meet them flushed with easy youth,
Hot on their errands. Like noon-flies
They vexed him in the ears and eyes.
But at this court, peace still must wrench
Her chaplet from the teeth of war:
By day they held high watch afar,
At night they cried across the trench;
And still, in Dante’s path, the fierce
Gaunt soldiers wrangled o’er their spears.
But vain seemed all the strength to him,
As golden convoys sunk at sea
Whose wealth might root out penury:
Because it was not, limb with limb,
Knit like his heart-strings round the wall
Of Florence, that ill pride might fall.
Yet in the tiltyard, when the dust
Cleared from the sundered press of knights
Ere yet again it swoops and smites,
He almost deemed his longing must
Find force to yield that multitude
And hurl that strength the way he would.
How should he move them,—fame and gain
On all hands calling them at strife?
He still might find but his one life
To give, by Florence counted vain;
One heart the false hearts made her doubt,
One voice she heard once and cast out.
Oh! if his Florence could but come,
A lily-sceptred damsel fair,
As her own Giotto painted her
On many shields and gates at home,—
A lady crowned, at a soft pace
Riding the lists round to the dais:
Till where Can Grande rules the lists,
As young as Truth, as calm as Force,
She draws her rein now, while her horse
Bows at the turn of the white wrists;
And when each knight within his stall
Gives ear, she speaks and tells them all:
All the foul tale,—truth sworn untrue
And falsehood’s triumph. All the tale?
Great God! and must she not prevail
To fire them ere they heard it through,—
And hand achieve ere heart could rest
That high adventure of her quest?
How would his Florence lead them forth,
Her bridle ringing as she went;
And at the last within her tent,
‘Neath golden lilies worship-worth,
How queenly would she bend the while
And thank the victors with her smile!
Also her lips should turn his way
And murmur: “O thou tried and true,
With whom I wept the long years through!
What shall it profit if I say,
Thee I remember? Nay, through thee
All ages shall remember me.”
Peace, Dante, peace! The task is long,
The time wears short to compass it.
Within thine heart such hopes may flit
And find a voice in deathless song:
But lo! as children of man’s earth,
Those hopes are dead before their birth.
Fame tells us that Verona’s court
Was a fair place. The feet might still
Wander for ever at their will
In many ways of sweet resort;
And still in many a heart around
The Poet’s name due honour found.
Watch we his steps. He comes upon
The women at their palm-playing.
The conduits round the gardens sing
And meet in scoops of milk-white stone,
Where wearied damsels rest and hold
Their hands in the wet spurt of gold.
One of whom, knowing well that he,
By some found stern, was mild with them,
Would run and pluck his garment’s hem,
Saying, “Messer Dante, pardon me,”—
Praying that they might hear the song
Which first of all he made, when young.
“Donne che avete” . . . Thereunto
Thus would he murmur, having first
Drawn near the fountain, while she nurs’d
His hand against her side: a few
Sweet words, and scarcely those, half said:
Then turned, and changed, and bowed his head.
For then the voice said in his heart,
“Even I, even I am Beatrice”;
And his whole life would yearn to cease:
Till having reached his room, apart
Beyond vast lengths of palace-floor,
He drew the arras round his door.
At such times, Dante, thou hast set
Thy forehead to the painted pane
Full oft, I know; and if the rain
Smote it outside, her fingers met
Thy brow; and if the sun fell there,
Her breath was on thy face and hair.
Then, weeping, I think certainly
Thou hast beheld, past sight of eyne,—
Within another room of thine
Where now thy body may not be
But where in thought thou still remain’st,—
A window often wept against:
The window thou, a youth, hast sought,
Flushed in the limpid eventime,
Ending with daylight the day’s rhyme
Of her; where oftenwhiles her thought
Held thee—the lamp untrimmed to write—
In joy through the blue lapse of night.
At Can La Scala’s court, no doubt,
Guests seldom wept. It was brave sport,
No doubt, at Can La Scala’s court,
Within the palace and without;
Where music, set to madrigals,
Loitered all day through groves and halls.
Because Can Grande of his life
Had not had six-and-twenty years
As yet. And when the chroniclers
Tell you of that Vicenza strife
And of strifes elsewhere,—you must not
Conceive for church-sooth he had got
Just nothing in his wits but war:
Though doubtless ‘twas the young man’s joy
(Grown with his growth from a mere boy,)
To mark his “Viva Cane!” scare
The foe’s shut front, till it would reel
All blind with shaken points of steel.
But there were places—held too sweet
For eyes that had not the due veil
Of lashes and clear lids—as well
In favour as his saddle-seat:
Breath of low speech he scorned not there
Nor light cool fingers in his hair.
Yet if the child whom the sire’s plan
Made free of a deep treasure-chest
Scoffed it with ill-conditioned jest,—
We may be sure too that the man
Was not mere thews, nor all content
With lewdness swathed in sentiment.
So you may read and marvel not
That such a man as Dante—one
Who, while Can Grande’s deeds were done,
Had drawn his robe round him and thought—
Now at the same guest-table far’d
Where keen Uguccio wiped his beard.
Through leaves and trellis-work the sun
Left the wine cool within the glass,—
They feasting where no sun could pass:
And when the women, all as one,
Rose up with brightened cheeks to go,
It was a comely thing, we know.
But Dante recked not of the wine;
Whether the women stayed or went,
His visage held one stern intent:
And when the music had its sign
To breathe upon them for more ease,
Sometimes he turned and bade it cease.
And as he spared not to rebuke
The mirth, so oft in council he
To bitter truth bore testimony:
And when the crafty balance shook
Well poised to make the wrong prevail,
Then Dante’s hand would turn the scale.
And if some envoy from afar
Sailed to Verona’s sovereign port
For aid or peace, and all the court
Fawned on its lord, “the Mars of war,
Sole arbiter of life and death,”—
Be sure that Dante saved his breath.
And Can La Scala marked askance
These things, accepting them for shame
And scorn, till Dante’s guestship came
To be a peevish sufferance:
His host sought ways to make his days
Hateful; and such have many ways.
There was a Jester, a foul lout
Whom the court loved for graceless arts;
Sworn scholiast of the bestial parts
Of speech; a ribald mouth to shout
In Folly’s horny tympanum
Such things as make the wise man dumb.
Much loved, him Dante loathed. And so,
One day when Dante felt perplexed
If any day that could come next
Were worth the waiting for or no,
And mute he sat amid their din,—
Can Grande called the Jester in.
Rank words, with such, are wit’s best wealth.
Lords mouthed approval; ladies kept
Twittering with clustered heads, except
Some few that took their trains by stealth
And went. Can Grande shook his hair
And smote his thighs and laughed i’ the air.
Then, facing on his guest, he cried,—
“Say, Messer Dante, how it is
I get out of a clown like this
More than your wisdom can provide.”
And Dante: “’Tis man’s ancient whim
That still his like seems good to him.”
Also a tale is told, how once,
At clearing tables after meat,
Piled for a jest at Dante’s feet
Were found the dinner’s well-picked bones;
So laid, to please the banquet’s lord,
By one who crouched beneath the board.
Then smiled Can Grande to the rest:—
“Our Dante’s tuneful mouth indeed
Lacks not the gift on flesh to feed!”
“Fair host of mine,” replied the guest,
“So many bones you’d not descry
If so it chanced the dog were I.”
But wherefore should we turn the grout
In a drained cup, or be at strife
From the worn garment of a life
To rip the twisted ravel out?
Good needs expounding; but of ill
Each hath enough to guess his fill.
They named him Justicer-at-Law:
Each month to bear the tale in mind
Of hues a wench might wear unfin’d
And of the load an ox might draw;
To cavil in the weight of bread
And to see purse-thieves gibbeted.
And when his spirit wove the spell
(From under even to over-noon
In converse with itself alone,)
As high as Heaven, as low as Hell,—
He would be summoned and must go:
For had not Gian stabbed Giacomo?
Therefore the bread he had to eat
Seemed brackish, less like corn than tares;
And the rush-strown accustomed stairs
Each day were steeper to his feet;
And when the night-vigil was done,
His brows would ache to feel the sun.
Nevertheless, when from his kin
There came the tidings how at last
In Florence a decree was pass’d
Whereby all banished folk might win
Free pardon, so a fine were paid
And act of public penance made,—
This Dante writ in answer thus,
Words such as these: “That clearly they
In Florence must not have to say,—
The man abode aloof from us
Nigh fifteen years, yet lastly skulk’d
Hither to candleshrift and mulct.
“That he was one the Heavens forbid
To traffic in God’s justice sold
By market-weight of earthly gold,
Or to bow down over the lid
Of steaming censers, and so be
Made clean of manhood’s obloquy.
“That since no gate led, by God’s will,
To Florence, but the one whereat
The priests and money-changers sat,
He still would wander; for that still,
Even through the body’s prison-bars,
His soul possessed the sun and stars.”
Such were his words. It is indeed
For ever well our singers should
Utter good words and know them good
Not through song only; with close heed
Lest, having spent for the work’s sake
Six days, the man be left to make.
Months o’er Verona, till the feast
Was come for Florence the Free Town:
And at the shrine of Baptist John
The exiles, girt with many a priest
And carrying candles as they went,
Were held to mercy of the saint.
On the high seats in sober state,—
Gold neck-chains range o’er range below
Gold screen-work where the lilies grow,—
The Heads of the Republic sate,
Marking the humbled face go by
Each one of his house-enemy.
And as each proscript rose and stood
From kneeling in the ashen dust
On the shrine-steps, some magnate thrust
A beard into the velvet hood
Of his front colleague’s gown, to see
The cinders stuck in the bare knee.
Tosinghi passed, Manelli passed,
Rinucci passed, each in his place;
But not an Alighieri’s face
Went by that day from first to last
In the Republic’s triumph; nor
A foot came home to Dante’s door.
(RESPUBLICA—a public thing:
A shameful shameless prostitute,
Whose lust with one lord may not suit,
So takes by turn its revelling
A night with each, till each at morn
Is stripped and beaten forth forlorn,
And leaves her, cursing her. If she,
Indeed, have not some spice-draught, hid
In scent under a silver lid,
To drench his open throat with—he
Once hard asleep; and thrust him not
At dawn beneath the stairs to rot.
Such this Republic!—not the Maid
He yearned for; she who yet should stand
With Heaven’s accepted hand in hand,
Invulnerable and unbetray’d:
To whom, even as to God, should be
Obeisance one with Liberty.)
Years filled out their twelve moons, and ceased
One in another; and alway
There were the whole twelve hours each day
And each night as the years increased;
And rising moon and setting sun
Beheld that Dante’s work was done.
What of his work for Florence? Well
It was, he knew, and well must be.
Yet evermore her hate’s decree
Dwelt in his thought intolerable:—
His body to be burned,*—his soul
To beat its wings at hope’s vain goal.
What of his work for Beatrice?
Now well-nigh was the third song writ,—
The stars a third time sealing it
With sudden music of pure peace:
For echoing thrice the threefold song,
The unnumbered stars the tone prolong.†
Each hour, as then the Vision pass’d,
He heard the utter harmony
Of the nine trembling spheres, till she
Bowed her eyes towards him in the last,
So that all ended with her eyes,
Hell, Purgatory, Paradise.
“It is my trust, as the years fall,
To write more worthily of her
Who now, being made God’s minister,
Looks on His visage and knows all.”
Such was the hope that love dar’d blend
With grief’s slow fires, to make an end
Of the “New Life,” his youth’s dear book:
Adding thereunto: “In such trust
I labour, and believe I must
Accomplish this which my soul took
In charge, if God, my Lord and hers,
Leave my life with me a few years.”
The trust which he had borne in youth
Was all at length accomplished. He
At length had written worthily—
Yea even of her; no rhymes uncouth
‘Twixt tongue and tongue; but by God’s aid
The first words Italy had said.
Ah! haply now the heavenly guide
Was not the last form seen by him:
But there that Beatrice stood slim
And bowed in passing at his side,
For whom in youth his heart made moan
Then when the city sat alone Quomodo sedet sola civitas!
—The words quoted by Dante in the Vita Nuova when
he speaks of the death of Beatrice.
Clearly herself: the same whom he
Met, not past girlhood, in the street,
Low-bosomed and with hidden feet;
And then as woman perfectly,
In years that followed, many an once,—
And now at last among the suns
In that high vision. But indeed
It may be memory might recall
Last to him then the first of all,—
The child his boyhood bore in heed
Nine years. At length the voice brought peace,—
“Even I, even I am Beatrice.”
All this, being there, we had not seen.
Seen only was the shadow wrought
On the strong features bound in thought;
The vagueness gaining gait and mien;
The white streaks gathering clear to view
In the burnt beard the women knew.
For a tale tells that on his track,
As through Verona’s streets he went,
This saying certain women sent:—
“Lo, he that strolls to Hell and back
At will! Behold him, how Hell’s reek
Has crisped his beard and singed his cheek.”
“Whereat” (Boccaccio’s words) “he smiled
For pride in fame.” It might be so:
Nevertheless we cannot know
If haply he were not beguiled
To bitterer mirth, who scarce could tell
If he indeed were back from Hell.
So the day came, after a space,
When Dante felt assured that there
The sunshine must lie sicklier
Even than in any other place,
Save only Florence. When that day
Had come, he rose and went his way.
He went and turned not. From his shoes
It may be that he shook the dust,
As every righteous dealer must
Once and again ere life can close:
And unaccomplished destiny
Struck cold his forehead, it may be.
No book keeps record how the Prince
Sunned himself out of Dante’s reach,
Nor how the Jester stank in speech:
While courtiers, used to cringe and wince,
Poets and harlots, all the throng,
Let loose their scandal and their song.
No book keeps record if the seat
Which Dante held at his host’s board
Were sat in next by clerk or lord,—
If leman lolled with dainty feet
At ease, or hostage brooded there,
Or priest lacked silence for his prayer.
Eat and wash hands, Can Grande;—scarce
We know their deeds now: hands which fed
Our Dante with that bitter bread;
And thou the watch-dog of those stairs
Which, of all paths his feet knew well,
Were steeper found than Heaven or Hell.