L’ 11 aprile 1935, novant’anni fa, Benito Mussolini atterrava con un idrovolante da lui stesso pilotato sulle acque tranquille del Lago Maggiore, prendeva i comandi di un motoscafo ed entrava nel porticciolo sull’Isola Bella, che portava a Palazzo Borromeo. Lo attendevano i massimi rappresentanti politici di Gran Bretagna e Francia, mentre Adolf Hitler non era stato invitato. Le discussioni terminarono tre giorni dopo con la firma di un accordo molto importante, che creò quello che fu definito il ‘Fronte di Stresa’.
Siamo convinti che nessuno nei prossimi giorni ricorderà tale anniversario, che pure ebbe risonanza mondiale e il cui fallimento, provocato dalla eccessiva prudenza della Gran Bretagna, portò diritto alla Seconda guerra mondiale. In Italia non sono stati pubblicati libri su questo tema, contenenti una analisi storica spassionata dedicata agli accordi che vi furono sottoscritti e dei loro tragici sviluppi. Eppure possiamo dire che quei giorni segnarono l’apogeo del prestigio e della fama di Mussolini, più ancora che a Monaco, nel 1938.
Le migliori analisi dedicate a questo argomento sono dovute in Italia a Rosaria Quartararo, una brillante allieva di Renzo De Felice, oppure a storici francesi, citiamo solo Léon Noél Les Illusions de Stresa. L’Italie abandonée a Hitler del 1975, mentre nella storiografia inglese poco è stato scritto, forse perché non si sanno liberare del loro complesso di superiorità, rafforzato da una vittoria nella II Guerra Mondiale che si attribuiscono ma che in realtà andrebbe ascritta all’URSS in primis e agli Stati Uniti in secundis e forse per questo motivo continuano a vedere gli sforzi diplomatici di Mussolini come cosa di poco conto.
Tale accordo è stato definito da Pat Buchanan, nel suo Churchill, Hitler and the Unnecessary War, come ‘il più importante tentativo fatto in Europa per fermare Adolf Hitler prima dell’inizio della II Guerra mondiale’ e, addirittura, rincarando la dose, egli sottolinea che fu una follia, pochi mesi dopo, per la Gran Bretagna di aver votato contro l’Italia e applicato sanzioni punitive per l’invasione dell’Etiopia, spingendola effettivamente nelle braccia di Hitler. La Francia invece accettò obtorto collo la sovranità italiana sull’Etiopia come uno scotto da pagare per mantenere unito il ‘Fronte di Stresa’: una ulteriore dimostrazione della sua importanza.
L’Italia e la Francia desideravano fortemente far fronte comune contro Hitler, il quale, dopo che il 16 marzo 1935 aveva ripristinato la leva obbligatoria e aveva dichiarato di voler creare una flotta aerea e di aumentare il numero di divisioni, stracciando gli accordi sottoscritti a Versailles. Le nazioni vincitrici della I Guerra Mondiale si limitarono a note di protesta, ma l’errore più evidente lo fece la Gran Bretagna inviando John Simon e Antony Eden a Berlino per una visita precedentemente programmata, come se nulla fosse accaduto.
Benito Mussolini pose sul tavolo vari argomenti, anche se la necessità di evitare l’Anschluss dell’Austria fu quello centrale. Egli esordì mostrando di conoscere bene la situazione a Vienna, dicendo ai rappresentanti della Gran Bretagna, Ramsay MacDonald e John Simon, e a quelli francesi, Pierre Laval e Pierre-Etienne Flandin, che una coscrizione obbligatoria in Austria avrebbe voluto dire la fine della sua neutralità, dato che i giovani austriaci erano tutti filo-nazisti.
Pochi lo sanno ma nel 1935 Mussolini tentò di organizzare un colpo di Stato in Austria, fissato per il 2 giugno 1935, per sottrarla alle mire naziste, d’accordo con Starhemberg che rassicurò dicendogli che Francia e la Gran Bretagna lo avrebbero sostenuto, ma Von Papen e Schuschnigg lo vennero a sapere e il piano saltò. Siamo a conoscenza di questo piano grazie a una lettera di Corbin a Laval, nella quale nota che: “Sembra un’opera buffa, ma ci sono i cannoni sullo sfondo”.
Mussolini non voleva la Germania al Brennero e auspicava che l’Austria restasse una nazione cuscinetto, inoltre desiderava avere un avallo che gli consentisse l’occupazione dell’Etiopia, per vendicare l’onta di Adua. Non si parlò esplicitamente dell’invasione dell’Etiopia, ma Mussolini fece delle pesanti allusioni, facendo capire che in cambio di quelle terre egli avrebbe sostenuto le altre potenze europee contro la Germania nazista. Nessuno eccepì o lo avvertì di non azzardarsi a farlo. Se lo avessero fatto, dubitiamo che Mussolini avrebbe mosso l’esercito e, come ebbe poi a dire lo stesso primo ministro francese, Pierre-Etienne Flandin, se la Gran Bretagna fosse stata chiara da subito non avrebbero inflitto poi una cocente umiliazione a Mussolini, il quale agiva in accordo con Vittorio Emanuele III. Prova della propensione a un compromesso da parte di Mussolini fu il fatto che si mostrò disposto ad accettare il piano Hoare-Laval, per una occupazione solo parziale dell’Etiopia, prima che una soffiata lo rendesse pubblico, provocando indignazione in tutto il mondo. Dunque la Gran Bretagna, il Paese con più colonie al mondo, votò per le sanzioni all’Italia che attaccava l’Etiopia. Ma come poi ebbe a dire il sottosegretario permanente al Foreign Office, Vansittart: “Con questo fiasco perdemmo l’Abissinia, perdemmo l’Austria, creammo l’Asse, e rendemmo inevitabile la prossima guerra con la Germania”.
La Gran Bretagna – il suo nomignolo di Perfida Albione in questo caso è meritato – tenne un comportamento assai ambiguo in quegli anni, credendo di poter addomesticare Hitler, la cui natura sanguinaria e i cui fini Benito Mussolini conosceva benissimo e, subito dopo Stresa, cedettero alle lusinghe naziste firmando, il 18 giugno 1935, per un accordo navale, senza informare Francia e Italia, che pose in proporzione diretta Germania e Gran Bretagna per numero e tonnellaggio in navi da guerra, di fatto annullando sia gli accordi di Stresa che quelli di Versailles.
Benito Mussolini s’infuriò ma si convinse che Hitler non poteva più essere fermato e che, pertanto, all’Italia conveniva cavalcare la tigre.
Italo Calvino fu per anni il responsabile delle pagine culturali dell’Unità e fu sempre molto prossimo al mondo comunista. Questo aiutava molto, per usare un eufemismo, negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia. Francamente ho sempre trovato indigeribili i suoi romanzi che pure hanno vinto premi e sono stati tradotti in varie lingue nel mondo. Sono ben cesellati e torniti ma non mi hanno mai comunicato nulla, parlano e alludono a cose che trovo inutili e noiose. Confesso di non essere mai riuscito ad andare oltre alla terza o alla quarta pagina. Questo, certamente, per mancanza mia. Di Calvino ho apprezzato molto le sue Lezioni Americane e un libro di focose lettere scritte a Elsa De Giorgi.
Ecco qui una bella descrizione di queste lettere, solo in parte pubblicate:
“Passato alla storia della letteratura come un letterato schivo, riservato, a tratti persino freddo, Calvino, è stato un uomo appassionato e passionale. Lui ed Elsa De Giorgi furono amanti, negli anni tra il ’55 e il ’58 e, a testimoniare il loro amore, vi è un carteggio di lettere (ben 407) conservate interamente nel Fondo Manoscritti di Pavia. Nel 1990, infatti, proprio la De Giorgi decise di pubblicarne alcune sulla rivista “Epoca” e alcune di queste sono state riprese qualche anno fa dal “Corriere della Sera”, con un comprensibile disappunto da parte della vedova dello scrittore”.
Elsa De’ Giorgi, nata Elsa De Giorgi Alberti nacque nel 1914 e fu una delle attrici più amate del cinema dei “telefoni bianchi”; proveniva da una nobile famiglia e appena 18enne iniziò la sua carriera, agevolata dalla sua grande bellezza. Nel 1948 sposò il Conte Sandrino Contino Bonacossi, partigiano e collezionista d’arte; nella loro Villa di Roma ricevevano personalità del calibro di Alberto Moravia, Carlo Levi, Renato Guttuso ed Elsa era piuttosto stimata in quanto donna e in quanto letterata. Nel 1955 conobbe Italo Calvino; all’epoca lo scrittore – dieci anni più giovane di lei – si occupava dell’ufficio stampa alla casa editrice Einaudi.
I due iniziarono a collaborare e il lavoro sfociò ben presto in un amore difficile e furioso, fatto di incontri proibiti, corrispondenze, di viaggi in treno tra Roma e Torino.
La loro relazione finì sui giornali di cronaca e terminò nel 1958, lasciando uno strascico di polemiche. A un certo punto lei si presentò in redazione con una pistola carica in mano per uccidere Calvino, ma fu convinta a soprassedere. A testimonianza di questo rapporto resta il corpus epistolare che la filologa Maria Corti, una delle poche ad averlo letto nella sua interezza, ha dichiarato essere “il più bello del Novecento italiano”. La stessa Elsa De’ Giorgi si batté per far capire quanto questa relazione avesse inciso non solo sulla formazione di Calvino, in quanto uomo, ma anche e soprattutto sul Calvino scrittore.
1902. Re Vittorio Emanuele sale sulla nave Marco Polo tornata dalla Cina.
La Dante Alighieri non è né letteraria né politica, ma è qualcosa di più nobile e di più alta: è una società nazionale, che raccoglie tutti i partiti, che si propone non di aggredire qualcuno, ma difendere ciò che è il nostro patrimonio più caro e la nostra speranza, la lingua e il sentimento della nazionalità italiana.
Giosuè Carducci
La società Dante Alighieri fu creata nel 1889 a Roma (o a Milano?) dallo studioso e uomo politico napoletano Ruggero Bonghi (1825-1895) con il sostegno di Giosuè Carducci (Pietrasanta, 1835 – Bologna, 1907) e del giurista e accademico Giacomo Venezian (Trieste, 1861 – Castelnuovo del Carso, 1915). Fu il Venezian, di famiglia israelita ma convertitosi al cattolicesimo, che propose al Carducci di fondare una società per tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Giosuè Carducci accettò la proposta di Venezian e ne divenne un instancabile sostenitore. Ruggero Bonghi divenne poi il suo primo presidente e solo qualche anno dopo la sede della Società fu registrata a Roma come Ente Morale (R.D. n. 347 del 18.7.1893).
Alla morte del Bonghi, il nuovo Presidente eletto al Congresso, tenutosi a Milano, fu l’illustre storico e politico napoletano, Pasquale Villari (1827-1917), che trasformò la Società Dante Alighieri in un’organizzazione diffusa in tutto il mondo, ben strutturata e con fondi sufficienti. Nonostante il suo percorso accidentato, le sue non infrequenti “svolte”, i suoi compromessi col potere centrale, la Dante Alighieri riuscì a mantenere nella sua attività all’estero una continuità, indipendenza e una forte coerenza. Il suo progetto iniziale non venne mai dimenticato: il mantenimento dell’identità nazionale, soprattutto fra gli italiani emigrati all’estero, un sentimento che, inevitabilmente, tende ad affievolirsi con il passare del tempo. Questo restò l’obiettivo primario della associazione, creata in tempi difficili, per difendere le tradizioni italiane. Sottolineando il lato eminentemente culturale della Dante Alighieri, Pasquale Villari disse, il 30 settembre 1897, al VIII Congresso, tenutosi a Milano: Vorrei dissipare alcuni equivoci, alcuni errori, che persistono sullo scopo vero della Società nostra. Nonostante i molti discorsi fatti in contrario, vi sono sempre alcuni che credono che si tratti in sostanza di una società politica che punta ad un irredentismo più o meno mascherato. Ma se così fosse, noi non saremmo fedeli né al nostro statuto, né al nostro programma, né alle esplicite dichiarazioni in molte occasioni ripetute. Il nostro statuto dice chiaro che si tratta di diffondere la lingua e la cultura del paese, ovunque, fuori dai confini si trovano italiani. E quindi, nell’America del Sud e nell’America del Nord, a Tunisi, in Alessandria d’Egitto, a Trento, in Corsica, a Malta, nel Cantone Ticino, ecc. Sarebbe strano davvero il voler raggiungere uno scopo così vasto, così generale, res qualunque sia il Governo sotto cui, fuori d’Italia, si trovano gli Italiani, essi hanno il diritto di promuovere il loro progresso intellettuale e morale, mantenendosi in rapporto ideale con la madre patria. Noi miriamo ad agevolare, a promuovere questo loro progresso, con la diffusione fra loro tutti della lingua e della cultura nazionale. Questo è lo scopo, questa è la ragione vera della nostra Società.
Pasquale Villari passò poi a ricordare gli eventi che portarono alla sua creazione:
Io credo di essere stato presente alla prima manifestazione di questo bisogno, quando per la prima volta balenò nella mente degl’Italiani l’idea di diffondere la lingua e la cultura nazionale al di fuori dei nostri confini. Fu nel 1861, quando a Torino era ministro dell’Istruzione Francesco de Sanctis. Io che gli ero stato discepolo, e gli ero diventato amico mi trovavo colà per pochi giorni. Una mattina egli mi diede alcune carte, pregandomi di esaminarle e di dirgli cosa pensavo. Era una lettera del conte di Cavour, il quale mandava una relazione del Console generale di Alessandria d’Egitto, dicendo: ‘Questo è un affare che deve interessare il Ministro della pubblica istruzione. La prego perciò di esaminarlo e di darmi il suo avviso.
La relazione del Console narrava che, nel giorno dello Statuto, i maggiorenti della colonia s’erano adunati e con un entusiasmo indescrivibile, al grido di viva l’Italia e viva il Re, avevano iniziato una sottoscrizione, che in poche ore raggiunse la cifra di 140.000 lire, per fondare colà una scuola e un convitto nazionale. Domandavano aiuto, consiglio e direzione dal governo. Io scrissi allora una lettera al De Sanctis nella quale dicevo, che mi sembrava una cosa della massima importanza, e atto di savia politica aiutare non solamente la scuola d’Alessandria d’Egitto, ma tutte le scuole italiane all’estero. Questa fu la prima manifestazione di un bisogno sentito spontaneamente, senza ombra di partito politico, negl’Italiani stessi che si trovano fuori d’Italia, e si volevano tenere, in spirito almeno, congiunti con essa. Partii poco dopo da Torino e di questo affare non seppi più altro. Più tardi, quando erano ministri della pubblica entro i limiti di una questione politica determinata. Qualunque sia la regione, per alcuni mesi segretario generale, collaborai con Aristide Gabelli alla fondazione d’un ufficio per le scuole all’estero in quel Ministero. Dopo la caduta di Bargoni e del Correnti le cose procedettero più o meno fiaccamente, fino a che il Cairoli (1878) e il Crispi (1879) trasferirono ed ordinarono quell’ufficio presso il Ministero degli Esteri, dove si trova ora affidato alle cure di un Ispettore che se ne occupa con grande zelo e non minore intelligenza. Essa si propone di diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo per conservare i legami spirituali dei connazionali all’estero con il paese d’origine e per ravvivare tra gli stranieri l’amore e l’interesse per la cultura italiana”.
Il sostegno alla Dante Alighieri non venne mai fatto mancare dal fiore degli intellettuali italiani, non solo da Giosuè Carducci, ma anche da Benedetto Croce, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Sergio Panunzio, Cesare Battisti e Bino Sanminiatelli, solo per citarne alcuni.
Il primo comitato della Dante in estremo Oriente fu creato a Bangkok
Il primo comitato della Dante in Oriente fu quello della Tailandia, fondato nel 1916, con 31 italiani residenti a Bangkok, ingegneri e architetti perlopiù toscani, che versarono una quota d’iscrizione.
La presenza di parecchi ingegneri e architetti italiani a Bangkok era stata determinata dal tentativo della monarchia tailandese di adeguarsi ai tempi, sviluppare relazioni con le potenze occidentali e importare idee nuove, come aveva fatto, ottenendo risultati spettacoli, il Giappone, una volta uscito dal suo dorato isolamento.
A re Mongkut successe il figlio quindicenne Chulalongkorn (Rama V; regno 1868-1910). A causa della giovane età di Chulalongkorn, il Paese fu governato da un reggente fino alla maggiore età del principe, raggiunta nel 1873.
Chulalongkorn dovette affrontare le continue pressioni occidentali e mantenne la politica del padre di fare concessioni territoriali all’Occidente, nella speranza che il Siam potesse mantenere la sua indipendenza complessiva.
Nel 1893, dopo che le cannoniere francesi avevano forzato la risalita del fiume Chao Phraya fino a Bangkok, fu costretto a cedere alla Francia tutti i territori laotiani a est del fiume Mekong, e nel 1907 i francesi si impossessarono di tre territori nel nord-ovest della Cambogia e del territorio laotiano a ovest del Mekong che erano stati sotto la tutela siamese. Due anni dopo, il governo siamese perse i diritti su quattro Stati malesi a favore degli inglesi. La creazione di un esercito moderno fu in effetti una risposta diretta alla minaccia di dominazione che il Siam dovette affrontare, in particolare da parte della Francia, alla fine del XIX secolo.
E in questo spirito vennero invitati ingegneri, artisti e architetti italiani a fornire il loro contributo alla modernizzazione dello stato siamese.
In Cina la prima sede della Dante fu posta a Tianjin
Tianjin era una città suddivisa in vari settori affidati a nazioni straniere. L’Italia nel 1900, grazie all’opera del Marchese Giuseppe Salvago Raggi, riuscì ad ottenere circa un chilometro quadrato di territorio, strappandolo ai russi, che già se ne erano appropriati. L’Italia vi investì ingenti somme, per costruire abitazioni, una caserma, una fontana ma non ne trasse mai alcun vantaggio dal punto commerciale.
Un comitato della Dante vi fu creato nel 1926, ma restò pressoché inattivo. Ripartì nuovamente nel 1936, con vari iscritti e con lezioni di lingua e di cultura italiana.
Dobbiamo citare qui una incresciosa vicenda accaduta in quel tempo e che coinvolse il locale presidente della Dante, subito dopo che l’Italia, cedendo alle pressioni naziste, decise di escludere da incarichi di responsabilità e d’insegnamento tutte le persone di etnia ebraica. Il presidente della Dante di Tianjin a partire dal 1936 era il conte Vittorio Levi Schiff, capitano di lungo corso e decorato al valore militare, il quale rassegnò immediatamente le dimissioni dopo che seppe della promulgazione della Leggi sulla Razza in Italia (Legge 1024 del 13 luglio 1939).
Negli archivi di Roma resta una sua drammatica lettera inviata dal Console d’Italia a Tianjin, Ferruccio Stefanelli, con la quale informava la Dante di Roma che “il nazionale di razza israelitica Vittorio Levi Schiff ha presentato le dimissioni dalla carica sin qui ricoperta, rimettendo nel contempo a questo Consolato il carteggio del Comitato”.
Difficilmente possiamo immaginare la rabbia e il dolore per questo tradimento subito dal comandante Levi Schiff, il quale “si dimise” non solo da presidente della Dante ma anche da italiano, partendo con la propria famiglia alla volta degli Stati Uniti e poi acquisendo un passaporto statunitense.
La Dante a Shanghai fu fondata nell’aprile del 1934
Fu fondata per iniziativa del Comm. Luigi De Luca, una figura presente a Shanghai da decenni, prima come ispettore alle Dogane cinesi e poi come trasportatore marittimo e dal Console d’Italia, Luigi Neirone, che successe a Galeazzo Ciano. L’atto costitutivo mostra la presenza di molti altri personaggi italiani, il responsabile dei Salesiani di Shanghai, Padre Fontana, l’Agente del Lloyd Triestino, Soprani e via dicendo.
Anche in questa città l’Italia possedeva una propria concessione, come a Tianjin, acquisita grazie all’intervento del Marchese Salvago Raggi, subito dopo la guerra dei Boxer del 1901.
Anche a Hong Kong la Dante arriva nel 1934
La mia conoscenza di Hong Kong e degli affari cinesi s’estende ormai per un quarto di secolo e nulla mi causa maggiore ansia del fatto che la comunità cinese ed europea di Hong Kong, seppur in contatto quotidiano, si muovono comunque in mondi diversi, senza avere alcuna vera comprensione del modo di vivere o modo di pensare reciproci. Questo è una spiacevole situazione che ritarda il progresso della Colonia, sia da un punto di vista morale, che intellettuale e commerciale.
Sir Cecil Clementi, 1926
Questa citazione di Sir Cecil Clementi (1875 – 1947) ben fotografa le due Hong Kong degli anni Trenta. Clementi fu un abile governatore di Hong Kong dal 1925 to 1930. Un uomo di grande cultura classica e che parlava perfettamente il cantonese. Era sbarcato a Hong Kong nel 1899 e il suo cognome italiano lo aveva ereditato dal bisnonno, Muzio Clementi (1752 –1832), un compositore e pianista, che si trasferì in Inghilterra dalla natìa Roma.
Sir Cecil viene ancora oggi ricordato come uno dei più colti e attenti governanti della Colonia, in un periodo pieno di difficoltà. Il suo successore come Governatore di Hong Kong fu Sir William Peel (1875 –1945) che governò la Colonia dal 1930 al 1935. Peel fu anche lui un abile amministratore ma non possedeva la profonda conoscenza del mondo cinese di Clementi, forse perché la sua esperienza maturò in Malesia e a Singapore. Fu nel 1934 che i pochi italiani residenti nella Colonia britannica e a Macao decisero di fondare una sede della Dante Alighieri.
La gran parte delle società attive a Hong Kong proibivano contatti sentimentali con persone dell’opposto sesso e di diversa etnia. E questo tabù esisteva anche per i cinesi. Un europeo che si metteva con una ragazza cinese rischiava di perdere il proprio lavoro e la ragazza cinese perdeva il supporto della sua famiglia. Clementi conosceva questo stato di cose, per esempio il fatto che un cinese non potesse aver casa sul Peak, ma i suoi poteri per cambiare la mentalità e le regole, come avrebbe voluto erano limitati. Riuscì però a far entrare nel Executive Council un cinese, Chow Shou-on nel 1926 e spinse per la creazione di un club aperto a tutte le etnie, una proposta rivoluzionaria per quei tempi. La società di quel tempo era molto classista, ma questo era vero anche per la upper and working class britannica. A quel tempo una classe media cinese a Hong Kong non esisteva, esistevano i super ricchi che vivevano nel loro mondo, ma tutti i cinesi che si vedevano camminare per strada erano dei semplici lavoratori.
Per gli europei, verso il 1934, le occasioni di condurre una vita sociale erano piuttosto limitate. Per colazione, per pranzo (tiffin), per il tè e per cena bisognava vestirsi adeguatamente. Soprattutto la cena era sempre un affare piuttosto complicato. Le abitudini alimentari europee, mangiare verdura cruda, bere acqua non bollita, a differenza di quanto facevano i cinesi li esponevano al pericolo di infezioni, le donne e gli uomini dovevano vestirsi di panni di lana. Non per nulla Hong Kong era conosciuta come “la tomba dell’uomo bianco”. Basta fare due passi nel cimitero di Happy Valley per rendersene conto.
Concerti e spettacoli teatrali erano degli importanti diversivi che potevano rischiarare una settimana, altrimenti noiosa, anche se non andavano mai oltre la mezzanotte. Le notti in bianco di Shanghai erano celebri in tutto il mondo, ma non venivano accettate nella più puritana Hong Kong.
La radio fece la sua comparsa a Hong Kong nel 1930, con una stazione ZBW che aveva un solo dipendente, il quale si occupava di tutto e che trasmetteva musica e notiziari per i pochi fortunati possessori di un apparecchio ricevente.
Una delle prime cantanti create dalla radio di Hong Kong fu Amina el Arcoulli, che possedeva una limpida voce e che aveva studiato presso un tenore italiano attivo a Hong Kong, un tale Gualdi. Dato che esisteva una sola stazione bisognava accettare quello che passavano. Nel 1934 si cominciò a costruire dei cinema con aria condizionata, che mostravano le ultime pellicole prodotte a Hollywood.
Nel 1933 il drammaturgo irlandese George Bernard Shaw passò per Hong Kong e, parlando alla Unione degli Studenti creò scandalo affermando che non dovevano credere alla storia che gli veniva insegnata a scuola e che avrebbero dovuto ascoltare professori di storia alternativi che vedevano le cose in maniera diversa. Nei primi anni Trenta circolavano a Hong Kong 1412 automobili, la gran parte erano Austin, seguite dalle americane Studebakers e Chryslers, Rolls-Royce la FIAT era ben rappresentata, con 78 esemplari, non esistevano ancora delle Mercedes Benz.
La popolazione di Hong Kong nel 1934 era stimata in 700.000 persone, meno di 13.000 erano non cinesi, e fra di questi si pensava che solo un decimo fossero donne. Su dieci europei, nove erano di sesso maschile. Lo stesso si poteva dire della popolazione cinese, per la gran parte lavoratori entrati dalla Cina e che lasciavano mogli e figli oltre il confine. Questa situazione a livello popolare provocò un incremento delle attività di prostitute, e a un livello superiore provocò ciò che venivano dette “fishing expedition” di donne occidentali, in cerca di un buon partito da impalmare. La lotta doveva essere serrata, dato che padre De Angelis della Rosary Church di Kowloon nelle sue prediche minacciava di finire all’inferno le donne cristiane che indossavano pantaloncini e gonne con alti spacchi per tentare gli uomini.
Il console d’Italia fu Eugenio Zanoni Volpicelli (dal 1899 sino al 1919) che fu un poliglotta e uno scrittore innamorato di Dante Alighieri. Tradusse in cinese una parte dei canti della Commedia e il Dei Delitti e delle Pene di Cesare Beccaria.
I primi contatti tra la Sede Centrale e il Console Generale d’Italia, Alberto Bianconi, per l’apertura di un
Comitato ad Hong Kong risalgono al 1933, ma si concretizzeranno solamente l’anno seguente. In una lettera del 7 febbraio 1934 il Console Bianconi si dice interessato alla creazione di un Comitato locale e pronto a promuovere l’iniziativa, ma teme di non riuscire ad ottenere buoni risultati a causa delle dimensioni ridotte della comunità di italiani lì residenti e della loro media estrazione sociale. Il commendatore Camillo Canali, in una lettera del 13 febbraio, informa il presidente Felice Felicioni di un colloquio avuto con il console Bianconi, durante il quale è emersa la difficoltà nell’apertura della sezione. La colonia italiana è composta da una ventina di connazionali, tutti di modesta estrazione e poco attivi in ambito sociale, anche la sezione del PNF, il cui segretario è Alfonso Piovanelli, proprietario di due alberghi in città e rappresentante dell’ENIT, esiste solo formalmente. Il commendatore suggerisce di nominare Piovanelli come “corrispondente” della Dante e mettergli a disposizione materiale di propaganda in lingua inglese da distribuire tra i connazionali ma anche tra i coloni inglesi, per far conoscere gli scopi e l’attività della Dante, del fascismo e dell’Italia. Il 28 luglio il Console ringrazia per le pubblicazioni ricevute e dice di stare organizzando il Comitato, che verrà ufficialmente costituito il 24 novembre. Al Comitato hanno aderito numerosi stranieri oltre alla piccola colonia italiana; il programma prevede sei conferenze sull’Italia e una serie di concerti mensili
di musica italiana. Inoltre, rispondendo ad un’offerta avanzata dalla Sede Centrale, si accetta la spedizione di una biblioteca di letteratura italiana moderna da mettere a disposizione della comunità. Il consiglio direttivo risulta così composto: presidente console Bianconi; vicepresidente G. Pocros de Marin, ex direttore dell’Educazione pubblica; segretario e tesoriere l’architetto Ugo Gonella. Il Comitato non si impegna nella promozione di corsi di italiano, perché ad Hong Kong già dal 1933 è presente una scuola italiana gestita dalle suore canossiane che impartiscono un corso elementare, con lezioni ogni sabato.
Quest’anno cadrà l’80 anniversario della fine della II Guerra mondiale. In Italia le festività per celebrare l’anniversario cadranno il 25 aprile, ovvero nel giorno stabilito dal Comitato di Liberazione Alta Italia per una insurrezione generale per stroncare la resistenza nazifascista.
In quel giorno, però, non accadde gran che, anche se le truppe naziste, pressate dagli Alleati, erano in fase di ritirata, seppur attente e molto armate. Diverse le cose il 26 e 27 aprile, dove i partigiani intervennero, a volte anticipando le truppe Alleate. La prova che il 25 aprile non accadde molto è il fatto che Benito Mussolini, la sera del 25 aprile 1945, senza una scorta e con poche auto di fedelissimi, uscì tranquillamente da Milano senza incontrare opposizione.
La II guerra mondiale non finì il 25 aprile ma si trascinò sino al 8 maggio 1945, data della firma della resa tedesca con gli Alleati. I sovietici firmarono il 9 maggio e quindi la Russia festeggia in quel giorno. La resa in Italia di ottocentomila fra tedeschi e repubblichini, avvenne il 29 aprile, come effetto degli accordi raggiunti con l’Operazione Sunrise, fra il generale delle SS Karl Karl Wolff, il barone Perrilli e Alan Dulles, futuro capo della CIA.
Se non ci fossero stati i militari americani, inglesi e i soldati del regio esercito, la guerra non l’avrebbero potuta vincere i partigiani. Questi fatti sono incontestabili e da tutti accettati, tranne che dall’ANPI, che non perde mai occasione di contestarli. Il 16 gennaio 2025, a Udine, il generale dei carabinieri, Carmelo Burgio, a Udine ha parlato della guerra di liberazione. E in questa occasione, l’ufficiale ha sottolineato tale ovvietà: «Dopo l’8 settembre del 1943 non è evaporato il Regio Esercito, non si son visti gli Alleati oziare e divertirsi ballando il boogie-woogie a Napoli, non è sbarcata una flotta di marziani tramutatasi in partigiani che hanno liberato l’Italia. Le Forze armate hanno pagato un alto prezzo di vite umane, comprendendo chi aveva le stellette sulla giubba, internati militari che non hanno ceduto alle lusinghe nazi-fasciste, e chi si è dato alla macchia e ha operato nelle formazioni partigiane non potendo raggiungere l’esercito del Sud». Questo vuol dire che, secondo il generale Burgio, non ci sarebbe stata alcuna liberazione se non fossero intervenuti gli Alleati e se anche le nostre forze armate non avessero pagato un alto prezzo in termini di sangue.
Come scrive Angelo Paratico nel suo libro Un Re e il suo Burattino Gingko, 2024: “Le Forze Armate italiane diedero un grosso contributo alla liberazione della Penisola, l’offensiva finale ebbe inizio il 9 aprile 1945, sul fronte della VIII armata britannica, il 14 entrò in azione la V armata americana. Il 21 aprile cadeva Bologna e così, di colpo, saltò il fronte difensivo tedesco in Italia. I “badogliani” come venivano chiamati spregiativamente i militari del regio esercito, avevano, alla fine della guerra,
300.000 soldati nella fanteria; 75.000 in marina, che disponeva di cinque corazzate, cinque incrociatori, 46 unità leggere e 36 sommergibili; l’aeronautica contava su 31.000 effettivi.
I partigiani, oltre la linea Gotica, ammontavano a circa 89.000 uomini e donne, di cui 32.000 comunisti inquadrati nelle formazioni Garibaldi e 57.000 apolitici. Da queste cifre appare chiaramente come il movimento partigiano ebbe un ruolo secondario o, meglio ancora, terziario nella lotta di liberazione. Per questo motivo festeggiare il 25 aprile come giorno della liberazione, non fa un buon servizio alla verità storica e minimizza i sacrifici e le perdite umane dei militari Alleati, e di quelli italiani. Vero è che l’Italia fu liberata anche dai partigiani ma lo fu soprattutto dagli eserciti del Regno Unito, degli Stati Uniti e da quello monarchico italiano che, formalmente, obbediva al luogotenente del Re, Umberto II. Il 25 aprile 1945 fu una data funesta per tutta l’Europa, perché sul ponte di Torgau s’abbracciarono i soldati sovietici e quelli americani. Certo, la pace s’avvicinava ma l’incontro marcò la fine dell’indipendenza e della centralità europea: fu il finis Europae che segnò il culmine di quel grande processo che Jean Montigny definì “il complotto contro la pace”.
Il 25 aprile che festeggiamo in Italia, in modo sempre più fazioso, è una ricorrenza che andrebbe spostata al 8 maggio, come negli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Armenia, Repubblica Ceca, Estonia e via dicendo. L’8 maggio segnò la vera chiusura della guerra e andrebbe commemorato da tutti noi, giacché nulla è più prezioso di una onorevole pace”.
La Gran Bretagna manderà ad Atene per un lungo prestito i marmi del Partenone esposti al British Museum di Londra, complice la chiusura del museo londinese per restauri. A riaprire il dibattito internazionale sulla restituzione dei marmi alla Grecia è stata proprio l’Italia, in particolare la Sicilia, che nel 2022 ha aperto la strada. Infatti nella stupidità e nella sciatteria ci distinguiamo sempre e siamo i primi a tagliare il traguardo.
Scrive l’ANSA: “Su iniziativa dell’allora assessore dei Beni Culturali della Regione Siciliana, Alberto Samonà, infatti, si decise che il cosiddetto “frammento Fagan” raffigurante un piede della Dea Artemide e custodito dal 1820 al Museo Salinas di Palermo, perché parte della collezione archeologica dell’allora console inglese Robert Fagan, ma in realtà appartenente al fregio orientale del Partenone, dovesse tornare ad Atene ed essere ricollocato al proprio posto, nel grande fregio, esposto nel Museo dell’Acropoli”.
Il ministero italiano della cultura dovrebbe avocare a sé tutte queste attività e non permettere a un privato di gestire queste operazioni che competono invece allo Stato Centrale. Questa cessione sicialiana impoverisce l’Italia e il turismo siciliano, senza apportare nessun beneficio.
Continua il bollettino ANSA: “L’operazione fu possibile grazie a uno sforzo diplomatico che Samonà portò avanti, intavolando un rapporto diretto con il Ministro della Cultura della Repubblica Ellenica Lina Mendoni, e al lavoro sinergico dell’allora direttrice del Museo Salinas Caterina Greco e del direttore del Museo dell’Acropoli Nikolaos Stampolidis”.
Si era già scritto della restituzione di un vaso antico da parte degli eredi di Alcide De Gasperi, che doveva essere di proprietà dello Stato, non proprietà privata di uno statista:
Ad accogliere ad Atene il fregio del Partenone fu il Primo Ministro della Repubblica Ellenica Kyriakos Mitsotakis, che parlò di evento epocale ringraziando pubblicamente la Sicilia e l’Italia per la riconsegna del frammento del Partenone. Un anno dopo anche la Santa Sede, su iniziativa di Papa Francesco, donò alla Grecia altri tre reperti del fregio custoditi nei Musei Vaticani.
“Si avvicina il giorno in cui i marmi del Partenone torneranno finalmente ad Atene – commenta Alberto Samonà – e posso dire, con un pizzico di orgoglio, che proprio grazie al nostro gesto, il dibattito internazionale sul rientro a casa delle parti mancanti del fregio di Fidia, ha trovato nuova linfa. La via maestra, in un mondo di lacerazioni e di conflitti, è proprio la collaborazione e la cooperazione internazionale nel nome della Cultura, che da sempre reca con sé un messaggio di dialogo e di pace”.
La cupio dissolvi italiana continua, come se fossimo un accampamento di hippy e non una Nazione.
Siamo certi che anche in Grecia, non solo in Francia e Gran Bretagna, esistono reperti italiani che andrebbero restituiti all’Italia, seguendo lo stessa linea di azione, perché non ne parliamo? Ricordiamo che se questi frammenti, inclusi quelli sottratti da Lord Elgin e ora al British Museum, non fossero stati sottratti probabilmente oggi non esisterebbero più, certamente non nel loro stato di conservazione. Perché Parigi non ci restituisce i taccuini di Leonardo Da Vinci e molto altro? Perché la Gran Bretagna non ci restituisce metà del British Museum?
Bisognerebbe far passare una norma a livello internazionale secondo cui tutti quei reperti ben conservati e aperti alla visione pubblica, sottratti da più di 200 anni, possano restare dove stanno. Altrimenti inizierebbe un tira e molle generale che intaserebbe tutte le corti di giustizia del mondo.
Un mio libro stampato anche da Amazon non può essere pubblicizzato a pagamento su Amazon. Perché? Perché si parla di Benito Mussolini, e dicono che la verifica è stata fatta da un umano e che non ha passato il loro standard. Eppure si tratta di un saggio storico…
Va bene farò pubblicità su X
I seguenti annunci pubblicitari non sono conformi alle norme di accettazione dei contenuti creativi: Il tuo annuncio intitolato “UN RE E IL SUO BURATTINO: Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini” non rispetta le nostre attuali Politiche di accettazione dei contenuti creativi. Nello specifico, per i seguenti motivi:
L’annuncio include contenuti o libri di cui è vietata la pubblicità. Consulta la sezione 3.3 Contenuti vietati nelle Linee guida e politiche di accettazione per la pubblicità di libri e rimuovi questi contenuti dall’annuncio.
L’annuncio include contenuti la cui pubblicità è vietata. Questi possono includere contenuti che ritraggono scene cruente, sangue o violenza eccessivi. Consulta la sezione 3.2.1 Immagini e video vietati nelle Linee guida e politiche di accettazione per gli annunci sponsorizzati e aggiorna il tuo annuncio.
Nota: abbiamo utilizzato la revisione umana per moderare il tuo annuncio.
“Ecco un libro che mancava e che andava scritto!”. Questo è stato il mio primo pensiero una volta ricevuto il libro di Bruno Perrone, intitolato: L’eredità del colonnello Attilio Vigevano. Storia del primo direttore del SIM. La memoria del mondo editore, 2024. Introduzione di Maria Gabriella Pasqualini.
Attilio Vigevano (1874 –1927) nacque a Turbigo il 5 febbraio 1874 e morì a Roma. Conosco l’autore dai tempi delle scuole elementari, anche se giunti alle scuole superiori ci siamo persi di vista. Bruno Perrone è stato per decenni il medico condotto del nostro paese, Turbigo, in provincia di Milano. Suo padre fu un ufficiale pilota durante la Seconda guerra mondiale e al termine del conflitto si stabilì dove ora vive e opera il figlio. La storia è sempre stata una grande passione per Bruno Perrone, il quale è stato anche assessore alla cultura dal 2011 al 2016.
Come racconta nel suo avvincente excursus storico, Bruno Perrone scoprì Attilio Vigevano durante un congresso medico a Parigi, dove trovò su una bancarella il libro di Giorgio Boatti, uscito nel 1987, intitolato Le spie imperfette. Vi si accenna a Vigevano e si dice: “Nacque a Turbigo nel 1874 e iniziò la sua carriera negli Alpini nel 1893”. Questa notizia era sconosciuta a tutti noi turbighesi, pur essendo stata sua madre una Bonomi, cognome quasi-aristocratico nel nostro piccolo comune, posto sulla riva sinistra del Ticino, fra Novara e Milano.
Purtroppo, le notizie su Vigevano sono scarse pur essendo stato un militare che fece una notevole carriera e scrisse vari libri che mantengono una loro attualità e in ciò, giustamente, il Perrone scorge quasi una sua precisa volontà di non volersi vantare e addirittura di nascondersi, un po’ come per M, il misterioso ammiraglio, capo di James Bond.
Fu sottotenente degli alpini dal 1893, dopo aver frequentato la Scuola di Guerra, entrò nel Corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla Campagna d’Africa Orientale del 1896 terminata con la disfatta di Adua e successivamente insegnò storia militare all’Accademia Militare di Modena. Nel 1911 partecipò alla Guerra italo-turca, a cui seguì un nuovo periodo di studi all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale fu assegnato al 7º Reggimento Alpini dove diresse l’Ufficio Informazioni della 4ª Armata, di stanza a Belluno, con competenza sul Trentino e sul Tirolo. Comandò poi il 39º Reggimento di fanteria cecoslovacco, formato da disertori dell’esercito austro-ungarico. Nel 1919 il capitano Vigevano venne inviato in Carinzia, quale Capo dell’Ufficio Informazioni, e ci rimarrà fino al 1921.
Possiedo una lettera manoscritta di Vigevano, in cui risponde alla madre di un soldato andato disperso, e con molta umanità le dice che purtroppo non si trova traccia del corpo del figlio ma che verranno fatti tutti gli sforzi necessari per farle avere notizie.
Con il grado di colonnello, è dal febbraio 1921 alla guida del Servizio Informazioni dello Stato Maggiore. E dall’ottobre 1925 all’aprile 1926 il primo direttore del Servizio Informazioni Militare e a lui si deve l’impostazione organizzativa dello stesso istituto. Decise di andare in congedo poco dopo, nei mesi che seguono al siluramento da parte di Mussolini del ministro della Guerra, il generale e barone Antonino Di Giorgio, che aveva conosciuto ad Adua. Di Giorgio fu un ufficiale siciliano di grande valore e ingegno e di lui Erwin Rommel, all’epoca giovane tenente sul fronte italiano, scrisse: ”Ebbi a che fare tra Piave e Tagliamento col famoso esiguo corpo del generale Di Giorgio, il quale copriva la ritirata italiana. Fu lottando contro questa unità meravigliosa che compresi come l’esercito di Conrad non sarebbe mai giunto a Milano”.
Antonino Di Giorgio da ministro della guerra entrò in contrasto con Mussolini, contestando i metodi del prefetto Mori in Sicilia e fra i due il duce scelse il Mori.
Attilio Vigevano ebbe la responsabilità oggettiva, su ordine di Antonino Di Giorgio, della costituzione di un servizio di intercettazioni telefoniche, riguardanti alti ufficiali delle Forze Armate ed esponenti del regime. Dunque, quel discusso, ma spesso efficace, metodo investigativo nacque proprio con il Vigevano e così facendo deve aver pestato i piedi a qualche pezzo grosso del regime.
I libri scritti dal Vigevano si distinguono per l’accuratezza della ricerca e per la chiarezza, il suo testo migliore e più letto fu La fine dell’esercito pontificio. con 37 ill. e tav. a colori e 7 carte e piani topografici ripiegati Roma, Poligrafico dello Stato, 1920, che è stato ristampato nel 1994 dall’editore Ermanno Albertelli di Parma. Il suo nome viene spesso citato da storici interessati all’esercito pontificio, che possedeva navi da guerra, artiglieria campale e delle divisioni di fanteria. Notevoli anche altri suoi libri come I cacciatori delle Marche; Gli ultimi telegrammi del Governo Pontificio; Il capitano Zannatelli dei Volontari Pontifici; L’Alzani e Garibaldi; La campagna estera Garibaldina; La campagna delle Marche e dell’Umbria; La legione ungherese in Italia.
Un tempo i milanesi boicottarono il fumo per mostrare agli occupanti austriaci che non accettavano i loro soprusi. Lo stesso dovrebbero rifare con il “conte Sala”, che neppure possiede il calore umano di un Radezky. Al posto degli austrici ci saranno i “ghisa” milanesi che faranno multe, per questo motivo credo che i milanesi dovrebbero uscire fuori con una sigaretta o il sigaro in bocca, come si appresta a fare Vittorio Feltri. Solo così potranno eliminare quella la cappa di follia verde che sta ricoprendo la splendida capitale lombarda. Basta imposizioni per il “nostro bene”. Perché non del fumo delle sigarette dovrebbero temere i milanesi ma piuttosto della violenza diffusa e incontrollata che rende insicure le loro vite, la mancanza di rispetto per i loro costumi e della loro intelligenza. Siamo convinti che il fumo faccia male e andrebbe evitato, ma questo non può essere imposto per legge. Oltretutto il “conte Sala” appartiene a una fazione che vorrebbe ammettere il fumo di hashish e marijuana, non si vede dunque perché dovrebbe vietare il tabacco.
Il Comitato Patriottico Lombardo, verso la fine del 1847 per protestare contro la severa occupazione austriaca nei confronti del Lombardo Veneto, lanciò una campagna di boicottaggio delle entrate imperiali attraverso l’astensione dal gioco del lotto e dal consumo del tabacco. Particolarmente significativa fu la campagna di astensione dal consumo di tabacco, sia da fumo (75 tonnellate annue) che da naso (45 tonnellate annue), che comportava un’entrata erariale notevole per l’Austria.
Il boicottaggio si estese anche alle città vicine a Milano, sino a Verona, tanto che le autorità asburgiche, allarmate, reagirono cercando di provocare dei disordini che potessero giustificare un intervento militare repressivo. Così, il primo gennaio 1848, furono pagati dei provocatori che nelle strade invitavano insistentemente i passanti a fumare, gettando loro in faccia il fumo dei sigari. Il giorno seguente, anche i poliziotti e i soldati austriaci iniziarono a provocare e a insultare i passanti e in alcuni casi riuscirono a provocare dei disordini, dato che non tutti i milanesi accettavano passivamente le provocazioni. Così, il 2 gennaio, dei passanti schiaffeggiarono il capitano Neuperg che li insultava.
Si ricorda del figlio del maresciallo Radetzky, in abito borghese, che entrò in un bar di Milano e soffiava del fumo in faccia agli avventori. Si alzò l’abate Giani, uno storico nativo di Galliate, che lo redarguì per la provocazione. Il giovane austriaco, offeso, lo sfidò a duello pur vedendo che si trattava di un frate, lasciandogli la scelta dell’arma e del luogo. Al che il Giani gli disse: “IL posto è questa e l’arma è questa!” e gli assestò un ceffone in faccia che lo stese a terra. L’abate fu arrestato e due giorni dopo fu portato al cospetto di Radezky che gli chiese se era quello il modo di trattare gli ufficiali del suo esercito, al che il Giani gli disse che il ragazzo era in borghese. Il vecchio Maresciallo scoppiò a ridere, pensando alla lezione che aveva impartito al figlio, e lo fece liberare.
Quella brutta situazione continuò per un po’ di tempo e il podestà di Milano, il conte Gabrio Casati, andava in giro per la città invitando i cittadini a non reagire alle provocazioni, ma fu lui stesso malmenato in via dei Mercanti da alcuni poliziotti austriaci che poi lo portarono nel carcere di Santa Margherita. La notizia dell’arresto del podestà si diffuse rapidamente ed alcuni assessori comunali si recarono dal capo della polizia, il barone De Torresani Lanzefeld, per protestare per il comportamento dei poliziotti e per chiedere la liberazione di Casati, che fu subito concessa.
Il 3 gennaio 1848 il capo della polizia fece affiggere un manifesto che riportava un’ordinanza in base alla quale erano considerati “turbatori dell’ordine pubblico”, e quindi perseguibili penalmente, tutti coloro che invitavano ad astenersi dal fumo oppure inneggiavano al papa Pio IX, che in quel periodo aveva assunto un chiaro atteggiamento anti austriaco. Nel pomeriggio, nella Corsia dei Servi, un drappello di dragoni caricò con le sciabole sguainate i passanti, causando numerosi feriti. Gli incidenti più gravi si verificarono al corso di Porta Orientale, dove persero la vita alcune persone, tra le quali il consigliere Manganini, un magistrato di 74 anni, fedelissimo all’Austria, ed il cuoco del conte di Ficquelmont, inviato a Milano dal capo del Governo Metternich per consigliare il viceré, l’arciduca Ranieri, fratello dell’imperatore Ferdinando I°.
Il 6 gennaio 1848, l’arcivescovo Romilli, nella sua omelia in Duomo, invitò le autorità ad ascoltare le istanze dei cittadini. Andò anche a trovare i feriti ricoverati negli ospedali, portando loro la solidarietà del clero milanese. Promosse anche delle collette per dare un sostegno economico ad essi ed alle famiglie delle vittime. Il 9 gennaio, il viceré diffuse un nuovo proclama nel quale affermava che le richieste delle Congregazioni centrali sarebbero state accolte dall’imperatore. Lo stesso giorno, però giunse al viceré una lettera dell’imperatore, nella quale affermava che aveva già fatto il possibile per il Lombardo-Veneto per cui non era disponibile a fare ulteriori concessioni. Infine, faceva affidamento “sulla fedeltà e sul valore delle truppe” in caso di necessità. Si appellava cioè ai militari per il mantenimento dell’ordine. Un atteggiamento tipico del governo centrale austriaco che pure dal Lombardo-Veneto traeva grandi profitti.
Senza rinunciare al boicottaggio economico, i milanesi tennero dei comportamenti nonviolenti che indicavano chiaramente la loro avversione per gli Austriaci. In particolare, per molti giorni, in segno di lutto per coloro che erano stati uccisi, non si recarono a teatro e disertarono il corso di Porta Orientale, dove c’era stato il maggior numero di morti e di feriti, e che, per questo motivo, fu chiamato “corso scellerato”.
A sostegno economico delle famiglie dei feriti e delle vittime fu costituito un Comitato formato da oltre 50 nobildonne, che raccolse fondi anche nel Veneto. Il Comitato patriottico inviò alcune personalità cittadine (il conte Martini e il conte D’Adda) a Torino, dal re Carlo Alberto, per chiedere aiuto; il sovrano sabaudo promise che avrebbe presto dichiarato guerra contro l’Austria e così, maldestramente, fece nel 1849.
La protesta nonviolenta contro agli austriaci si diffuse rapidamente nelle città vicine ed anche nel Veneto, per iniziativa soprattutto dei patrioti Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che furono arrestati il 18 gennaio 1848. Le autorità decisero quindi di procedere alla repressione. Furono arrestati, senza una formale incriminazione, numerosi patrioti, poi deportati nelle carceri di altri Paesi dell’Impero, soprattutto a Lubiana, in Slovenia. Contro gli arresti e le deportazioni, il Municipio di Milano protestò davanti al governatore della Lombardia, il conte Spaur, lamentando anche la illegittimità dei provvedimenti dato che gli arrestati non avevano avuto una formale incriminazione.
Il 9 febbraio 1848, all’Università di Padova e di Pavia (le più importanti del Regno Lombardo-Veneto) ci furono degli scontri tra gli studenti ed i soldati austriaci e gli atenei furono chiusi. Per evitare rivolte dell’Impero asburgico, il 22 febbraio 1848 fu pubblicata una legge, con effetto retroattivo dal 14 novembre 1847, che comminava la pena di morte ai “perturbatori dell’ordine pubblico”. Nonostante questa legge, il 13 marzo 1848 scoppiò la rivolta nella stessa Capitale austriaca, Vienna, su iniziativa degli studenti universitari. L’imperatore Ferdinando I licenziò Metternich, e lo sostituì con il conte di Ficquelmont, abolì la censura sulla stampa, concesse la Guardia civica e promise la Costituzione. La notizia dei fatti di Vienna giunse anche a Milano, dove il 18 marzo iniziò, spontaneamente, la rivolta popolare delle Cinque giornate (18-22 marzo), che portò alla cacciata degli austriaci dalla città, anche se solo per cinque mesi. Sicuramente vi influì l’unità di azione anti austriaca e lo spirito di solidarietà che si erano formati tra la popolazione durante la campagna di boicottaggio economico, in particolare la campagna di astensione dal consumo di tabacco.
Continuano i ritrovamenti a San Casciano dei Bagni, che pare un pozzo senza fondo. Situato a ridosso della sorgente termale del Bagno Grande (le cui proprietà erano sfruttate fin dall’epoca etrusco-romana), il “Santuario ritrovato” è unico nel mondo, legato com’è alla sacralità delle acque ritenute curative grazie all’intercessione delle divinità. I suoi preziosi oggetti sono arrivati miracolosamente intatti fino a noi perché quando venne dismesso all’inizio del V secolo d.C. non fu distrutto, ma fu chiuso ritualmente, con rispetto, mantenendo intatte le architetture e consegnando al tempo i suoi tesori, sommersi via via dal fango, che non li ha intaccati e dove sono stati ritrovati dagli archeologi che stanno lavorando nell’area dal 2019.
Dal fango sono via via riemerse le sue architetture e dei tesori di inestimabile valore, ad iniziare da oltre 3000 monete in oro, rame, bronzo e argento d’epoca romana perfettamente conservate, oggetti d’oro, lamine e suppellettili. Le ricerche archeologiche realizzate tra giugno e ottobre 2024 hanno visto impegnati oltre 90 specialisti italiani e stranieri di varie discipline e più di 80 studenti e studentesse di archeologia provenienti da università di tutto il mondo. È stato rinvenuto il temenos, il muro di recinzione dello spazio sacro, che racchiudeva più edifici tra cui il tempio costruito attorno alla grande vasca sacra, con resti di doni e cerimonie che avvennero nel corso dei secoli, con deposizioni di lucerne, unguentari di vetro, bronzetti votivi, ex voto in terracotta dipinta e foglie d’oro.
All’interno della vasca sacra migliaia di doni votivi assolutamente unici e preziosi nella loro bellezza, sono stati protetti protetti dalla corrosione dall’acqua termale dal fango argilloso. Si tratta per lo più di offerte in metallo pregiato fra cui quattro nuove statue, braccia, teste votive e gambe con iscrizioni, assieme a strumenti rituali, monete di età repubblicana e imperiale, che portano a più di 10.000 quelle rinvenute complessivamente nel santuario del Bagno Grande. Accanto ai bronzi, sono stati ritrovati una corona e un anello d’oro, che vanno ad aggiungersi ai numerosi aurei romani rinvenuti gli scorsi anni.
Un sesterzio in bronzo di Traiano
Dagli scavi sono riemerse eccezionali iscrizioni in etrusco e in latino, che potranno rivelarsi utilissime per una maggiore comprensione della lingua etrusca. Le statue sono veramente straordinarie, come quella raffigurante un corpo nudo maschile rappresentato esattamente a metà, come reciso dal collo ai genitali da un taglio chirurgico: dedicato da un certo Gaio Roscio alla Fonte Calda, questo mezzo corpo testimonia forse la guarigione della parte immortalata nel bronzo. E poi quella di un bimbo augure, un piccolo sacerdote della fine del II secolo a.C., con una lunga iscrizione in etrusco sulla gamba destra, che ruota nella mano sinistra una palla, forse un elemento divinatorio.
I cattolici nel Nord Europa, per secoli, sono stati una esigua minoranza. I protestanti, soprattutto di fede luterana hanno fatto molte conversioni. Anche se negli ultimi anni il trionfatore è stato lo scetticismo scientifico. Ma i numeri delle adesioni al cattolicesimo che arrivano dalle Chiesa di Scandinavia sono sorprendenti: in Svezia, Danimarca, Islanda e Paesi Baltici sono in crescita ma è soprattutto in Norvegia che i numeri sono davvero notevoli. Tra il 1993 e il 2019 i convertiti sono passati da 28mila a 160mila.
Nel 2017 la visita di Papa Francesco in Svezia ha chiamato a raccolta un numero non atteso di fedeli e giovanissimi, confermando il Nord Europa tra le aree continentali dove è maggiormente cresciuta la fede sincera in Cristo: se è vero che tali numeri provengono da decenni di secolarizzazione e laicismo imperanti nell’Europa del Nord, la riscoperta della religiosità cristiana in Scandinavia rappresenta un fattore tutt’altro che “marginale”.
Il nuovo Presidente della Conferenza episcopale nordica (che comprende i 7 vescovi di Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda), e il vescovo norvegese Erik Varden, hanno rilanciato il compito della Chiesa scandinava: «Il compito della conferenza è essenziale per alimentare il nostro impegno di evangelizzazione attraverso conversazioni profonde e amicizia fiduciosa».
I semi di questo buon nome della chiesa romana affondano nell’apostolato che vi svolse nel XII secolo un cardinale, Nicola Breakspear, destinato a diventare l’unico papa inglese nella bimillenaria storia della Chiesa, Adriano IV (1100-1159). Il suo nome è oggi poco conosciuto nella sua stessa Inghilterra ma è venerato in Norvegia.
La casa editrice Gingko ha pubblicato una biografia su questo straordinario papa, nato in una famiglia poverissima e poi, con studio, preghiera e applicazione, visitanto l’abbazia di St. Albans, divenne l’uomo più potente del mondo in un periodo molto difficile per la Chiesa Romana, sottoposta agli assalti di Federico Barbarossa, Abelardo e Arnaldo da Brescia.
R. A. J. Waddingham ADRIANO IV. NICOLA BREAKSPEAR, IL PAPA INGLESE Gingko Edizioni, 2024.
L’editore ci permette di pubblicare qualche pagina relativa al suo apostolato in Norvegia.
La vita di Breakspear stava per cambiare di nuovo. Nel marzo del 1152 si stava preparando ancora una volta per una lunga missione e la sfida più dura che avesse mai affrontato.
Accettò quest’avventura nel nord volontariamente, vedendola non come una facile ricompensa per un nuovo cardinale ma come una dura prova. Sebbene avesse buone relazioni con l’Inghilterra, la Scandinavia era comunque un luogo intimidante. La storia selvaggia della Norvegia, che emerge dal
Medioevo, quando tutto sembrava essere risolto con la scure, gli sarebbe stata familiare. Guglielmo di Newburgh scrisse, non del tutto ingiustamente, che il papa “lo mandò come legato, con pieni poteri, presso alle genti selvagge della Danimarca e della Norvegia.”
Breakspear si stava imbarcando in un altro viaggio ancora dopo la sua missione in Spagna. Per quanto ben disposto fosse il cardinale Breakspear, il suo viaggio di 2.700 chilometri verso la Norvegia dev’essere stato molto arduo. Sappiamo che viaggiò con un numeroso seguito, ed è probabile che il cardinal Bosone fosse fra loro, dato che il suo nome non viene visto su nessun documento rilasciato dalla Curia durante questo periodo. Il gruppo potrebbe aver incluso membri della delegazione norvegese del 1148, di ritorno da una missione a Roma. Un monaco benedettino, Nicholas Saemudarsson, fu probabilmente parte di questa delegazione e prima di lasciare l’Italia, Breakspear potrebbe essere stato informato da lui sugli ultimi avvenimenti norvegesi. Potrebbe benissimo aver avuto un insegnante di lingua norrena nel suo gruppo itinerante. Era esperto sia in francese che in latino, ma entrambe le lingue non sarebbero state molto utili in Norvegia. Nonostante ci siano
delle somiglianze tra l’inglese antico e il nordico antico, non parlava bene il nordico antico ma, con l’aiuto del suo tutore e grazie alla sua inclinazione per le lingue, avrebbe velocemente
imparato le basi della lingua norvegese.
Fornito di un entourage e di fondi sufficienti al suo status di legato pontificio, nel 1152 era pronto per mettersi in viaggio.
Aveva tre rotte diverse per la Norvegia tra le quali scegliere. La prima opzione, the Austrvegr era un lungo viaggio verso est in gran parte sull’acqua. Da Roma questo percorso l’avrebbe prima portato via terra a Costantinopoli e poi da lì, per nave sul Mar Nero, attraverso il Bosforo. Usando i fiumi e i laghi della Russia e degli stati baltici, avrebbe raggiunto Visby, sull’isola di Gotland. Ma un viaggio del genere avrebbe richiesto circa un anno, e Breakspear aveva troppa fretta.
Il Vestvegr era un percorso più semplice, via mare e seguendo le rotte tradizionali dei pirati Vichinghi. Dalla costa occidentale della Norvegia, questi navigavano oltre le isole Orcadi fino al
golfo di Biscaglia per arrivare a Gibilterra e poi entrare nel Mediterraneo, e quindi in Italia. Gli uomini del nord erano abituati a viaggiare fino al Mediterraneo e il lungo viaggio non gli avrebbe dato nessun fastidio. Il Vestvegr era un viaggio più veloce ma solo i ricchi potevano permettersi di equipaggiare
una nave per questo proposito.
È più probabile che Breakspear abbia seguito il percorso via terra da Roma, preferito dalla maggior parte dei pellegrini. Il Romarveger l’avrebbe portato oltre le Alpi, in Germania e poi in Danimarca. Questo percorso era il più corto ma non fu un’opzione facile. Infatti, gli scandinavi avrebbero considerato questo percorso via terra, così lontano dal loro mare, come una penitenza. Viaggiare a quell’epoca era sempre pericoloso, anche se la maggior parte dei pellegrini avevano dei “passaporti” rilasciati dai vescovi locali che offrivano una certa protezione. Breakspear lasciò l’Italia intorno al marzo del 1152, poco più di due anni dopo essere diventato cardinale. A quel tempo, la Curia era stata esiliata a Segni, una città in cima alle colline a circa 60 chilometri a sud-ovest di Roma. Lo storico danese
Sassone Grammatico ci dice che Breakspear colse l’occasione per visitare l’Inghilterra lungo il percorso, ma questo è assai improbabile.
Raggiungere la Norvegia attraverso l’Inghilterra avrebbe significato viaggiare per Londra, e nessun dettaglio di cosa avrebbe fatto lì è mai stato documentato. Possiamo essere sicuri che non visitò St Albans, dove era cresciuto, poiché i monaci di lì ci avrebbero scritto di un evento così importante. Inoltre, nel 1152, l’Inghilterra stava ancora superando i giorni instabili del regno di re Stefano. L’arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, l’uomo del papa, appoggiò l’altro pretendente al trono, Enrico
d’Angiò, il figlio dell’imperatrice Matilde. Il reame era ancora bloccato in questa lotta di potere tra Enrico e Stefano. Sin dal Concilio di Reims nel 1148, la relazione tra papa Eugenio, un cistercense, e il fratello di Stefano, il vescovo Cluniacense Enrico di Winchester, è stato difficile. Il legato pontificio non
sarebbe stato il benvenuto alla corte di Stefano, o persino nella stessa Londra, che rimase leale a Stefano.
All’instabilità, in Inghilterra si aggiungeva il fatto che, anche se molti inglesi s’erano offerti volontari per la Seconda Crociata, per vendicare la “disgrazia” della perdita di Edessa, ce n’erano ancora più che sufficienti per prendere il loro posto nei feroci combattimenti della guerra civile in patria.
Il fallimento di quella crociata aveva contribuito a creare un cupo umore nazionale e l’economia era depressa, non ultimo per via di tutti quei prestiti insoluti offerti ai crociati, che non erano mai stati saldati. Questo non sarebbe stato il momento adatto per Breakspear per trascorrere, abbandonandosi ai
ricordi, qualche giorno nei luoghi della sua infanzia. In ogni caso non avrebbe perso tempo in Inghilterra: Breakspear era un uomo coscienzioso e i suoi doveri risiedevano altrove. Il percorso verso la Norvegia, dall’Inghilterra, sarebbe stato via nave da Grimsby, nel qual caso sarebbe potuti sbarcare a Bergen in Norvegia, a soli 320 chilometri a est delle isole Shetland. In realtà Breakspear sbarcò più a sud, a Stavanger, il 18 luglio del 1152, il che suggerisce che salpò direttamente dal continente.
Breakspear si trovò in quello che allora era un piccolo villaggio di pescatori e commercianti, situato su una costa frastagliata protetta da isole e nel paese più settentrionale della cristianità occidentale. Il primo vescovo di Stavanger fu Rainaldo da Winchester, e la sua cattedrale, costruita nel 1125,
è dedicata a San Svitino, il vescovo di Winchester del IX secolo nel 793. Molti dei predoni misero radici in Inghilterra e dal IX secolo in poi emersero anche insediamenti vichinghi tutto intorno al Mare del Nord, in Scozia, in Normandia, in Islanda e in Groenlandia, rispecchiando il loro dominio sui mari. Le navi vichinghe erano equipaggiate con vele e remi ed erano i vascelli più avanzati di quell’epoca. Le loro competenze marittime, specialmente per trovare il punto nave durante la navigazione, erano notevoli: guardavano al colore dei mari, la direzione dei venti, conoscevano uccelli che nidificavano vicino e l’odore della terraferma. Questo significa che non avevano bisogno di costeggiare le coste come facevano le navi provenienti dall’Europa. I Vichinghi sapevano di più sul mondo di chiunque altro a quell’epoca. Solo dal XI secolo le incursioni vichinghe si fermarono, perché i sovrani europei diventarono più forti e
allora gli scandinavi utilizzarono le loro abilità nautiche per il commercio, piuttosto che per la guerra, fino a Costantinopoli, dove commerciavano per le sete dall’oriente. Tuttavia, la loro notorietà come temibili guerrieri non diminuì mai. Il cardinale Breakspear non aveva nessuna idea di che ricezione avrebbe ricevuto dai norvegesi. Sarebbe stato avvertito che i re, sia in Norvegia che in Svezia, difficilmente avrebbero accolto favorevolmente qualcuno che pianificava di ridurre il loro
controllo sugli incarichi religiosi e sarebbe stato timoroso della loro reputazione bellicosa. Si trovava all’estremità dell’Europa, molto lontano da Roma e con nessuna protezione personale. Il suo ruolo di legato pontificio gli conferiva un notevole status e autorità, ma al di fuori della Chiesa i norvegesi lo avrebbero visto come uno sconosciuto, un intruso. Sorprendentemente, l’arcivescovo Eskil di Lund non era in Norvegia per accogliere Breakspear, avendo lasciato la Danimarca per la Francia intorno allo stesso periodo in cui Breakspear arrivò. Eskil avrebbe potuto aspettare per dare sostegno al legato pontificio, ma invece era andato a visitare il suo amico e maestro malato, Bernardo di Chiaravalle.
Nel XII secolo la popolazione della Norvegia era intorno ai 400.000, un quinto del numero in
Inghilterra. Il tipo di insediamento di villaggio con cui Breakspear era familiare, dall’Inghilterra e dall’Europa continentale, non esisteva in Norvegia. La Norvegia era un paese di cascine disperse, spesso condivise da tre o quattro famiglie. Col tempo i leader tribali locali, lavorando insieme, integrarono la loro agricoltura con il saccheggio. L’archeologia ci mostra che il commercio con l’Europa stava avendo luogo dal V secolo, sebbene questo primo “commercio” non venisse pagato, essendo il bottino degli attacchi via mare. I Vichinghi della leggenda venivano da tutta la Scandinavia, non solo dalla Norvegia, le loro incursioni ebbero luogo dall’VIII all’XI secolo, prima che i tre paesi separati fossero realmente emersi. L’elmo cornuto dei Vichinghi è sempre stato un mito, ma le loro spedizioni piratesche erano abbastanza reali e causarono il terrore assoluto nei paesi vicini.
Mentre era in Norvegia, Breakspear ebbe successo nel separare i poteri del sovrano da quelli ecclesiastici ma dopo che se ne andò, re Inge tornò alle sue vecchie abitudini, interferendo nelle nomine apicali della Chiesa. Come papa, Breakspear ribadì il bisogno di obbedire ai decreti decisi su questo argomento nel concilio Lateranense del 1139 ma il re non gli diede ascolto. Nel 1161, dopo che Breakspear morì, re Inge nominò con aria di sfida il suo cappellano come arcivescovo di Nidaros, prendendo finalmente il sopravvento e deludendo le aspettative del suo vecchio amico. Qualche
tempo dopo, re Sverre, che regnò in Norvegia dal 1184 al 1202, provò ulteriormente a minare l’iniziale successo di Breakspear nel separare la Chiesa e lo Stato sostenendo, in malafede, che l’elezione dell’arcivescovo Birgensson nel 1153 fu un ripiego temporaneo a causa dell’incapacità dei tre principi di accordarsi su un candidato. Papa Celestino III allora intervenne, come
fece con i matrimoni clericali, e insistette che l’elezione dei vescovi fosse riservata alla Chiesa.
Lo stato norvegese interferì in qualcosa di più che nell’elezione dei vescovi. All’inizio, le corti canoniche istituite da Breakspear nel 1153 per amministrare le leggi della Chiesa rimasero stabili,ma circa quarant’anni dopo certi casi disciplinari venivano ancora portati di fronte a giudici secolari. Celestino esortò i norvegesi, ancora una volta, a rimanere fedeli alle riforme di Breakspear:
Sturluson, scrivendo nel 1230 circa, rese un enorme omaggio
a Breakspear:
Migliorò molti dei costumi degli uomini del nord mentre si trovava nel paese. Non arrivò mai uno straniero in Norvegia che tutti gli uomini rispettassero così tanto, o che sapesse governare il popolo così bene come lui. Dopo qualche tempo, ritornò al sud con molti regali amichevoli e più tardi dichiarò sempre di essere il più grande amico del popolo della Norvegia.
Il verdetto finale sul suo lavoro norvegese potrebbe spettare a Torfaeus, uno storico islandese che scrisse una storia comprensiva della Norvegia nel 1711. Anche se Torfaeus stava scrivendo dopo che la Chiesa norvegese si era staccata da Roma, aveva solo cose buone da scrivere sul cardinale Breakspear. Fece meglio di Sturluson, dicendo che Breakspear
Era un uomo pieno di pietà … nessuno aveva posseduto tale autorità in Norvegia fino a questo giorno … i nostri scrittori lo contano tra i santi.
Il XII secolo fu un’epoca eroica per la Chiesa scandinava, e Breakspear può reclamare parte del merito per questo. I suoi successi hanno in gran parte resistito alla prova del tempo. Breakspear e la Norvegia si sono dimostrati buoni l’uno per l’altro.
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.