La massoneria francese è da sempre bandita in tutte le logge massoniche del mondo. Se fossimo affiliati a una loggia francese non avremmo accesso in nessun altra loggia di rito scozzese o inglese. Il punto fondamentale è che per tutte le logge del mondo bisogna credere in un Dio, o un ente superiore. In quelle francesi è fondamentale non crederci.
I massoni francesi furono i responsabili della Rivoluzione francese e, indirettamente, di quella russa. Sono gente potente e pericolosa, da tenere lontana, non esistono prove che il presidente Macron sia uno di loro, ma la sua carriera fulminante potrebbe essere spiegata anche con una sua affiliazione.
Postiamo una foto del nuovo altare e sono molto evidenti i richiami massonici. Il pavimento a quadrati bianchi e neri, come nel Tempio di Salomone, e il blocco dell’altare che ricorda la squadra e il compasso.
E forse questo spiega perché nonostante l’invito di Emmanuel Macron, papa Francesco ha preferito andare, il 15 dicembre, dal suo amico François Bustillo, cardinale e arcivescovo di Ajaccio. La vicinanza delle due date ha suscitato interrogativi e chiacchiere. Si dice che Macron si sia irritato per il suo rifiuto.
Studiando altri particolari all’interno potremmo trovare altri simboli massonici. Per questo motivo crediamo che il papa e il vescovo di Parigi dovrebbero negare la consacrazione di questa nuova Notre Dame.
La antica famiglia Paratico è nobile, e con tutta probabilità ha avuto il nome dal paese omonimo che si stende sulla riva sinistra dell’Oglio in provincia di Brescia. Un ramo conservò la semplice denominazione de Paratico, o Paratico. Con tale nome si ricorda un Ronzonus nominato in un documento del 29 marzo 1251 riguardante le Cavete di Rudiano, e quivi abitante. Contemporaneo è un Predicasius che un documento del 13 luglio 1254 del Liber Potheris Brixiae elenca tra i “sapienti” preposti alla costruzione di porta Pile di Brescia. Ma già contemporaneo a Ronzonus e a Predicasius è un Lanterius de Paratico nel 1266 podestà di Piacenza dal quale potrebbe derivare il ramo più importante dei Lantieri o Lautieri da Paratico (v.). Sotto i Visconti con i Suardi, gli Isei, i Federici formarono una forte lega di ghibellini. Come Parati sono elencati nel 1517 e poi ricordati dal Nassino fra le famiglie nobili bresciane ma non erano ancora stabiliti in città. Ma già nel sec. XVI erano entrati nel Consiglio cittadino. Un p. Antonio Mario Paratico fu tra i primi preti dell’Oratorio legato ai fondatori padri Santabona e Cabrini; Paolo Camillo era nel 1771 abate di S. Nicola di Rodengo.
Un Francesco Paratico era vicario di Maderno nel 1527; nel 1543 un Giovanni Francesco era podestà della Riviera. Con dispaccio del 24 febbraio 1825 veniva riconosciuto il titolo nobiliare a Carlo, Giuseppe, Giulio, Gervasio, Agostino e Pietro. Nel 1840 tra i nobili bresciani erano elencati Pietro, Angelo, Giovanni ed Angelo. Nel 1852 la nob. Caterina Paratico beneficava l’istituzione di Pietro Riva. Ebbero proprietà a Ciliverghe, a Virle. Qui un Giuliano Paratico possedette una bella casa del sec. XVI che poi i figli vendettero più tardi ai Mazzuchelli.
Una famiglia Paratico si distinse a Calvisano nel sec. XVIII con sacerdoti come don Bartolomeo e don Andrea, un chirurgo e alcuni altri che ricoprirono cariche comunali. Possedevano vari beni fra i quali la cascina Zilia Paratico e una cascina alla Rovata.
Giuliano Paratico
Il più illustre membro della famiglia fu Giuliano Paratico (Brescia, 1551-1617). Notaio della cancelleria vescovile di Brescia, liutista e cantore celebre ai suoi tempi. Ottavio Rossi suo contemporaneo testimonia che “per mettere in musica componimenti affettuosi, certa cosa è che alcuno mai non sopravanzò il Paratico, la cui pratica fu sempre carissima ad ogn’uno dilettando egli sommamente, et per la soavità della sua voce et per la maestria con la quale suonava il lauto (liuto) e il chittarone”. Amicissimo di Lelio Bertani e forse amico di Marenzio, ma né l’uno né l’altro riuscirono a convincerlo a lasciare Brescia. Le sue composizioni (alcune sono contenute nel secondo volume della “Intavolatura del liuto”) di G. A. Terzi (Venezia 1593 e 1599) erano ritenute fra le migliori dell’epoca. Il Calzavacca ed il Cozzando scrivono pure che nel comporre riuscì raro; lo stesso Calzavacca annota: «1613, Iulianus Paraticus musicae luculentus scriptor»; anche il Fétis dice che le composizioni del Paratico erano le migliori del suo tempo. Purtroppo ben poco rimane delle sue «composizioni per liuto proclamate fra le migliori dell’epoca». Ricordiamo «Di pianti e di sospir» a tre, che è nel Secondo Libro de Intavolatura di Liuto di Gio. Antonio Terzi da Bergamo. Venezia, Giac. Vincenti. 1599». «Canzonette a tre voci. Libro primo. In Brescia, Appresso Pietro Maria Marchetti. 1588», dedicate alla contessa Barbara Maggi Gambara. «Canzonette a tre voci, di Giuliano Paratico. Libro secondo. In Brescia. Appresso Pietro Maria Marchetti. MDLXXXVIII», dedicate a Giovanni Francesco Morosini. Nelle Canzonette a tre voci (Libro secondo, Brescia, Marchetti, 1588) vi sono componimenti dedicati a membri di illustri famiglie: Martinengo, Morosini, Gambara, Fenaroli, Porcellaga.
Si veda Le canzonette a tre voci di Giuliano Paratico, un amico bresciano di don A. Grillo
di Elio Durante (Autore) Anna Martellotti (Autore) SPES, 2002
Il quartetto Giugliano Paratico
Gruppo fondato nel 1979 dal maestro Giuliano Paratico, formato dalle giovani chitarriste Laura Buzzi, Cristina Esposito, Emanuela Carli e Silvia Ribola, è sorto con l’intenzione di diffondere capillarmente la cultura musicale e chitarristica secondo lo spirito e lo statuto della FABER e dell’ANSPI, anche fra limitati gruppi d’ascolto, data la ridotta formazione dell’organico. Ha chiuso la sua attività nel 1982.
Shalom Nagar, l’uomo che nel 1962 eseguì la condanna a morte di Adolf Eichmann, è morto in Israele all’età di 86 anni. Giovane guardia carceraria, Nagar ebbe la vita sconvolta quando fu estratto a sorte come boia e gli toccò premere il pulsante per l’impiccagione di Eichmann, accusato di essere stato l’ideatore delle camere a gas e della «soluzione finale» di milioni d’ebrei nei lager tedeschi.
Nel 1960 era stato catturato in Argentina dal Mossad, dove viveva sotto al falso nome di Ricardo Clement e si era rifatto una vita. Eichmann fu impiccato al termine del processo di Gerusalemme, raccontato da Hannah Arendt nel celebre libro La banalità del male, nel quale l’autrice si era resa conto che stavano processando una nullità e un povero passacarte. Il procuratore generale Gideon Hausner aveva chiesto ai giudici il massimo della pena, ovvero la morte, che non era mai stata comminata prima né lo fu dopo. E morte fu. Vari intellettuali ebraici chiesero che gli venisse usata clemenza, ma alla fine il presidente d’Israele non fu all’altezza del suo ruolo e lo mandò davvero a morte. Dove sta dunque la loro superiorità rispetto ai nazisti? Eichmann fu vittima di fake news…
La condanna a morte di Eichmann fu eseguita nel carcere di Ramla e le sue ceneri furono disperse in mare. Le sue ultime parole pare che siano state: “Io dovevo rispettare le regole della guerra e la mia bandiera. Sono pronto”.
Shalom Nagar, morto ieri, e che per 50 anni mantenne il segreto, anche a sua moglie e ai suoi figli, era uno yemenita, che rimase sconvolto da quanto lo costrinsero a fare e disse che: “Un giorno il comandante venne da me, si chiamava Merhavi e mi chiese: Shalom, ti va di schiacciare il bottone?… Però io dissi che no, non volevo. Ci sarebbe stato sicuramente qualcun altro che lo avrebbe fatto volentieri. Io invece ero l’unico secondino che diceva di non volerlo schiacciare quel bottone. Tirarono a sorte. E il comandante mi disse: è un ordine. La sorte ha detto che tocca a te e lo farai tu”.
Shalon disse poi che: “Se un giorno mi avessero di nuovo chiamato e detto che avevano appena condannato a morte un altro nazista, la risposta ce l’avevo già pronta: ne ho avuto abbastanza di Eichmann, grazie. Scordatevi di me. Questa cosa, io non la faccio più».
Mercoledì 27 novembre, a partire dalle ore 19, il Bar Fuoricorso (Via Nicola Mazza 7, zona universitaria veronese) sarà teatro di una conferenza/presentazione con protagonista assoluta Zamlap, rivista che l’anno scorso ha festeggiato il suo primo ventennio di attività!
Pubblicazione che si pone in continuità con quelle scaturite dalle esperienze delle avanguardie artistico-culturali primo-novecentesche, specialmente Dadaismo e Futurismo, si definisce, tra le altre maniere (per quanto faccia vanto della sua oggettiva indefinibilità), “rivista di pensiero razionale-non scientifico per tutti e per nessuno” oltre che uno degli ultimi esempi di “applicazione di anarchismo epistemologico” in campo culturale.
A parlare di Zamlap non ci potrà essere altri che Salvatore Iervolino, ideatore, direttore, stampatore e compilatore della rivista, il quale, supportato da una scelta iconografia, ci accompagnerà lungo un viaggio il cui tema centrale sarà un ragionamento sull’attualità (o meno) del valore delle Avanguardie: sono esse fine o eventuale mezzo per giungere ad uno scopo più elevato?
A dialogare con lui, un membro storico del Circolo 23 e Giovanni Perez, che già è stato nostro ospite, editore veronese questa volta presente in veste di esperto delle avanguardie artistico-culturali del XX secolo!
L’ultima volta che lo avevo incontrato di persona, qualche anno fa, Luciano Garibaldi mi aveva raccontato che a 80 anni aveva due turmori e stava in ospedale a Milano, i medici avevano chiamato la figlia perché, le dissero, non avrebbe superato la notte. Il giorno dopo si risvegliò e stava bene, i due cancri si erano stranamente ridotti e una settimana dopo lo dimisero, guarito. Chiese alla figlia cosa fosse successo quella notte. Lei gli disse che era venuto il prete della madonnina di Civitavecchia, che aveva intervistato qualche anno prima e avendo saputo che stava male, aveva recitato una preghiera e poi lo aveva cosparso con una polverina che aveva grattato dalla base della statuina di gesso di quella Madonna che aveva pianto lacrime di sangue. I giornali avevano scritto che si trattava di una truffa, ma Garibaldi aveva creduto a quel prete e ne aveva parlato bene nel suo articolo.
Riposto qui un suo articolo pubblicato nel giugno del 2014, su La Nostra Storia di Dino Messina. Corriere della Sera.
Luciano Garibaldi e sua figlia Simonetta hanno scritto una biografia di Adolf Hitler, uscita presso l’editore De Agostini di Novara. Il titolo del libro è: “Il Tempo della Svastica” ed è stato pubblicato contemporaneamente in lingua inglese, sotto al titolo di “Evolution of a Dictator” presso la White Star Publishers, facente sempre parte del gruppo De Agostini.
Casualmente l’ho scoperto a Hong Kong, presso alla libreria Swindon di Pacific Place, nella sua versione in lingua inglese e l’ho acquistato. La globalizzazione per quanto riguarda la distribuzione dei libri sta funzionando a meraviglia.
Conosco bene Luciano Garibaldi ma non mi aveva segnalato questa sua ultima opera. Gli ho subito mandato una mail, congratulandomi e dicendogli che avrei subito cominciato a leggerlo. Mi ha risposto ringraziandomi e ha poi aggiunto che lo stesso libro sta per essere pubblicato anche in Francia e in Romania.
Luciano Garibaldi non è quello che si dice un topo d’archivio, perché ha lavorato come giornalista investigativo per tutta la sua vita (è nato nel 1937). Molti sono i suoi libri di alta caratura pubblicati, alcuni sono già stati sceneggiati per la televisione, basti ricordare “Nella prigione delle Brigate Rosse” scritto con Mario Sossi e “Mio Marito il Commissario Calabresi” scritto con la vedova del protagonista.
Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale ha intervistato a più riprese vari personaggi che vi hanno partecipato da protagonisti, come Karl Wolff, l’ex comandante delle Waffen SS in Italia e che, dietro lauto compenso, non mancava mai di tirar fuori qualche telegramma originale o qualche intercettazione telefonica fatta a Benito Mussolini a Gargnano. Documenti con i quali ci si poteva costruire uno scoop che moltiplicava le tirature di una rivista o di un quotidiano. Garibaldi lo ricorda come una miniera inesauribile di documenti inediti, come del resto inesauribile era la sua sete di denaro. Intervistò Eugen Gerstenmier, ex presidente del Bundenstag e fra i pochi superstiti della congiura del 20 luglio 1944 contro Hitler; Inge Scholl, la sorella di Sophie Scholl, l’eroina della Rosa Bianca, finita ghigliottinata assieme a suoi giovani compagni per aver fatto propaganda pacifista e poi vari ufficiali nazisti che erano stati in contatto con il dittatore nazista.
La cosa che esteticamente attrae maggiormente in questo libro è il fatto che ha una copertina rigida con la sovraccoperta, un fatto ormai raro per opere storiche pubblicate in Italia e, tutto sommato, un indicatore indiretto del degrado morale attraversato dal nostro Paese. I nostri libri sono ormai oggetti usa e getta, prodotti con carta acida ed economica, subito ingialliti e sbriciolati, con copertine cartacee e leggerissime, libri fatti per massimizzare il profitto a discapito della qualità e della permanenza.
Il secondo punto esteticamente pregevole di questo libro è la qualità delle foto, molto nitide, tirate su carta pesante e opaca, che ne esaltano l’intrinseca profondità. Alcune, poi, non le avevo mai viste prima d’ora e credo siano inedite. Qui si vede indubbiamente la mano della De Agostini che in fatto a qualità delle immagini non prende lezioni da nessuno. Quasi incredibile a dirsi, eppure il libro è fornito d’un indice e di un sommario con i nomi dei maggiori studiosi del nazismo, con le loro opinioni espresse in pillole.
Garibaldi inizia con uno studio sugli anni giovanili di Adolf Hitler, sia come artista mancato che come combattente nella prima guerra mondiale. L’immagine di Hitler eroico soldato portaordini è stata recentemente incrinata dalla storiografia tedesca. Pare che egli sia stato in realtà un piccolo imboscato. Li chiamavano ‘topi’ i soldati tedeschi di prima linea. Prima sfuggì alla chiamata di leva in Austria, arrestato in Germania e rispedito indietro, fu scartato, tornò in Germania e fu arruolato come portaordini nell’esercito tedesco. Riuscì poi a farsi dare una croce di guerra di prima classe (dopo una di seconda classe) che non gli sarebbe spettata, blandendo e corteggiando il proprio ufficiale superiore, Ugo Gutman (un ebreo che morirà nel 1962 negli Stati Uniti) e inventandosi di aver fatto da solo prigioniero ben 16 soldati francesi. Raccontò questa storia appunto per coprire il fatto che a un portaordini non si poteva dare una croce di guerra di prima classe. Viene analizzato il suo ‘Mein Kampf’ e la storia dell’Olocausto, e quest’ultima parte, a mio giudizio, è la migliore di tutta l’opera. Quella del razzismo viscerale di Adolf Hitler è una questione dolorosa da spiegare, difficile e spinosa, ma che gli autori di questo libro riescono a trattare con obiettività, con una grande umanità e dimostrando che tutto il suo programma di sterminio era già scritto nel suo delirante memoriale, il ‘Mein Kampf’.
La lettura è scorrevole, punteggiata di dettagli curiosi e poco conosciuti al grande pubblico, come un Adolf Hitler che prima di inghiottire la fiala di cianuro nel suo bunker, sotto a un quadro di Federico il Grande, tira fuori una foto di sua madre e gli dà un ultimo sguardo prima di suicidarsi. Questi sono piccoli fatti che ci danno la misura di come un orrendo personaggio come Hitler sia ancora in grado di attrarre e repellere allo stesso tempo, come un grosso serpente che lentamente si srotola in una radura e poi ci fissa.
Si tratta di un libro onesto, breve, essenziale, pur nella precisione dei richiami e delle fonti, fatto per essere letto velocemente. Lo vedo come un’opera da offrire ai nostri giovani, per via della sua obiettività e della sua scorrevolezza, che li potrà avvicinare allo studio della storia contemporanea.
Gian Rinaldo Carli (Capodistria, 11 aprile 1720 – Milano, 22 febbraio 1795) è stato uno scrittore, economista, storico, filosofo e numismatico italiano, di origine istriana, fu molto celebre nei sui tempi.
Figlio del conte Rinaldo e della nobildonna Cecilia Imberti, entrambi capodistriani, Gian Rinaldo frequenta nella sua città natale l’Istituto Giustinopolitano, oggi liceo-ginnasio che porta il suo nome, rivelando una netta predisposizione sia per le Lettere sia per le Scienze. Quindicenne, verrà inviato a Flambro (oggi frazione di Talmassons), in Friuli, per seguire i corsi di Scienze esatte dell’abate Giuseppe Bini con il quale manterrà una relazione epistolare anche quando, un anno e mezzo più tardi, si trasferirà prima a Modena, dove avrà come maestro Ludovico Antonio Muratori, poi a Verona, dove entra in contatto con Scipione Maffei.
Nel 1738 intraprende gli studi di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, facendosi subito notare per l’intelligenza e la vastità di cultura tanto da essere ammesso, appena ventenne, nell’Accademia dei Ricovrati. I suoi interessi sono però orientati verso le scienze, la storia e le lettere classiche: di questo periodo sono i saggi l’Aurora Boreale (1738) le Antichità di Capodistria (1741) e l’Indole del teatro tragico antico e moderno 1743). È di quel periodo Osservazioni sulla musica antica e moderna, breve trattato scritto nel (1743, ma pubblicato solo quarant’anni più tardi), che indirizzò all’amico e corregionale, il violinista Giuseppe Tartini.
Nel 1744 viene rappresentato a Venezia un suo dramma mitologico: l’Ifigenia in Tauride. Un anno più tardi le autorità universitarie istituiscono una cattedra di Scienza nautica che affidano al giovane erudito capodistriano.
Trasferitosi a Padova, il Carli resterà fino al 1751, alternando la sua attività di insegnante e di letterato. In quegli anni vengono infatti dati alle stampe alcune importanti opere fra cui: Andropologia, ovvero della società e della felicità, composizione didascalica in parte influenzata dagli ideali illuministi che in quegli anni si stavano diffondendo in Italia e nell’Europa tutta.
I suoi lavori giovanili nascono da interessi sviluppati negli ambienti dotti che aveva avvicinato, e in questi è notevole il proposito di rinnovare la storiografia tradizionale istriarna: nel Della spedizione degli Argonauti in Colco, (Venezia 1745, ma scritto tra il 1739 e il 1743)affronta dibattuti problemi di cronologia, dei quali si era occupato pure Newton, e insieme critica la tradizione secondo cui le cittadine dell’Istria sarebbero state fondate in conseguenza di quella mitica spedizione; nel Delle antichità di Capodistria (in Raccolta di opuscoli scient. e filologici…, XXVIII, Venezia 1743)confuta la tradizione del primato capodistriano sulla penisola, e asserisce che la città doveva il nome al solo fatto di essere situata al capo dell’Istria. La stesura di questa operetta gli dette occasione di farsi conoscere dal Muratori.
Nel 1751, il trentunenne professore pubblica due saggi che costituiranno la base delle sue concezioni economiche in età matura: Dell’origine e commercio delle monete e il Osservazioni preventive al piano delle monete.
Il Carli decide poi di abbandonare l’insegnamento e rientrare nella sua Capodistria natale. La morte della moglie, una nobildonna veneta spentasi di tubercolosi a soli venticinque anni di età (1749) (che egli commemorerà in un toccante manoscritto biografico), la responsabilità di un figlio, restato orfano di madre alla tenerissima età di un anno e mezzo e forse anche la nostalgia per la propria terra, lo spingono a prendere tale decisione. Ma nella città istriana Carli resterà solo due anni, alternando la quieta vita nella dimora paterna a frequenti soggiorni trascorsi a Pola e a Trieste. Nel 1753, le sollecitazioni di amici e conoscenti, unitamente al grande successo e diffusione che stanno ottenendo le sue opere, e principalmente i due saggi di economia recentemente pubblicati, lo inducono ad abbandonare nuovamente l’Istria e a stabilire la propria residenza prima a Milano, poi in Toscana, dove viene dato alle stampe il Saggio politico ed economico sopra la Toscana del 1757. In quest’opera di ampio respiro l’autore, prendendo spunto da situazioni di ambito locale, finisce con l’impostare un discorso di carattere generale sulla produzione della ricchezza in uno Stato moderno e su tutti gli ostacoli (dazi, balzelli, leggi anacronistiche o chiaramente inique, particolarismi locali ecc.) che ne impediscono lo sviluppo. L’incontro fra il pensatore capodistriano e le idee e i fermenti di matrice illuminista che percorrono l’Italia del tempo si realizza in questo saggio pienamente.
In quegli anni (1754-1760) vede la luce anche la sua opera più celebre: Delle monete e delle Istituzioni delle zecche d’Italia, opera monumentale e sintesi di storia, diritto e scienza delle finanze. L’opera, tradotta successivamente nelle grandi lingue di cultura dell’Europa del tempo diverrà essa stessa stimolo per un ulteriore sviluppo degli studi economici e finanziari in molte università italiane e straniere ed esercita ancora influenze sugli studi economici internazionali.
Lasciata anche la Toscana (1758) Carli si trasferisce prima a Venezia per occuparsi dei cospicui beni della defunta moglie, poi, dal 1763, nuovamente in Istria, e, nella primavera del 1765 a Parma. Nell’autunno di quello stesso anno il ministro austriaco Kaunitz-Rietberg gli propone di assumere la presidenza del Supremo Consiglio dell’Economia del Ducato di Milano, entità statuale dominata all’epoca dagli Asburgo.[2]. Lo studioso capodistriano accetta, e, presa una casa in affitto a Milano, svolgerà quest’incarico per ben quindici anni, al termine dei quali si ritirerà a vita privata.
È questo un periodo fondamentale per la sua attività di economista e di saggista. Nel 1765 sul n.2 de Il Caffè esce Della patria degli Italiani un celeberrimo articolo sui difetti e le idiosincrasie degli italiani del tempo. L’articolo, pubblicato sotto forma anonima e per lungo tempo attribuito all’amico Pietro Verri, riveste un’importanza storica decisiva perché verrà ripreso nell’Ottocento e sarà fonte di ispirazione per tanti patrioti italiani di convinzioni liberali. Vi si immagina di una persona anonima che, entrata in un caffè di Milano, venga apostrofata come “forestiera” da Alcibiade un altro avventore, non essendo Milanese, a cui il forestiero ribatterà: “Un italiano in Italia non è mai forestiero”.
Nella seconda metà degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta del settecento la sua produzione avrà un’attinenza sempre più stretta all’alto incarico da lui ricoperto vertendo soprattutto su temi di carattere economico-finanziario. Fra le numerose pubblicazioni di questo periodo una menzione particolare va fatta a: Osservazioni preventive intorno alle monete di Milano, le Nuove osservazioni sullo studio delle monete, Del libero commercio dei grani e, in polemica con Pietro Verri, Nuove osservazioni sulla riforma delle monete.
Nel 1780, dopo quindici anni di ininterrotto servizio come uno fra i massimi responsabili della politica economica e finanziaria imperiale nello Stato milanese, Carli rinuncia ad ogni incarico pubblico, potendosi in tal modo consacrare interamente ai suoi studi scientifici, economici e storici. Fra questi ultimi è doveroso citare le Lettere americane (1780) sullo sviluppo delle civiltà precolombiane e le similitudini fra queste e il mondo occidentale. Grande interesse in Italia e all’estero suscitano anche i cinque volumi Delle antichità italiche (1788), opera d’ampio respiro, in cui l’autore tratteggia un’erudita sintesi della storia delle passate grandezze dell’Italia, dagli Etruschi fino al XIV secolo. La rassegna comprende naturalmente anche Istria e Dalmazia, percepite come parte integrante d’Italia e in qualche modo riecheggia i grandi temi cari al Muratori, suo maestro in gioventù. Nel 1794 l’erudito dà alle stampe un polemico libello contro Jean Jacques Rousseau e il suo pensiero: Della disuguaglianza fisica, morale e civile fra gli uomini. Questa sarà la sua ultima fatica letteraria. Pochi mesi più tardi, nel febbraio del 1795, Gian Rinaldo Carli si spegne a Milano (secondo altre fonti, a Cusano, oggi Cusano Milanino) all’età di settantacinque anni, non ancora compiuti.
In politica Carli fu tuttavia un moderato, legato idealmente al pre-illuminismo del Muratori e del Maffei e profondamente influenzato dall’appartenenza a un’aristocrazia, quella istriana, di origine veneto-coloniale, fondamentalmente mercantile e cosmopolita.
Alieno da ideali rivoluzionari, polemizzò ripetutamente con Jean Jacques Rousseau e con lo stesso Verri. La sua indubbia italianità non gli impedì di vedere nella monarchia asburgica e nel riformismo moderato teresiano e giuseppino un fattore di progresso per Milano e gli altri paesi posti sotto il dominio austriaco. Egli stesso si fece portatore di una politica economica e finanziaria non audace, ma efficace, cercando sempre di raggiungere, nella sua veste di Presidente del Supremo Consiglio d’Economia dello Stato milanese compromessi accettabili sia con il governo vicereale che con quello centrale, a Vienna.
Nell’ultima parte della sua vita tuttavia, dopo aver rinunciato al prestigioso incarico che ricopriva, Gian Rinaldo Carli si allontanò gradualmente dal riformismo illuminato che aveva contraddistinto la sua attività di scrittore, economista e uomo politico, per arroccarsi su posizioni sempre più conservatrici. Lo scoppio della Rivoluzione francese e il cieco furore mostrato dai patrioti giacobini nei confronti delle classi aristocratiche determinarono una vera e propria rottura con gli ideali dei Philosophes, testimoniato dal suo ultimo pamphlet contro Jean Jacques Rousseau e lo spirito dei lumi.
Dobbiamo ringraziare uomini come Gian Rinaldo Carli per il progresso filosofico e scientifico che contraddistingue la nostra epoca moderna.
Venerdì 22 novembre, a partire dalle ore 20:45, presso la sala conferenze del Palazzo ATER di Verona (Piazza Pozza n°1, nei pressi della Basilica di San Zeno Maggiore), si terrà la presentazione della biografia-romanzo di Francesca Legittimo “Olga Berggolts. La Madonna dell’assedio di Leningrado” (Queen Kristianka Edizioni, 2024).
A supportare l’autrice ci sarà Marilena Rea, docente di Letteratura russa, scrittrice lei stessa, nonché traduttrice dal russo, la quale ci farà penetrare ancor più tra le pagine del libro, dedicato ad una personalità purtroppo, in Italia, ancora troppo poco conosciuta, con delle letture selezionate dallo stesso.
Giuseppe Camillo Pietro Richiardi o Ricchiardi (1865 – 1940) è stato un giornalista, avventuriero e soldato italiano. Nato il 5 luglio 1865 a Cuneo e frequentò l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Cavalleria di Pinerolo, poi fu nominato Sottotenente nel Reggimento Genova Cavalleria e successivamente promosso Primo Tenente nel Reggimento Piemonte Cavalleria. Dopo sei anni di servizio, chiese il congedo e, grazie ai suoi legami con il Colonnello Girolamo Emilio Gerini, consigliere militare in Tailandia, vi si trasferì e si occupò dell’organizzazione dell’esercito locale e dell’educazione di uno dei figli del Re. Lavorò anche come corrispondente di guerra, inviando rapporti dalla Cina (abitò a Shanghai) e dall’Etiopia e alcuni ipotizzano che possa aver preso parte alla battaglia di Adua. Nel 1895 si unì al Generale Emilio Aguinaldo come mercenario nella sua lotta per l’indipendenza delle Filippine dalla Spagna. Nel 1899 si trasferì in Sudafrica e divenne un amico fidato del generale boero Louis Botha. Successivamente, Ricchiardi assunse il comando della ‘Legione Volontaria Italiana’, un’unità di 200 uomini composta quasi interamente da italiani, tra cui immigrati ed ex soldati che avevano servito nel Regio Esercito o sotto Giuseppe Garibaldi (stranamente suo figlio Ricciotti sostenne i boeri, mentre suo nipote Peppino si trovò dalla parte dei britannici). Sotto la guida di Ricchiardi, questa unità (nota anche come “Brigata Latina” o “Legione Italiana”) si distinse per l’affiatamento e l’abilità nell’eseguire ricognizioni e altri compiti richiesti dalla guerra asimmetrica. Non fu solo il coraggio della Legione Italiana a renderlo famoso, ma anche il suo carisma e l’atteggiamento cavalleresco nei confronti del nemico: ad esempio, era solito inviare gli effetti personali dei caduti britannici alle loro famiglie, insieme a una lettera di condoglianze. Tuttavia, alcuni dei suoi uomini erano dei veri e propri mascalzoni e a volte Ricchiardi dovette ripristinare la disciplina con misure severe ma mai cruente.
La prima operazione di successo condotta dalla Legione Italiana fu la cattura di un treno blindato nella battaglia di Chieveley. Tra i passeggeri che furono fatti prigionieri c’era anche il giovane giornalista Winston Churchill. I suoi reportages lo resero ancora più famoso. Suo padre, Randolph, era stato Primo ministro.
Durante il suo soggiorno in Sudafrica, Ricchiardi sposò Hannah Guttman, nipote di Paul Kruger, che aveva conosciuto nell’Ospedale Militare di Pretoria mentre si stava riprendendo dalle gravi ferite alle gambe riportate nella battaglia di Tugela. Al suo ritorno in Italia fu impegnato nell’organizzazione di comitati pro-Boeri e nel racconto delle sue avventure in una serie di libri.
Appassionato uomo d’affari, intraprese diverse imprese quando non era in guerra. Uno dei suoi soci fu Gastone Guerrieri, un nipote del Re Vittorio Emanuele II. In seguito si trasferì in Argentina con il suo amico Louis Baumann, dove fu nominato amministratore di una colonia di rifugiati boeri, chiamata Colonia Escalante, nel Chubut. I britannici sottomisero il Sud Africa inventando i campi di concentramento.
Nel 1923 subì un’emorragia cerebrale che lo privò dell’uso di varie funzioni corporee. I suoi ultimi anni li trascorse con la famiglia a Casablanca, in Marocco, dove morì il 21 gennaio 1940 e dove i suoi resti furono sepolti.
Tra le tante esperienze della sua vita avventurosa, la più celebre resta l’arresto del giovane Winston Churchill. I suoi uomini gli condussero davanti un “collega grionalista” inglese accusato di spionaggio e destinato alla fucilazione ma Ricchiardi dopo averlo fissato negli occhi diede l’ordine di lasciar perdere. Era il 15 novembre 1899 e Winston aveva venticinque anni.
Churchill era in abiti civili e si era disfatto della sua pistola semiautomatica Mauser C96 che portava con sé e che aveva usato alla carica di cavalleria di Omdurman in Nigeria, e proprio a quella pistola doveva la vita. Ma la mossa non era passata inosservata: era stato perquisito ed erano spuntati fuori due caricatori. Oltretutto le pallottole all’interno erano le famigerate dum dum, proiettili con la camiciatura incisa ideati per la caccia agli elefanti e ai rinoceronti, ripugnanti per i soldati che solitamente passavano per le armi chi veniva sorpreso a usarli (saranno poi proibiti nelle convenzioni internazionali). Il fatto che fosse in possesso di un’arma, come i militari, lo faceva pure considerare una spia. Churchill negava con forza di essere un agente segreto e Ricchiardi gli volle credere, salvandogli la vita.
L’ufficiale italiano aveva 34 anni, indubbie doti di comando e tanto buon senso. Quel giorno gli bastava la soddisfazione del cocente smacco inflitto agli inglesi con la presa di quel convoglio blindato in marcia da Ladysmith a Colenso, nel Natal, dopo che i suoi legionari avevano fatto saltare i binari provocando il deragliamento della locomotiva, e sorpreso la guarnigione che non aveva potuto far altro che arrendersi.
Oltre ai militari c’erano anche alcuni civili, una sessantina di persone in totale, tra cui quel corrispondente del Daily Mail, che invece di essere messo al muro fu avviato a un campo di prigionia a Pretoria. Da qui Churchill riuscì a evadere, scrivendo un libro che divenne un best seller in Gran Bretagna e ne costruì il mito, ma nelle sue memorie, stranamente, ometterà di scrivere che a farlo prigioniero erano stati i volontari italiani.
This book received a prize in Lerici, Liguria, on the occasion of 200 years of the death of Lord Byron.
Angelo Paratico, historian and novelist, presents his new book, published by Gingko Edizioni, Verona, and entitled ‘Mussolini in Japan’. It is a short novel that contains numerous historical references. For the first time, it raises the possibility that the man who was killed in Giulino di Mezzegra on 28 April 1945 was not Benito Mussolini, but a double.
This would explain the inconsistency of his behaviour in his last days and all the mysteries that still surround the circumstances of his death. His lack of clarity in his decisions after Como seems inexplicable, as does the fact that his face appeared disfigured as soon as he arrived in Piazzale Loreto. And it is not clear why he was secretly shot and not taken to the lakeside of Dongo, just a few kilometres away, to be executed in public along with the other hierarchs and an unfortunate hitchhiker.
In Milan on 25 April 1945, Mussolini had several opportunities to save himself, but he did not want to take them. Firstly, he could have locked himself in the Castello Sforzesco and wait for the Allies to arrive. The partisans had no heavy weapons and would not have been able to take it. Another escape route, favoured by Vittorio Mussolini, was to flee to Ghedi airport to board an SM79 that would take him to Spain. Contrary to popular belief, Switzerland was out of the question, as Mussolini knew that they would never let him through.
There was another escape route, which was far more complex and for which absolute secrecy was an absolute prerequisite. This involved the use of a submarine. This plan had been drawn up by Enzo Grossi (1908-1960), a highly qualified and highly decorated submariner commander who was responsible for the Betasom base in France. Commander Grossi himself mentioned these preparations in his memoirs entitled ‘Dal Barbarigo a Dongo’. Grossi was a brave man of the sea who died young, consumed by bitterness at being wrongly accused of cheating in exchange for two gold medals, and a silver medal, and two German war crosses by lying about the sinking of two American battleships with the submarine Barbarigo he commanded on 20 May 1942 off the Brazilian coast.
After the war, an admiral’s commission discussed his case and accused him of fraud, but forgot to take into account the different time zones. As Antonino Trizzino showed in his book ‘Ships and Armchairs’, published in 1952, Grossi sank two large enemy ships, but they were not the ones he thought they were. Seen through the periscope of a submarine, in the middle of a risky operation, and in rough seas, all ships are difficult to identify.
A decree by the President of the Republic stripped him of his medals. He protested vehemently and was sentenced to 5 months and 10 days in prison in October 1954 for ‘insulting the head of state ‘ based on a letter he had written to the President. Grossi had been involved in the RSI, although he had never taken out the fascist party card, and was married to a Jewish woman who did not stop practicing her religion. He only just managed to wrest her from the SS, who released her and allowed her to return home to her children.
In Chapter XI of his book, entitled ‘A Submarine for Mussolini’, Grossi recounts that Tullio Tamburini revealed to him that he had agreed with the Japanese allies to prepare a large submarine for rescue, which he would command according to his plans and take to the Pacific. Tamburini told Mussolini of this plan, but he replied that he wanted nothing to do with it. This was confirmed by Mussolini himself when he met Grossi in February 1945 and thanked him for his efforts. He then added: “I am not interested in living like an ordinary person. I see that my star is setting and that my mission is over…’.
The existence of these plans was also confirmed by the deputy secretary of the Republican Fascist Party and former federal minister of Verona, Antonio Bonino, in his memoirs entitled ‘Mussolini told me’, published in Argentina in 1950.
That is apparently all that is known about it, but according to Paratico, the mechanism continued to move independently of the will of the creators and was adapted by entrusting the command of the oceanic submarine Luigi Torelli to a German. Thus, in the early afternoon of 25 April 1945, Mussolini was picked up by a car driven by a Japanese diplomat who took him to Trieste, where he boarded the Torelli submarine, which was waiting for him in the harbor after he had been brought back from Japan. The Americans sank it off Tokyo Bay in September 1945.
Leaving the alternative history aside and turning to the novel, I have to say that this book reads well and reminded me of another book with a similar theme and development that I read a few years ago. The author was the great Belgian writer and sinologist Simon Leys (Pierre Ryckmans), and the title was ‘The Death of Napoleon’. Leys imagined how Napoleon, imprisoned on St Helena, is replaced by a double and returns to France incognito. After various vicissitudes, Napoleon is forced into the life of a ‘common man’, sharing a bed with a Parisian ortolana. In the meantime, among the cabbages and vegetables, he secretly works on his revenge, but then he falls ill and dies. All those who have studied the Napoleonic epic are impressed by this bizarre fantasy by Leys, which adds a new facet, a point to ponder, to this great figure.
The Mussolini the author describes is marked by grief and guilt and has frequent bouts of weeping. When he thinks back to his youth as an anarchist and penniless socialist, he thinks that he should have gone into the mountains as a partisan and then fight against the invading Nazis instead of joining them. His suffering and regrets are only partially alleviated within the walls of an old Buddhist temple in Nikko.
The author’s idea is highly original and has never been explored before. And with this small book, he proves that he not only has a profound knowledge of man but also of the man himself.
Non ci volevo credere, la credevo una voce complottista, e poi quella orrenda occupazione del Campidoglio offuscò tutto.
Eppure, guardando ai numeri dei votanti democratici nelle elezioni USA pare una certezza che in qualche modo i sois disant democratici travasarono milioni di voti nelle urne.
Ora mi sta venendo il dubbio che l’invasione di Capitol Hill fu in qualche modo favorita per coprire questo tiro basso fatto da Pelosi-Clinton-Obama. Loro certamente si fregarono le mani vedendola scorrere in televisione. Trump, ingenuamente e stupidamente, non capì cosa significasse e non la contrastò con sufficiente energia.
Mi sto trasformando in un complottista? Spero di no, guardo i numeri e mi faccio delle domande.
Dice Leonardo Lugaresi, attento blogger e filosofo:
Queste elezioni confermano definitivamente una cosa che, a volerla vedere, era già palese anche prima ma era proibito affermare: nel 2020 i democratici hanno quasi certamente rubato la presidenza. Per averne la prova basta guardare la serie dei risultati dei candidati democratici negli ultimi vent’anni: nel 2004 John Kerry ebbe circa 59 milioni di voti; nel 2008 Obama ne ottenne più di 69 milioni, che diventarono circa 66 milioni nel 2012; più o meno lo stesso numero dei voti che ebbe Hillary Clinton nel 2016. Quasi 68 milioni è il risultato che l’altro giorno ha fatto Kamala Harris. Nel 2020, in pieno Covid, al termine di una campagna elettorale praticamente inesistente, Joe Biden ne avrebbe presi più di 81 milioni! Sin da allora questo exploit fuori misura apparve strano a chiunque non avesse il cervello bollito o fritto, ma era proibito dirlo, pena l’essere immediatamente e definitivamente bollati come complottisti psicopatici. Adesso però c’è la controprova: se i 12 milioni di voti in più presi da Biden rispetto al miglior risultato mai fatto in precedenza da un candidato democratico erano il frutto di una straordinaria mobilitazione di popolo determinata dall’urgenza di di respingere il pericolo Trump, come allora si sostenne per spiegare l’eccezionalità di quel dato, dove sono andati a finire quattro anni dopo, quando il “pericolo Trump” era di nuovo incombente? Dove sono andati a finire quei dodici milioni di americani che nessuno ha mai visto? Certo non si tratta di voti che si sono trasferiti a Trump, il quale nel 2024 ne ha presi, in numero assoluto, meno che nel 2020*. Dunque? È estremamente probabile che non siano mai esistiti”.
* In realtà Trump ne ha presi di più nel 2024 non meno, ma il ragionamento non cambia.
Dopo che si sarà insediato cosa farà Trump? Lancerà una nuova indagine o lascerà perdere? Forse gli conviene lasciare perdere, la cosa è troppo grossa e potrebbe far crollare il sistema democratico USA e poi i suoi tanti nemici lo accuseranno di avere organizzato un golpe.
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