Da mesi s’inseguono ipotesi e teorie sul delitto di Garlasco e i media fanno a gara per proporre nuove storie su chi sia stato il vero assassino. Il povero Stasi viene ormai trattato come innocente a prescindere. E la sua erronea condanna di colpevolezza potrebbe essere stata determinata da tre fattori: i suoi “occhi di ghiaccio”, l’aria da studente bravino e tranquillo ( gli studenti bravini hanno sempre dei segreti e guardano i porno) e infine il suo cognome che ricorda la famigerata polizia segreta della Germania Est, la Stasi appunto. Da ciò consegue che il Sempio venne subito scartato dagli inquirenti a causa, di nuovo, del suo cognome, sempio in veronese vuol dire scemo. E uno scemo non poteva combinare un simile casino, mentre un membro della Stasi, sì.
Ma una ipotesi nuova è stata proposta dall’avvocato Giacomo Renso (che nuovamente in veronese vuol dire tonto) il quale ha raccontato a una radio di Garlasco la sua idea che potrebbe scagionare le due sorelle Cappa (ma cognomi normali a Garlasco non ce ne sono?) il Sempio e lo Stasi.
Una sua cliente ha dichiarato di aver visto degli omini verdi aggirarsi vicino alla villetta di Garlasco la mattina dell’omicidio e la bicicletta nera da donna potrebbe essere stata una loro copertura, creando quella illusione dal nulla. La loro astronave l’aveva parcheggiata nel bosco poco fuori dall’abitato e per spostarsi avevano bisogno di una bicicletta; dunque, potrebbe essersi trattato solo di un maldestro tentativo di rapimento ai fini di analisi corporea e mentale che è andato male a causa della reazione violenta della vittima. Gli elementi addotti dalla fonte del Renso sarebbero molto solidi e credibili, ma ha dichiarato che altri dettagli li potrà rivelare una volta invitato da Bruno Vespa a Porta a Porta, dove si riserva di vuotare e riversare il sacco.
Iam satis lusimus….bella storia, vero? Non ci avevate pensato prima? non preoccupatevi perché vuol dire che per ora avete la testa a posto e che non siete dei creduloni. Questa storia è solo uno scherzo nei confronti di chi è schiavo di una morbosa curiosità basata sul nulla, che tiene milioni di italiani incollati allo schermo, rinnovando il dolore dei poveri genitori della Dott.sa Chiara Poggi e di tutti gli altri attori di questa tragicommedia senza fine.
Le navi russe sfilano al largo di Singapore dirette a Tsushima
di Marco Patricelli
AGI – C’era un pizzico di eccellenza italiana nella folgorante vittoria del Giappone sulla Russia nella battaglia navale di Tsushima (27-28 maggio 1905). È noto che gli incrociatori corazzati «Kasuga» e Nisshim» erano scafi della Classe Garibaldi, progettati in Italia e costruiti nei cantieri navali della Ansaldo di Genova-Sestri pochissimi anni prima, alla fine dell’Ottocento; assai meno noto, invece, che una delle chiavi del clamoroso successo dell’ammiraglio Togo fosse frutto dell’alta tecnologia italiana. Il conte Sigmund Fago Golfarelli, generale decorato di medaglia d’argento al valor militare scomparso nel 2005, nel 1995 rivelò che tra i cimeli pervenuti dalla sua famiglia conservava due preziosissimi vasi inviati a Roma dall’imperatore Mutsuihito il quale ne aveva fatto dono quale ringraziamento per aver contribuito a quella vittoria che rivelò il Sol Levante come potenza mondiale dopo essere uscito da pochi anni da una struttura medioevale. La guerra contro la Russia di Nicola II era divampata dal contrasto di espansione sullo scacchiere orientale. All’epoca il Giappone non era accreditato come militarmente competitivo, e gli strateghi di Pietroburgo troppo tardi si accorsero dell’errore di essere entrati in rotta di collisione col temibile impero del Sol Levante.
Eugenio Zanoni Volpicelli, console d’Italia a Hong Kong dal 1899 al 1919 che pubblicò un libro sulla battaglia di Tsushima
Con la strategica base di Porth Arthur, nel Canale di Corea, attaccata e assediata dai giapponesi, che vi avrebbero distrutto l’intera Flotta del Pacifico zarista, i russi non trovarono di meglio che inviarvi in soccorso nell’autunno del 1904 la Flotta del Baltico agli ordini dell’ammiraglio Zinovij Rožestvenskij. Un’impresa epocale: una parte era entrata nel Mediterraneo da Gibilterra e poi attraverso il canale di Suez aveva fatto rotta sul Madagascar; un’altra aveva doppiato il Capo di Buona Speranza per circumnavigare l’Africa. Agli inizi di gennaio del 1905, centoventi anni fa, Rožestvenskij al largo del Madagascar aveva ricostituito la poderosa formazione, espressione della quinta marina del mondo, con 7 corazzate, 2 incrociatori corazzati e 6 leggeri, 9 cacciatorpediniere e naviglio d’appoggio. La notizia della fine dell’assedio di Port Arthur con la resa russa del 5 gennaio rendeva inutile quella gigantesca missione costellata sin dall’inizio da ogni genere di problema, a partire dall’aver cannoneggiato innocui pescherecci inglesi irritando Londra sino alle soglie del conflitto aperto, difficoltà di approvvigionamento di carbone e cibo fresco, scarso amalgama tra le navi e tra gli equipaggi, preparazione al combattimento approssimativa e scollamento tra ufficiali ed equipaggio. Persino la manutenzione era un‘impresa, per l’eterogeneità dei mezzi. I tempi lunghissimi di navigazione, poi, avevano sfaldato ogni coesione e ogni concetto di efficienza bellica. I russi potevano mantenere in media una velocità di crociera e di manovra che era la metà di quella della flotta giapponese, moderna e ben addestrata, oltre che ottimamente comandata dall’ammiraglio Togo che si era formato in occidente.
L’implacabile precisione delle batterie e il tiro al bersaglio contro la marina russa
Da Singapore, per raggiungere Vladivostok, unica base nel Pacifico a disposizione, Rožestvenskij era costretto a forzare il blocco nipponico sperando di riuscire a passare inosservato nel Canale di Corea, e delle tre rotte possibili scelse Tsushima: era l’opzione più logica, ma anche quella che Togo riteneva la più probabile. Fu una nave ospedale a essere intercettata dalla ricognizione giapponese e a far scatenare la battaglia, che Togo gestì magistralmente con manovre esemplari e un tiro di precisione che fece strame delle navi zariste. E proprio sulla precisione, oltre all’addestramento accurato, arrivava il contributo del conte Fago Golfarelli, il quale aveva elaborato un sistema di puntamento all’avanguardia realizzato dalle Officine ottiche Galilei. Era stato offerto alla Regia Marina affinché ne dotasse le sue artiglierie, ma essa declinò; il Giappone, invece, non si fece sfuggire l’invenzione e ne munì la flotta di Togo (4 corazzate e 26 incrociatori), assieme a un nuovo esplosivo creato dagli americani. La battaglia divenne un gigantesco tiro al bersaglio. Quando il cannone cessò di tuonare la Flotta del Baltico non esisteva più: 21 navi colate a picco dalle batterie nipponiche, 13 tra catturate e disarmate. Circa diecimila le perdite russe, tra marinai uccisi e feriti, dieci volte di più di quelle giapponesi, che peraltro non lamentavano alcun affondamento. Lo stesso Rožestvenskij era stato gravemente ferito nei combattimenti, e verso il quale Togo aveva tenuto un comportamento cavalleresco accogliendolo sull’ammiraglia «Mikasa». Quella di Tsushima sarebbe stata l’ultima grande battaglia navale tra corazzate.
l’Ammiraglio Togo sul ponte della sua ammiraglia
La riconoscenza e il dono dell’imperatore al conte Fago Golfarelli
Il disastro zarista aveva fatto scattare l’allarme nelle cancellerie occidentali, anche perché era la prima volta che una potenza veniva battuta e umiliata da una nazione dell’estremo oriente, per di più di recentissima modernizzazione. Le diplomazie si attivarono per limitare i danni, anche d’immagine, e le ripercussioni. Il trattato di Portsmouth, con la mediazione interessata del presidente statunitense Theodore Roosevelt e della Gran Bretagna, fu sfacciatamente dalla parte di Pietroburgo, ridimensionando il successo giapponese e mitigandone le pretese di espansione territoriale col pretesto di voler salvaguardare i diritti della Cina. Nel Sol Levante la vittoria, che ne aveva rivelato la potenza militare, aveva avuto un alto prezzo in vite umane e aveva aperto una voragine nei conti pubblici; ma nello stesso tempo lo choc aveva fatto entrare ancora più in profondità nella società della Russia zarista il cuneo rivoluzionario, con l’ammutinamento dell’incrociatore «Potëmkin», le rivolte militari e contadine soffocate nel sangue, e la sollevazione di Mosca e di altre città minori stroncate con la forza. L’imperatore giapponese non aveva dimenticato però quanto fosse stato prezioso l’apporto delle ottiche di precisione realizzate in Italia e ordinò di inviare a Roma nel palazzo del conte Fago Golfarelli due antichissimi vasi artistici come segno tangibile della sua riconoscenza.
I lupi mannari sono appena stati riportati dall’estinzione e no, questa non è una fantasia di “Game of Thrones”
In uno straordinario sviluppo scientifico, i canidi preistorici resi famosi nella serie di successo della HBO sono stati annunciati come il primo animale de-estinto al mondo.
Immortalato in Game of Thrones e sullo stemma della Casa Stark, il lupo mannaro è tornato sulla terra e ulula persino dopo essersi estinto quasi 10.000 anni fa.
Come annunciato oggi dalla società di ingegneria genetica Colossal Biosciences, il canide estinto da tempo, o almeno una sua versione molto simile, è stato riportato in vita con successo. Il processo è stato realizzato tramite il DNA estratto da due fossili e 20 modifiche del codice genetico di un lupo grigio, il parente vivente più prossimo della specie, secondo una ricerca condotta da una società nota anche come
Colossal afferma di aver dato alla luce tre lupi mannari e, utilizzando la tecnologia CRISPR, ha deciso di selezionare la pelliccia bianca e soffice per i loro mantelli, sulla base della sua nuova analisi secondo cui la specie originale aveva la pelliccia color neve. (Uno studio precedente, pubblicato su Nature nel 2021, ha trovato prove che i lupi mannari non erano strettamente imparentati con i lupi grigi).
La Colossal ha chiamato i suoi due nuovi lupi mannari maschi, una coppia di adolescenti di sei mesi, Romulus e Remus, in onore dei gemelli mitologici fondatori di Roma, che si dice siano stati allevati da un lupo. E in omaggio a Daenerys Targaryen di Game of Thrones, ha battezzato una cucciola femmina Khaleesi.
Il trio vive ora in un’area recintata di oltre 800 ettari in un luogo segreto. Si prevede che raggiungeranno un peso compreso tra 60 e 70 kg, mentre un tipico lupo grigio pesa circa 36-45 kg.
“Il nostro team ha prelevato il DNA da un dente di 13.000 anni e da un teschio di 72.000 anni e ha creato dei cuccioli di lupo cecoslovacco sani“, ha dichiarato Ben Lamm, CEO e co-fondatore di Colossal. ‘Una volta si diceva che ’qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia‘. Oggi il nostro team svela un po’ della magia su cui sta lavorando e il suo impatto più ampio sulla conservazione”.
In un colpo di scena che solo Hollywood avrebbe potuto inventare, il regista Peter Jackson e il creatore di Game of Thrones George R.R. Martin hanno collaborato con Colossal Biosciences per rivelare oggi quella che l’azienda sta pubblicizzando come la prima de-estinzione di un animale in assoluto.
Jackson, che è un investitore nella società di biotecnologia, ha prestato a Colossal il trono di ferro da 150 kg utilizzato nelle promozioni della serie Il Trono di Spade. Prima di oggi, non si sapeva che fosse di proprietà di Jackson, poiché l’anno scorso è stato venduto per 1,49 milioni di dollari a un offerente non ancora rivelato. Per un servizio fotografico glamour, Colossal ha fatto volare Romolo e Remo a Dallas, in Texas, e li ha fotografati mentre si rilassavano sulla finta sede del potere.
Colossal ha contattato Martin dopo aver iniziato a lavorare al suo progetto di de-estinzione dei lupi mannari. Non solo ha firmato come consulente culturale e investitore di Colossal Biosciences, ma Martin è anche volato per incontrare Romolo e Remo nella loro riserva privata (che secondo Colossal è stata certificata dall’American Humane Society).
Martin ha dichiarato: “Molte persone vedono i lupi mannari come creature mitiche che esistono solo in un mondo fantastico, ma in realtà hanno una ricca storia di contributi all’ecosistema americano”.
Anche se molti fan di Game of Thrones probabilmente pensano che i lupi mannari siano creature fantastiche, in realtà sono animali reali che vivevano nelle Americhe e probabilmente si sono estinti a causa della scomparsa dei grandi erbivori di cui si cibavano. Nelle famose La Brea Tar Pits di Los Angeles sono stati scoperti resti fossili di oltre 3.600 lupi mannari e il museo adiacente dedica un’intera parete all’esposizione di circa 400 teschi di lupi mannari.
Oltre a lavorare con l’ingegneria genetica sui suoi tre lupi mannari, Colossal ha clonato due cucciolate di lupi rossi, la specie di lupo più a rischio di estinzione al mondo, come parte del suo obiettivo generale di unire gli sforzi di conservazione con quelli di de-estinzione. L’azienda, fondata nel 2021, ha già annunciato che intende riportare in vita il mammut lanoso, la tigre della Tasmania e il dodo, e afferma che il suo lavoro sul lupo cacciatore è una prova della sua tecnologia. “Questo enorme traguardo è il primo di molti esempi futuri che dimostrano che il nostro pacchetto tecnologico end-to-end per la de-estinzione funziona”, afferma Lamm, che ha co-fondato Colossal con il genetista di Harvard Dr. George Church. Colossal, che sostiene di aver stabilito il record per il maggior numero di modifiche genetiche mai effettuate in una specie vivente, afferma di voler riportare il lupo grigio alla condizione di specie vitale e di voler garantire delle riserve ecologiche per esso su terre indigene in Nord America.
Questa testimonianza di Shichiro Ono, giornalista giapponese e spia, dimostra che il piano studiato per portare Mussolini in Giappone era stato elaborato e accettato dall’alleato asiatico della RSI.
Il Presidente del Senato, on. La Russa “beccato” in giro per Roma con una copia di Mussolini in Giappone di Angelo Paratico
Arrigo Petacco Eva e Claretta, le amanti del diavolo Mondadori, pag. 145.
Le memorie del comandante Grossi, sommergibilista e di Bonino, che parla del piano Giappone.Ironia sul libro Mussolini in Giappone Propaganda LIve di Diego Bianchi
Il conte Culacchia tenta di far sua la bella Renoppia
La vicenda di Romano Prodi che insulta a giornalista Lavinia Orefici, tirandole i capelli di fronte alle telecamere, per poi negare tutto, mostra come l’Italia sia un Paese tragicomico. A Hong Kong ebbi la ventura di trovarmi Romano Prodi seduto di fronte a una cena, nella residenza del Console d’Italia. Alla sua destra stava il suo segretario permanente, un francese, pagato dalla comunità europea, in quanto Prodi è un suo ex presidente. Ricordo che era il 2013 e guardando fuori dalle finestre lui si stupiva della ricchezza della ex colonia britannica, mormorando: “Qui ci sono i soldi…non credevo” e osservava le torri di cristallo e acciaio che s’innalzavano in Central, il distretto finanziario. Gli chiesi se avrebbe voluto essere ancora presidente del consiglio e lui rispose subito di sì, che gli sarebbe molto piaciuto e poi, a un certo punto, cominciò a parlare delle lobby ebraiche che controllano la finanza mondiale. Non male per un fondatore del PD, pensai. Ricordo che la console Alessandra Schiavo strabuzzò gli occhi e alla fine della cena mi prese da parte intimandomi che quel che avevo sentito lì, doveva restare lì.
Penso che se dovessi paragonare Romano Prodi a un personaggio della Commedia dell’Arte, non lo vedrei come il dottor Balanzone ma come il conte Culacchia, creato dal Tassoni.
Alessandro Tassoni (Modena 1565 – 1635) vien ricordato per il suo poema eroicomico La Secchia Rapita uscito nel 1621. I bolognesi, al rifiuto dei modenesi di riconsegnare una secchia, dichiarano guerra ai vicini. Ad essa partecipano, distribuiti tra le due parti, gli dèi dell’Olimpo: Apollo e Minerva che si schierano a fianco di Bologna, mentre Marte, Venere e Bacco con Modena. Anche re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II, parteggiò per loro.
Un elemento nuovo introdotto dal Tassoni nel suo poema è l’entrata in campo di un esercito di donne, guidato dalla bella Renoppia. Uno dei personaggi più divertenti del suo poema è il conte di Culagna, modenese, che mi ricorda il bolognese Romano Prodi, e la bella giornalista alla quale ha tirato le chiome, potrebbe essere la prode Renoppia.
Il conte Culagna sfidò a duello il prode Melindo e lo vinse, secondo quanto predetto da una antica profezia che aggiudicava la vittoria al più debole e vile: il Culagna, appunto.
Il conte Culagna s’innamora della Renoppia e per farla sua pensa di uccidere la propria moglie. Ma rivela il suo piano all’amico Titta, che è l’amante di sua moglie. Il cavaliere mette l’amata al corrente del piano del marito e il conte va a procurarsi il veleno, ma gli daranno invece un forte purgante. Il conte a tavola dice alla moglie di volerle mettere del pepe nel piatto, ma quando lui si volta, la contessa scambia i piatti. Sarà così il marito a subire l’effetto del farmaco, la cui azione gli farà fare una pessima figura nella pubblica piazza, cacandosi addosso di fronte a tutti i modenesi.
Alla fine il conflitto fra bolognesi e modenesi si concluderà grazie a un legato pontificio, che stabilisce le seguenti condizioni: i bolognesi possono tenersi re Enzo, fatto prigioniero durante la battaglia di Fossalta e i modenesi si potranno tenere la secchia.
Parafrasando Karl Marx possiamo dire che: “La storia si ripete sempre due volte: la prima come farsa e la seconda come tragedia”.
La Statua della Libertà ha una origine diversa da quanto possiamo pensare, viene infatti detta la Dea Massonica d’America. Così come il ‘laicismo’ della Rivoluzione Francese cercava di erigere monumenti ai Culti della Ragione e della Natura sulle rovine del cristianesimo, la Massoneria ha eretto una “Dea della Libertà” negli Stati Uniti. Che la sua ispirazione fosse una ‘dea’ è attestato nella biografia del suo progettista, Bartholdi, da Robert C Singer, Vice Gran Maestro della Grand Lodge di New York. Bartholdi, mentre si trovava sul ponte della nave Pereire, che navigava nelle acque basse della baia di New York, ebbe una visione di una magnifica dea che reggeva una fiaccola in alto, con una mano e accoglieva tutti i visitatori nella terra della libertà e delle opportunità. L’architetto della statua, Frederic-Auguste Bartholdi, e il progettista della struttura, Gustave Eiffel, erano entrambi massoni. L’architetto a capo della costruzione della piattaforma fu il Frat. Richard M. Hunt. La Cerimonia di Consacrazione della statua è stata organizzata dalla New York State Grand Lodge. Il 28 ottobre 1886, Edward M. L. Ehlers, Gran Segretario della Continental Lodge 287, lesse una lista di oggetti che furono collocati in una scatola di rame, dentro alla pietra angolare, tra cui una pergamena con l’elenco degli ufficiali della Grande Loggia. Fu organizzata una tradizionale cerimonia massonica: “Trovate le fondamenta quadrate, livellate a piombo, il Gran Maestro applicò la malta e fece calare la pietra in posizione. Poi batté sulla roccia per tre volte e la dichiarò debitamente posata. Furono presentati gli elementi della ‘consacrazione’: mais, vino e olio. Il Venerabile Gran Maestro ha poi parlò, ponendo le domande e ricevendo le risposte prescritte dalla tradizione”. Bartholdi, inizialmente, voleva erigere questa statua ad Alessandria d’Egitto. Elaborò degli schizzi e degli schemi costruttivi. Poi fece una proposta a Isma’il Pasha, Khedive d’Egitto e a Ferdinand de Lesseps, ma questi rifiutarono a causa del costo che a loro parve eccessivo dell’opera. La statua proposta assomigliava moltissimo alla Statua della Libertà, e rappresentava una donna, l’Egitto, con una torcia alzata che simboleggia la luce che si diffonde sull’Asia. Questa connessione con l’Egitto, forse, attrasse i Massoni e gli Illuminati americani, che videro in lei la dea Eulogia e non la dea della Libertà?
Skull and Bones (‘Teschio e ossa’) è una società segreta che ha la sua sede presso la prestigiosa Università di Yale (a New Haven nel Connecticut). Fu fondata nel 1832 da William H. Russell (1809-1885). Questa società è conosciuta con svariati pseudonimi, tra cui Fratellanza della morte (in inglese Brotherhood of Death), Loggia 322, e L’Ordine. Loro si chiamano anche ‘The Knights of Eulogia’, ossia i ‘Cavalieri di Eulogia’ che è la dea dell’eloquenza a cui i membri rendono il culto durante le loro cerimonie. La denominazione sociale ufficiale dell’organizzazione è Russell Trust Association. I Bush, padre e figlio, furono dei membri.
Kerry Bolton MOVIMENTI OCCULTI E SOVVERSIVI. Gingko edizioni. 2020
Quasi 100 anni dopo la fine della Rivoluzione Americana, nel 1865, il pensatore politico francese Edouard de Laboulaye, appartenente alla Loggia Alsace Lorraine di Parigi, propose alla Francia di regalare un monumento agli Stati Uniti per commemorare le relazioni diplomatiche e celebrare un secolo di libertà e democrazia. Inoltre, Laboulaye e i suoi compagni, che comprendevano personaggi del calibro di Oscar ed Edmond de Lafayette, nipoti del Marchese LaFayette, Henri Martin e lo scultore e massone Auguste Bartholdi, speravano che il dono avrebbe ispirato i loro cittadini francesi a perseguire la democrazia in Francia. All’epoca, la popolazione francese era ancora divisa tra chi sosteneva la monarchia e chi gli ideali illuministici.
Bartholdi salpò per l’America nel 1871 per prendere accordi per la presentazione del monumento il 4 luglio 1876, centenario della Dichiarazione di Indipendenza. Nel XIX secolo, l’idea di “libertà” era controversa, spesso associata a violenza e rivoluzione. Batholdi voleva dare un’immagine diversa della libertà: invece di guidare una rivolta, il monumento avrebbe dovuto illuminare la strada verso la libertà in modo pacifico e legale. Così la statua, ancora da realizzare, prese il nome di “Libertà che illumina il mondo”.
Una volta proposta e accettata l’idea del monumento, iniziò l’estenuante lavoro di raccolta fondi per il progetto. Quando Bartholdi tornò in Francia, riuscì a raccogliere, con l’aiuto dell’Unione Franco-Americana (di cui molti membri erano massoni), la somma di 3.500.000 franchi francesi. Tuttavia, assicurare questa somma di denaro richiese molto tempo – e c’era ancora molto da raccogliere. Divenne chiaro che non avrebbero rispettato la scadenza originaria del 4 luglio 1876 e iniziarono a lavorare 24 ore su 24 per assicurare i fondi e costruire il monumento. In realtà, il progetto fu finanziato fino al completamento grazie all’aiuto di Joseph Pulitzer, proprietario ed editore del New York World (che in seguito avrebbe ricevuto il prestigioso premio letterario in suo onore), che raccolse oltre 100.000 dollari (2,3 milioni di dollari nella valuta odierna).
L’ossatura strutturale fu fornita dal collega massone e ingegnere civile francese Gustave Eiffel, che sarebbe poi diventato famoso per aver progettato la Torre Eiffel. Il rame fu scelto come materiale dal Fratello Bartholdi perché era uno dei meno costosi.
La statua fu costruita e completata nel 1885. Lady Liberty fu poi smontata in 350 pezzi e spedita oltreoceano, arrivando a Bedloe’s Island (poco dopo ribattezzata Liberty Island) nel giugno 1885. Poco visibile, ai piedi della statua si trova una catena che le legava il piede e che è stata spezzata.
Di tanto in tanto, i robot sulla superficie di Marte, o le navicelle spaziali in orbita attorno al pianeta, inviano immagini affascinanti delle formazioni rocciose che si trovano sul Pianeta Rosso.
Queste possono spaziare dall’interessante (come la roccia a forma di ciambella che potrebbe non appartenere al pianeta) alle forme antropomorfe, che paiono scolpite da un Neanderthal. Questo fine settimana, le persone si sono particolarmente entusiasmate per una “struttura quadrata” fotografata dalla Mars Global Surveyor (MGS) Mars Orbiter Camera (MOC).
Dopo aver ricevuto una discreta attenzione su Reddit, ha attirato molti più sguardi dopo che il popolare podcaster Joe Rogan (questo è fottutamente interessante!) ed Elon Musk (dovremmo inviare astronauti su Marte per investigare) hanno iniziato a postare su X.
Quindi, cosa sta succedendo? Come spiegano le note della comunità sul sito web di Musk, l’immagine è stata in qualche modo alterata rispetto a come è stata originariamente catturata. Tuttavia, proviene da un’immagine reale scattata dall’orbiter, che mostra un elemento quadrato (o quasi), supponendo di riempire le linee di collegamento con la propria testa.
L’intera immagine mostra un’area di circa 3 chilometri di larghezza, secondo la rilevazione di Marte dell’Arizona State University. Naturalmente, le persone hanno cominciato a speculare, sostenendo che la natura non crea strutture di questo tipo e che questi potrebbe essere i resti di un antico insediamento alieno sul Pianeta Rosso. Per quanto divertente possa essere questa ipotesi, è probabile che ci troviamo di fronte a delle rocce che possiedono un allineamento naturale. La natura, nonostante le affermazioni contrarie, produce alcune caratteristiche strutture: dalle colonne esagonali della Giant’s Causeway sulla Terra all’esagono polare di Saturno. I fenomeni geologici e meteorologici possono portare a forme familiari, senza che si debba invocare l’opera di alieni.
Il fenomeno di vedere schemi familiari in oggetti che non esistono è chiamato pareidolia. In termini di evoluzione, è logico che individuiamo il più rapidamente possibile gli schemi che potrebbero rappresentare un pericolo per noi (ad esempio, un serpente). Carl Sagan ha spiegato nel suo libro Il mondo infestato dai demoni: la scienza come una candela nel buio, che la capacità di identificare le minacce era imperativa per la nostra sopravvivenza.
I primi esseri umani che sono scappati da quello che pensavano fosse un leone nascosto in un cespuglio sono sopravvissuti. Coloro che non riuscivano a individuare questo “modello” di leone venivano mangiati da quest’ultimo. E se sono scappati ma si è scoperto che il leone era in realtà solo un sasso, non c’è problema: quegli esseri umani sono sopravvissuti in ogni caso e hanno trasmesso i loro geni.
Sagan diceva che trovare schemi (che esistano o meno) è un’abilità vitale per la sopravvivenza, ma può portare a interpretare erroneamente immagini casuali o schemi di luce come volti e oggetti familiari. In questo caso, le persone vedono una struttura quadrata nelle rocce e nelle ombre di Marte, in una foto scattata nel 2001.
Sebbene gli scienziati non desiderino altro che trovare prove della presenza di vita su un altro pianeta, ciò implica l’esclusione di tutte le altre possibili spiegazioni naturali. Gli scienziati sono già stati colti in fallo in passato, dopo aver affermato di aver trovato prove di vita su Marte, come nel XIX secolo, quando alcuni, supportati dalle mappe realizzate dall’astronomo milanese Giovanni Schiaparelli, sostennero che Marte avesse una serie di canali che attraversavano il pianeta.
Nel 1894, l’idea entusiasmò anche il pubblico, dopo che l’astronomo Percival Lowell suggerì che le osservazioni di Schiaparelli mostravano canali realizzati da una civiltà aliena. Lowell finì per utilizzare una notevole quantità di denaro proprio per scattare fotografie di questi “canali” nel 1907, dimostrando così che le caratteristiche erano state realizzate da una specie aliena.
“Dopo che lo scioglimento della calotta polare meridionale era ben avviato, i canali hanno cominciato a fare la loro comparsa intorno a questa”, disse Lowell all’epoca, come riportato dal New York Times. “Da ciò si deduce che il pianeta è attualmente la dimora di una vita costruttiva intelligente”, ha aggiunto.
“A questo proposito, posso dire che la teoria di questa vita su Marte non è stata in alcun modo un’ipotesi a priori da parte mia, ma è stata dedotta dal risultato dell’osservazione, e che le mie osservazioni successive l’hanno pienamente confermata. Nessun’altra supposizione è coerente con tutti i fatti qui riportati”.
Tuttavia, altri non furono convinti e le fotografie scattate contribuirono a screditare l’idea. Quindi, anche se potrebbe essere più divertente credere che gli antichi marziani abbiano lasciato strutture quadrate su Marte, come i canali, è più probabile che vi sia una spiegazione naturale e un po’ di sana pareidolia.
Il sacco di Gerusalemme nel altorilievo dell’Arco di Tito a Roma. Al centro è visibile la Menorah che era conservata all’interno del tempio
Il governo laburista sembra determinato a minare l’eccellenza nelle scuole. Il Dipartimento per l’Istruzione ha annunciato che a partire da febbraio interromperà il Programma di studio del Latino, seguito da più di 5.000 alunni. Il taglio arriva un mese dopo che una commissione ha suggerito di eliminare tutti quegli di studi che alimentano i “pregiudizi della classe media” e di sostituirli con “attività di più alto livello”, come le “visite a musei, teatri e gallerie d’arte” e come i laboratori di graffiti.
Questa stupida decisione vorrebbe colpire l’elitarismo ma la decisione di porre fine alle lezioni di latino in alcune scuole pubbliche è particolarmente penosa. Il latino aiuta a creare studenti intellettualmente curiosi, interessanti e interessati; offre loro un ricco mondo interiore e l’opportunità di sperimentare in modo fantasioso un’altra epoca così simile e così diversa dalla nostra. Li introduce a una nuova letteratura, alla storia, alla teologia, alla retorica, alla cultura; è brillante nello sviluppare sia la logica che l’acquisizione della lingua. Proprio perché è una lingua “morta”, e quindi deve essere insegnata attraverso le sue regole grammaticali piuttosto che attraverso il suo uso parlato, è così utile per comprendere la meccanica e la struttura del linguaggio in generale.
Il programma delle scuole di latino era iniziato nel 2022 in 40 scuole statali, in gran parte situate in aree economicamente svantaggiate. Annullarlo a metà dell’anno scolastico sembra inutilmente punitivo e dirompente: quasi 1.000 di questi studenti avrebbero dovuto sostenere il GCSE di latino in estate, e ora potrebbero non poterlo più fare perché il governo vuole recuperare 4 milioni di sterline – un risparmio relativamente piccolo che si registrerà a malapena nel buco nero dei servizi pubblici, ma che farà un’enorme differenza per i bambini che ne beneficiano, invece il programma è stato sacrificato sull’altare dell’austerità e della correttezza politica.
Il latino incarna il piacere di imparare per il gusto di imparare; è piacevole proprio perché “inutile”. L’idea che i classici siano irrilevanti, impenetrabili o poco stimolanti per i giovani di oggi è un’assurdità e un altro esempio del bigottismo di sinistra. Vale anche la pena di notare che, poiché il programma era volontario, questi studenti volevano studiare il latino e non erano costretti a frequentare una materia che non amavano.
Certo del futuro dell’automobile, da lui inventata, l’ingegnere Enrico Zeno Bernardi (1841 – 1919) nel 1896 diede inizio alla sua attività imprenditoriale con un’officina per produrle. Era nativo e risiedeva a Quinzano (VR) ma insegnava all’università di Padova.
L’azienda automobilistica fu impiantata a Padova in società con due giovani ingegneri, Giacomo Miari e Francesco Giusti Del Giardino, allo scopo di industrializzare il prototipo di Bernardi. La Miari & Giusti fu la prima azienda automobilistica del mondo, e aveva sede in via San Massimo, a Padova. Produssero il modello a triciclo e poi uno spider a quattro ruote di 2.5 cavalli di potenza e che poteva raggiungere i 35 chilometri orari. Dopo aver prodotto cento autovetture, purtroppo, la mancanza di adeguati capitali li costrinse a chiudere i battenti dopo due anni d’attività, pur essendo le loro vetture tecnicamente superiori alle Fiat prodotte a partire dal 1899.
La fabbrica si trovava a pochi metri dalla sede nazionale del RIVS, dove sorgeva l’opificio di via San Massimo a Padova, già sede del Lanificio Marcon, distrutto da un incendio nel 1892.
Via San Massimo a Padova.
L’automobile vendette bene a Padova. Già nel 1903 in città si contavano 49 possessori di autovetture, tra cui ovviamente lo stesso Bernardi, il marchese Pietro Buzzaccarini, il conte Paolo Camerini, il conte Luigi Donà Dalle Rose; ma c’è anche una donna, la contessa Emma Treves Corinaldi. A Padova la targa numero 1 fu assegnata alla Società in accomandita Cassis & C., la seconda a Enrico Bernardi, la terza al conte Giacomo Miari de’ Cumani; ai primi titolari, in genere espressione della nobiltà, si affiancano professionisti, avvocati, industriali, clinici come il professor Felice Lussana, soprannominato “Girardengo” per via dei suoi grandi baffi a manubrio.
La vettura a tre ruote posseduta da Bernardi è attualmente esposta al “Museo di Macchine Enrico Bernardi” dell’Università di Padova insieme ad altri motori e modelli d’epoca, ancora perfettamente funzionanti dopo quasi 120 anni.
Se Enrico Bernardi fosse nato negli Stati Uniti, siamo certi che Hollywood gli avrebbe già dedicato un film e, nonostante esistano piccoli studi settoriali dedicati alla sua opera, manca una vera biografia. A Padova dovrebbero commemorare la prima fabbrica delle amate e odiate automobili con una lapide o un monumento.
Un giorno atterra un’astronave extraterrestre a Central Park, New York. A bordo stanno dieci individui molto simili a noi, tutti di sesso maschile. Non mostrano di essere a noi ostili e raccontano di essere stati costretti ad abbandonare il loro pianeta, oltre la nostra galassia, perché prossimo a esplodere.
Vengono accolti con entusiasmo dai cittadini nuovaiorchesi, che li fanno sentire a casa loro, offrendo grossi benefici, scattano foto con loro, li invitano a cena.
Nei mesi successivi aumentano gli omicidi in città, ma di una piccola percentuale rispetto al totale e quindi non ci si fa molto caso. Un ispettore di polizia, molto caparbio, decide di indagare a fondo su alcuni di questi strani nuovi crimini e arresta un extraterrestre, che alla fine confessa di avere ucciso dieci umani. L’indagine si estende anche agli altri otto e si scopre che tutti hanno ucciso, per varie ragioni, decine e decine di uomini e donne. Uno solo ha seguito le legge e non ha fatto male a nessuno.
La cittadinanza chiede la loro espulsione in massa dal nostro pianeta, ma alcune organizzazioni benefiche si oppongono, dicendo che il 99% degli omicidi a New York sono causati da umani e dunque il problema non esiste. Il sindaco della metropoli è d’accordo con loro, aggiungendo che vanno aiutati a superare i loro shock. Dunque, vengono lasciati liberi e indisturbati.
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