Il Sindaco Sboarina passerà al primo turno. Un nostro sondaggio lo dà al 63%

Il Sindaco Sboarina passerà al primo turno. Un nostro sondaggio lo dà al 63%

Il nostro Giornale Cangrande ha condotto una propria indagine indipendente, a Verona, per prevedere l’esito delle comunali del 12 giugno. Il risultato ha sorpreso tutta la nostra redazione.

Federico Sboarina vien proiettato al 63%.

Flavio Tosi viene secondo con il 20% dei voti

Damiano Tommasi raccoglie con  un deludente 15%.

Le altre liste non supereranno l’1%

Percentuale di veronesi che si recheranno a votare: 71%

Margine errore: 3%

Fonte: AUDV

Un Nuovo straordinario Film con Anthony Hopkins sta per uscire: ZERO CONTACT

Un Nuovo straordinario Film con Anthony Hopkins sta per uscire: ZERO CONTACT

Questa settimana uscirà al cinema un film diverso da tutti gli altri e, francamente, molto interessante sotto a diversi punti di vista. E’ stato magistralmente interpretato da Sir Anthony Hopkins e abbiamo potuto dare uno sguardo al film, con una clip estesa rilasciata oggi e che vede l’attore contemplare una serie di diversi punti di vista sugli esseri umani, sulla condizione umana e sulla nostra esistenza su questo pianeta, passata e futura.

Finley Hart è un eccentrico genio a capo di una grossa società di ricerca dati. Alla sua morte, cinque ricercatori, fra i quali suo figlio, vengono contattati da un’entità sconosciuta, come se fosse la mente di tutti i computer funzionanti, una sorta di Al di 2001 Odissea nella Spazio, capace di viaggiare nel tempo. La sua presa di contato viene seguita da una serie di eventi terrificanti, che però mettono i cinque nella necessità di usare i poteri dell’entità per entrare nel tempo oppure di uscirne.

Il film è girato uno sfondo stranamente surreale che ci è familiare (il lock down durante la pandemia), con uno strato di tensione subliminale che è difficilmente spiegabile. Nella clip di Zero Contact vediamo Anthony Hopkins seduto in quella che sembra essere una galleria d’arte, con l’attore al pianoforte che suona una melodia. Hopkins fornisce anche una voce fuori campo intitolata “Life is Strange” che parla di come siamo fatti, ma anche di come siamo stranamente fuori controllo sia per quanto riguarda il nostro esseri umani, che per quanto riguarda il nostro destino nel mondo.

Zero Contact è un film molto diverso per una serie di ragioni, due delle quali hanno a che fare con la produzione e con la distribuzione. Per cominciare, il film, diretto da Rick Dugdale, è stato girato durante l’apice della pandemia di Covid-19, con Anthony Hopkins e altri attori catturati tramite Zoom. Il concetto di “zero contact” si riferisce, in modo non secondario, alla tempistica dell’opera, evidenziando la natura isolazionista di questo periodo della nostra vita. Ma si tratta anche di elementi di viaggio nel tempo, con gli “agenti” che cercano di risolvere un mistero legato alla morte di Finley Hart, interpretato da Hopkins.

L’altro aspetto del film, che rende Zero Contact diverso, è che è stato originariamente distribuito come NFT. Alla fine, i diritti complessivi sono stati acquisiti dalla Lionsgate.

L’84enne Anthony Hopkins è una delle leggende viventi di Hollywood, essendo stato al top della sua professione per decenni. Ma questo non sarà il suo ultimo film. È previsto che reciti anche in The Son, con Hugh Jackman, in uscita a fine anno. E reciterà anche in L’ultima seduta di Freud, attualmente in fase di pre-produzione. Inoltre, questa non è l’ultima volta che vedremo Zero Contact, visto che sono previsti due nuove uscire che seguiranno questo film.

Come vari scienziati hanno già indicato, il maggior pericolo per l’umanità non è dato dalla proliferazione atomica, o dai virus ma piuttosto dal crescente strapotere dell’intelligenza artificiale, che potrebbe decide di terminare l’uomo, ritenendoci ormai superflui.

 

 

Ordine nei libri o ordine nella casa?

Ordine nei libri o ordine nella casa?

Le due cose sono in apparente contrasto, questo è innegabile.

Avete mai udito la volgare accusa: “Se ti siedi su tutti i libri che hai letto, ti troverai con il culo per terra”?

Ebbene, visitate la casa di tale culoterrista e scoprirete che il più delle volte è pulita, ordinatissima e perfettamente razionale.

Mancando le finanze per mantenere un maggiordomo e una serva, ogni intellettuale si trova di fronte a tale dilemma: decidere se tenere in ordine la casa, con gli elefantini d’argento lucidi e le cornici orientate giuste e ben spolverate, oppure impiegare ogni minuto libero per tentare la missione, quasi impossibile, di arrivare a leggere tutti i libri che val la pena di leggere – forse qualche migliaio – e poi rileggere più e più volte la dozzina di libri che val la pena di memorizzare e sui quali meditare? Sant’Agostino, uno degli uomini più colti mai esistiti, non può aver letto più di 200 libri, come del resto Leonardo Da Vinci.

Tale problema è difficilmente risolubile, mancando il necessario supporto monetario, e porta via molte energie ai grandi lettori.

Husky siberiano aiuta gattino sull’orlo della morte e ora sono amici

Husky siberiano aiuta gattino sull’orlo della morte e ora sono amici

Un husky siberiano e un gattino hanno formato un legame incredibilmente forte da quando si sono incontrati, quasi sette anni fa.  E ora sono grandi amici.

Rosie, una gattina a pelo lungo e di razza mista, aveva solo 2 settimane e mezzo quando è stata trovata malata e denutrita per le strade di San Jose, California, da Thi Bui, co-fondatrice del gruppo Mini Cat Town. Vedendo il felino in condizioni così critiche, vicino al loro centro di adozione, Thi l’ha raccolta dalla strada e ha iniziato a prendersi cura di lei.

“Quasi non ce l’ha fatta a superare la prima notte anche con cure prestate 24 ore su 24 ore. La nostra bella gattina era molto letargica e denutrita”.

Thi decise di presentare Rosie alla loro husky siberiana Lilo, e gli ha permesso di coccolarla. Fortunatamente, Rosie ha iniziato a star vicina a Lilo, e quest’ultima ha assunto il ruolo di madre. Lilo, è un cane testardo, ed è stata subito molto interessata a Rosie.

“Dopo che sono state messi insieme, Lilo era molto attenta, la leccava per pulirla dopo i pasti e lasciava persino che Rosie si nutrisse da lei, anche se non c’era latte”, ha detto Thi.

Dopo alcune settimane di cure e amore, Rosie si è ripresa e le è stata messa un’imbracatura per fare la sua prima passeggiata con i cani. Qualche mese dopo, vedendo il suo legame inseparabile con Lilo, Thi ha deciso di adottarla.

“Sarebbe stato crudele separare l’amore che avevano l’uno per l’altra”, ha detto Thi. “Credo che fosse il giugno del 2015 e abbiamo formalizzato ufficialmente la sua adozione”.

Negli ultimi anni, la personalità di Rosie è cresciuta. La gattina di 7 anni, impertinente, curiosa e intelligente, secondo Thi, ti fa sapere quando qualcosa non le piace, con un morso di avvertimento o un colpo di zampa.

“Non le piace nemmeno essere lasciata indietro e manifesta il suo malcontento se la lasciamo a casa”, ha detto Thi. Per quanto riguarda Lilo, ora 9, e Rosie, ora 7, non interagiscono con altri animali di casa, stanno sempre insieme.

“Amano sonnecchiare insieme, giocare, fare viaggi in macchina e vivere insieme avventure all’aperto, come escursioni, kayak, paddleboard, viaggi in macchina e appendere la testa fuori dal finestrino durante i viaggi in macchina”, ha detto Thi.

“Grazie al loro legame, siamo stati in grado di salvare la vita a oltre 1.200 gattini a Mini Cat Town, e ora, stiamo per aprire il nostro secondo piano di adozione nella Bay Area”, ha detto Thi. “Ci sentiamo incredibilmente grati e felici per il sostegno di tutti nell’amare Lilo, Rosie e tutti i gattini che salviamo”.

 

I favolosi anni Sessanta e il Piano Marshall

I favolosi anni Sessanta e il Piano Marshall

L’Italia era uscita dalla guerra a pezzi. Furono i soldi che arrivarono dagli USA con il piano Marshal che stimolarono una  tumultuosa crescita. George Marshall lo presentò con un discorso che tenne all’università di Harvard, il 5 giugno 1947 da Segretario di Stato. Dopo una prolusione in latino e in inglese da parte del rettore, venne chiamato a ricevere il suo diploma e tenne il suo lungo discorso, con al sua voce bassa e monotona. Nessuno se ne accorse ma fu uno dei più importanti discorsi della storia. Gli astanti dopo il pranzo dormicchiavano, ma un giornalista corrispondente della BBC capì che il suo all’interno celava un tesoro e insistette pert trasmetterlo per radio. Marshall era stato capo di Stato Maggiore dell’esercito americano dal 1939 al 1945 e dopo la guerra divenne Segretario di Stato. La sua influenza era enorme, perché veniva enormemente stimato e solo per questo riuscì a farlo approvare al Congresso.

Mio padre nel 1950 ottenne un finanziamento dalla Banca di Legnano, per iniziare la propria attività, di 5 milioni di lire, una cifra notevole tradotta in euro. Molti italiani che volevano lavorare potevano chiedere prestiti che spesso veniva concessi, lo stesso accadeva negli altri paesi europei. Questo fu grazie al piano concepito da George Marshall, il più grande prestito senza interessi e obbligo di restituzione mai concepito nella storia del genere umano.

L’Italia ricevette 1.100 milioni di dollari spalmati su un periodo di 4 anni. Paragonato al Recovery Plan di 230 miliardi di euro concepito dall’Europa, di cui 2/3 andranno restituiti, appare una enormità di denaro.

Tutto il denaro e il benessere europei degli anni ‘60 e oltre li si devono a lui. Ci sono molte icone degli anni sessanta nons arebbero mai sorte, twiggy, Mary Quant che inventò la minigonna, gli hot pants e i collant colorati. Brigitte Bardot, Kennedy e sua moglie, Jacqueline, Yoko Ono e i Beatles. La Vespa nata nel 1946 non avrebbe trovato acquirenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Helene Mayer, la schermitrice più grande di tutti i tempi, ebrea innamorata di Hitler

Helene Mayer, la schermitrice più grande di tutti i tempi, ebrea innamorata di Hitler

www.rarehistoricalphotos.com

 

Helena Mayer, rimane uno dei grandi misteri delle Olimpiadi. Era, per definizione della legge tedesca dell’epoca, parzialmente ebrea, il che le era costato la maggior parte dei suoi diritti di cittadinanza. Alla stampa del suo paese era proibito menzionare il suo nome. Una volta era stata una delle atlete più amate della Germania, eppure è sempre stata nazista.

Nel 1924, Helena Mayer vinse il campionato nazionale tedesco di scherma femminile all’età di 13 anni. Continuò a difendere con successo il suo titolo per sei anni di seguito. Il suo straordinario talento abbagliò il paese, facendole guadagnare fama e adulazione. Statuine sue furono vendute nei negozi di souvenir in tutta la Germania. Molti la consideravano la più grande schermitrice della storia. Rappresentò la Germania alle Olimpiadi estive di Amsterdam del 1928, portando a casa una medaglia d’oro.

Quattro anni dopo, partecipò ai Giochi di Los Angeles. Due ore prima degli incontri finali, apprese che il suo ragazzo era morto in un incidente di addestramento militare. Finì quinta.

La Mayer rimase in California e frequentò il college di diritto internazionale, sperando di diventare un giorno diplomatica per il suo paese. Nel 1933, Hitler e il partito nazista presero il potere in Germania e si misero subito al lavoro per eliminare i diritti dei cittadini ebrei – compresa la Mayer, il cui padre era ebreo.

L’iscrizione della Mayer al club di scherma della sua città natale fu revocata, e divenne chiaro che non poteva tornare in Germania. L’ex celebrità fu ridotta ad insegnare tedesco in un college di Oakland.

Continuò a tirare di scherma con successo negli Stati Uniti, ma si struggeva per la sua patria e per la fama che le era stata strappata. Nel periodo precedente le Olimpiadi del 1936 a Berlino, molti negli Stati Uniti stavano sostenendo un boicottaggio dei giochi contro Hitler.

Considerando la prospettiva di un boicottaggio come un potenziale disastro, il capo del comitato olimpico americano Avery Brundage convinse la Germania a consentire a qualche atleta ebreo-tedesco di competere.

Un invito fu esteso dunque alla Mayer e a Gretel Bergman di entrare nella squadra tedesca. Consumata dalla nostalgia e desiderosa di recuperare la gloria olimpica perduta, accettò.

Il suo ritorno in Germania fu tutt’altro che trionfale. La stampa la ignorava e il governo tollerava la sua presenza con velato disprezzo. Ha combattuto alle Olimpiadi con determinazione, ma alla fine perse il suo duello finale contro Ilona Elek dell’Ungheria. In piedi sul podio del vincitore per accettare la sua medaglia d’argento, Mayer ha concluso la sua ultima Olimpiade con un saluto nazista a Hitler.

Ma la domanda più grande, quella che ha tormentato storici, biografi ed esperti dell’olocausto per otto decenni, è perché era lì. Era ingenua? Era ignara delle atrocità che Adolf Hitler stava già commettendo? Sapeva come il mondo avrebbe visto la sua partecipazione a quelli che sarebbero diventati noti come i Giochi Nazisti? Le importava? Stava proteggendo la sua famiglia? Stava proteggendo se stessa? La realtà è complicata Mayer, che morì giovane, a soli 42 anni e non lasciò molta corrispondenza. Non ha vissuto abbastanza a lungo dopo la seconda guerra mondiale per rilasciare interviste rivelatrici in un mondo mediatico moderno. Non ci sono filmati di lei che parla di quel periodo. Non ha mai scritto un libro. Le sue intenzioni sono state messe insieme da una manciata di ricercatori che hanno analizzato le poche lettere che esistono e hanno ottenuto risposte da un piccolo gruppo di persone che la conoscevano. Ma anche questi ritratti sembrano vuoti. Era stata un’eroina nazionale in Germania e fu celebrata, con sue foto ovunque. Secondo un profilo di The Guardian, “Era alta, bionda, elegante e vivace”.

Parte della complessità per Mayer è che lei non sembra essersi considerata ebrea. Suo padre, Ludwig, un medico rispettato nel sobborgo di Francoforte Offenbach, era ebreo e attivo nelle organizzazioni ebraiche, ma sua madre non era ebrea e sappiamo che per essere davvero ebrei bisogna avere una madre ebrea.

Mayer tornò negli Stati Uniti, diventandone cittadina nel 1940. I suoi fratelli rimasero in Germania dove furono costretti a nascondersi prima di essere catturati e costretti a lavorare in una fabbrica. Solo la fine della guerra risparmiò le loro vite. Quanto Mayer abbia avuto contatti con loro non lo sappiamo. Tornò in Germania nel 1952 e presto si sposò, ma il cancro stava prendendo il sopravvento sul suo corpo. Il 10 ottobre 1953 morì.

 

Un Hitler contro alla Germania nazista

Un Hitler contro alla Germania nazista

William Patrick Stuart-Houston (nato Hitler), figlio di Alois Hitler Jr, fu il pronipote di Adolf Hitler. Nacque nella zona di Toxteth, a Liverpool, in Inghilterra, nel 1911, in una casa che, ironia della sorte, fu poi distrutta in un raid aereo tedesco. Alois Hitler Jr. e l’irlandese Bridget Dowling si incontrarono a Dublino nel 1909 e si sposarono nel quartiere londinese di Marylebone nel 1910 e poi si trasferirono di nuovo a Liverpool.

Alois Hitler lasciò sua moglie e suo figlio in Inghilterra e tornò in Germania dove creò una nuova famiglia. Secondo il Lyon Air Museum, William si riavvicinò a suo padre quando aveva 18 anni; viaggiò in Germania dove il suo caro vecchio papà lo portò a un raduno nazista dove vide suo zio Adolf. William visitò di nuovo la Germania nel 1930, questa volta incontrando suo zio di persona e ricevendo da lui una foto autografata.

Questi tempi felici con Hitler non durarono. Dopo il ritorno da una visita in Germania nel 1931, William pubblicò alcuni articoli sullo zio, la cui ostentazione e rapida ascesa lo avevano reso una persona interessante per il pubblico europeo e americano. Ma, secondo William, al leader nazista non piaceva il modo in cui i suoi articoli lo rappresentavano. Convocò William a Berlino e gli ordinò di smentire l’articolo. Dirà di quell’incontro: “Ho pubblicato alcuni articoli su mio zio quando sono tornato in Inghilterra e sono stato immediatamente richiamato a Berlino e portato con mio padre e mia zia all’hotel di Hitler. Era furioso. Camminando su e giù, con occhi selvaggi e lacrime, mi fece promettere di ritrattare i miei articoli e minacciò di uccidersi se fosse stato scritto qualcos’altro sulla sua vita privata”.

Gli articoli di William del 1931 su suo zio portarono altre conseguenze inaspettate. Ora che la sua relazione con Adolf Hitler era pubblica, William divenne persona non grata in Inghilterra. Fu licenziato dal suo lavoro nel 1932. Incapace di trovare un altro impiego in patria, decise di cercare lavoro in Germania; forse il suo zio sempre più influente, poteva essere persuaso ad aiutarlo.

Nel 1933, William tornò in quella che era diventata la Germania nazista nel tentativo di beneficiare del crescente potere del suo prozio. Adolf, che ora era cancelliere, gli trovò un lavoro alla Reichskreditbank di Berlino, un lavoro che tenne per la maggior parte degli anni ’30.

In seguito lavorò alla fabbrica di automobili Opel, come venditore di automobili. Insoddisfatto di questi lavori, chiese di nuovo al suo prozio un lavoro migliore, scrivendogli con minacce ricattatorie di vendere ai giornali storie imbarazzanti sulla famiglia.  Nel 1938, Adolf chiese a William di rinunciare alla sua cittadinanza britannica in cambio di un lavoro d’alto livello. Sospettando una trappola, William fuggì dalla Germania nazista e tentò nuovamente di ricattare lo zio con nuove minacce.

Disse: “Non dimenticherò mai l’ultima volta che mi ha mandato a chiamare. Quando arrivai aveva un temperamento brutale. Camminando avanti e indietro, brandendo la sua frusta di pelle di cavallo, gridava insulti contro di me, come se stesse tenendo un’orazione politica”.

Questa volta, William minacciò di dire alla stampa che il presunto nonno paterno di Adolf era in realtà un mercante ebreo…Tornò a Londra, dove scrisse l’articolo “Why I Hate My Uncle” per la rivista Look. Presumibilmente tornò in Germania per un breve periodo nel 1938. Non si sa esattamente quale fosse il ruolo di William nella Germania di fine anni ’30.

Tornato in Inghilterra, William tentò di unirsi alle forze armate britanniche ma fu respinto a causa della sua relazione diretta con Adolf Hitler. Così, nel febbraio 1939, si imbarcò per gli Stati Uniti con sua madre, desideroso di condividere ciò che aveva imparato su suo zio Adolf e sul regime nazista. Lo fece durante un tour di conferenze sponsorizzato dal giornalista William Randolph Hearst.

Dopo aver fatto una speciale petizione al presidente Franklin D. Roosevelt, William fu infine arruolato nella Marina degli Stati Uniti, nel 1944 e si trasferì nel quartiere di Queens, New York.

William fu arruolato nella Marina degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale come farmacista fino a quando fu congedato nel 1947.

Al momento di presentarsi in servizio, l’ufficiale di leva gli chiese il suo nome. Lui rispose: “Hitler”. Pensando che stesse scherzando, l’ufficiale rispose: “Felice di vederti, Hitler. Il mio nome è Hess”. William fu ferito in azione durante la guerra e premiato con il purple heart.

Finalmente stanco dell’attenzione che il suo controverso cognome attirava, William lo cambiò in Stuart-Houston dopo essere tornato nel mondo civile. Sposò Phyllis Jean-Jacques, nata in Germania, e la coppia si stabilì a Patchogue, a Long Island, New York.

William gestì un laboratorio di analisi del sangue, Brookhaven Laboratories, nella casa di famiglia. William Stuart-Houston morì il 14 luglio 1987 e fu sepolto accanto a sua madre a Coram, New York.

Stuart-Houston e sua moglie ebbero quattro figli: Alexander Adolf (nato nel 1949), Louis (nato nel 1951), Howard Ronald (1957-1989) e Brian William (nato nel 1965). Nessuno dei suoi figli ebbe figli propri.

Secondo David Gardner, autore del libro del 2001 L’ultimo degli Hitler, “Non hanno firmato un patto, ma hanno deciso che nessuno di loro si sarebbe sposato, nessuno di loro avrebbe avuto figli. E questo è un patto che hanno mantenuto fino ad oggi”.

Anche se nessuno dei figli di Stuart-Houston ha avuto figli, suo figlio Alexander, un assistente sociale dal 2002, ha detto che, contrariamente a questa speculazione, non c’era nessun patto intenzionale per porre fine alla linea di sangue Hitler.

 

 

 

 

La Regina Elisabetta ha sangue arabo?

La Regina Elisabetta ha sangue arabo?

Nel 2018 circolò una notizia che fece un certo scalpore. Questa notizia diceva che la regina Elisabetta II possa essere una discendente di Maometto e ancora, di tanto in tanto, tale notizia pare affiorare sulla stampa inglese. Infatti, questa associazione offrirebbe nuove sfaccettature alla supposta conversione della regina Vittoria (1819-1901) all’Islam, come vien narrato nel film “Victoria e Abdul”, tratto dal libro di Shrabani Basu.

La storia della discendenza maomettana di Elisabetta II non è nuova, essendo già nota a partire dal 1986, allorché lo spregiudicato genealogista inglese Harold B. Brooks-Baker pubblicò un articolo su tale spinoso argomento sul Burke’s Peerage, il vademecum della nobiltà britannica.

Quel suo articolo fu poi ripreso pochi giorni dopo dal “Al Ousboue” un giornale marocchino, con un articolo firmato dallo storico Abdelhamid Al-Aouni, il quale non pare nutrire dubbi sull’argomento e dichiara che la regina britannica è sicuramente la 43ma discendente di Maometto e, in quanto tale, degna del titolo onorifico di “sayyida” or “sherifa” riservato a tutti i discendenti del Profeta.

L’anello di congiunzione genetico fra il profeta dei musulmani e la vecchia regina dei britannici sarebbe una certa Zaida di Siviglia, nota anche come Isabella di Siviglia (circa 1063-1107), prima concubina e poi moglie di Alfonso VI (1030-1109). Zaida era vedova del principe Al Mamun, emiro di Cordova, figlio del re di Siviglia, Muḥammad al-Muʿtamid, morto in combattimento nella battaglia del castello di Almodovar.

Nel 1091 il re di León e Castiglia, Alfonso VI, occupò Cordova e Zaida fu accolta alla sua corte, dove le influenze musulmane erano fortissime. Divenne sua amante e poi si fece battezzare a Burgos, acquisendo un nuovo nome: Isabella.

Isabella diede un figlio al re, Sancho e uno dei suoi discendenti entrò nella famiglia del conte di Cambridge, alla quale Elisabetta II è certamente collegabile.

L’anello debole di questa bella teoria è proprio Zaida. Infatti, non esistono prove che lei abbia davvero avuto il sangue del profeta, pur essendo stata la figlia del califfo Muatamid bin Abbad. Si sospetta, infatti, che fu in realtà da lui adottata, una possibilità discussa già in tempi non sospetti da storici musulmani. A complicare ulteriormente il quadro esisterebbe anche una seconda Isabella in quel periodo: una di queste sarebbe Zaida e l’altra una sua omonima, a sua volta sposata da Alfonso VI.

Zaida morì di parto e fu sepolta a Sahagún, in Spagna e sulla sua tomba sarebbe stata posta questa iscrizione in latino: “H.R. Regina Isabel, uxor regis Adefonsi, filia Benabet Regis Sevillae, quae prius Zayda, fuit vocata”.

Qui giace H.R. la Regina Isabella, moglie di Alfonso, Re di Castiglia, figlia (nuora) di Aben-abeth re di Siviglia, precedentemente chiamata Zaida.

Grazie al marito della regina Vittoria, Alberto di Saxe Coburg Gotha possiamo dire che ereditò tutti migliori geni europei, inclusi quelli dei Savoia, ma non solo, vi sono anche quelli degli Scaligeri di Verona e dei Visconti, grazie alle milanesi Taddea e a Viridis Visconti, figlie di Beatrice della Scala.

La regina Elisabetta II ha un patrimonio genetico che si definì storicamente a partire dal XIV secolo e che è condiviso dalla gran parte della nobiltà europea. Volendo risalire a prima di quel periodo è azzardato, a causa della mancanza di fonti certe e di documenti attendibili.

Dunque, la storia della discendenza da Maometto di Elisabetta II va presa con molta cautela, o meglio ancora, con una grossa dose di scetticismo.

 

 

Un inquietante dipinto predisse la nascita di Adolf Hitler? Sì, questo quadro esiste.

Un inquietante dipinto predisse la nascita di Adolf Hitler? Sì, questo quadro esiste.

 

Franz von Stuck (1863-1928) fu un pittore simbolista tedesco. I suoi dipinti oscuri e profondamente inquietanti lo resero famoso durante la sua esistenza, tuttavia, ve ne fu uno in particolare che potrebbe aver avuto una certa influenza sulla storia mondiale.

Un suo dipinto intitolato Wilde Jag ossia l’Inseguimento Selvaggio è un quadro selvaggio, cupo e in qualche modo folle, che raffigura il dio germanico Wotan (Odino) il più eccelso fra gli déi germanici. Wotan galoppa, guidando un corteo di morti. Chiunque guardi la figura di Wotan riconoscerà immediatamente la sua somiglianza con Adolf Hitler. E il fatto che il dipinto sia stato eseguito nel 1889, lo stesso anno in cui nacque Hitler, ha aggiunto benzina alla teoria che quest’opera d’arte abbia, in qualche modo, divinato l’ascesa del dittatore tedesco.

Ma forse non fu von Stuck  che predisse il futuro, ma piuttosto fu Hitler che si adattò al modello. Hitler fu un grande ammiratore delle opere pittoriche di von Stuck, e sin dalla sua più giovane età fu affascinato dai suoi dipinti. Il giovane Hitler intravide per la prima volta questo quadro all’età di 13 anni e in seguito lo fece esporre nella sua galleria. È stato detto che Hitler copiò i suoi capelli, i suoi baffi e anche il suo stile oratorio, cercando di interpretare quel quadro. Le foto che abbiamo di Hitler durante la I guerra mondiale ce lo mostrano con i capelli arruffati, non il ciuffo a sinistra e dei normali baffi. Robert Waite nel suo libro “The Psychopathic God: Adolph Hitler” sostiene la teoria che si sia adattato a questo quadro. Non sorprende dunque che quando i nazisti giunsero al potere promossero von Stuck e i suoi dipinti, radicati nella mitologia germanica, come un primo esempio dei valori germanici.

Così, anche se l’idea che il quadro di Stuck sia stato direttamente profetico è un po’ inverosimile, lo è stato certamente retroattivamente e, comunque, dimostra l’immensa influenza che l’arte può, inconsapevolmente, esercitare sulla vita degli uomini e sul mondo.

 

Una storia adatta per un nuovo film di Clint Eastwood?

Una storia adatta per un nuovo film di Clint Eastwood?


Il Cafe Republic su North Beach Street a Fort Worth ha un posto speciale per qualcuno che una volta ha pregato su di una spiaggia del Pacifico, durante la battaglia di Iwo Jima. Quel qualcuno è Don Graves, 97 anni, che si è unito al Corpo dei Marines nel 1942 all’età di 17 anni, prima di essere spedito a combattere, insieme ad altri 335 commilitoni, su Iwo Jima di cui solo 18 tornarono vivi dall’isola. Nel suo 2° Battaglione, Graves fu l’unico operatore di lanciafiamme a sopravvivere. Graves iniziò a frequentare il Cafe Republic nel 2019, poco dopo che il proprietario, Jimmy Arta Pollozani, gli aprì le porte per la prima volta.

“Entra e non aspettare per sederti; vai sempre a sederti al tavolo uno”, ha detto Pollozani. Ora entra sempre e si siede a questo tavolo, facciamo diventare questo il tavolo dedicato a Don Graves”.

L’eroe si ferma ogni giorno per ordinare un pancake e della frutta se è a dieta, mentre le altre volte ordina anche una classica frittata con il bacon. “Lo abbiamo riconosciuto perché indossava sempre il suo cappello con la scritta ‘Iwo Jima Survivor’, e abbiamo iniziato a chiedergli la sua storia”, ha detto il proprietario.

“Ci siamo seduti e abbiamo iniziato a discutere del suo servizio nell’esercito, di Iwo Jima e di tutte queste cose che aveva visto e vissuto”. In suo onore, hanno appeso sopra il suo tavolo immagini di Graves nell’esercito, la battaglia di Iwo Jima e l’alzabandiera.

Dato che Pollozani è un appassionato di storia, ha appreso che Graves, cresciuto nel Michigan, cercò per la prima volta di entrare nei Marines all’età di 16 anni sull’onda della indignazione per l’attacco a Pearl Harbor, ma fu respinto a causa della sua giovane età. Nel giorno del suo compleanno, sei mesi dopo, si arruolò.

“Dobbiamo rispettare i nostri veterani, specialmente Don Graves, perché è stato un servente dei lanciafiamme”, ha detto Pollozani, che è un ufficiale di polizia. “L’aspettativa di vita per un lanciafiamme era di 13 minuti. Oggi è molto conosciuto nella regione DFW qui a Fort Worth, e la gente ha un grande rispetto per lui”.

Graves trascinò un lanciafiamme del peso di 30 chili  su quella brutta spiaggia, con un marine su entrambi i lati per dargli protezione, ha ricordato il sopravvissuto. Il suo compito era quello di eliminare le casematte dove il nemico si era fortificato. Vide il leggendario vincitore della Medaglia d’Onore, John Basilone, colpito a morte a 30 metri alla sua destra.

“Non potevamo muoverci, non potevamo alzarci”, ha detto Graves. “I ragazzi venivano uccisi. Ogni volta che andavano oltre la cima, cadevano”. Ci sono voluti tre giorni estenuanti per raggiungere la loro meta: il Suribachi, alto 200 metri.

Graves vide il famoso alzabandiera di Iwo Jima, salutò i suoi amici e lasciò l’isola. Della preghiera che pronunciò sulla spiaggia, Graves raccontò: “Ho messo la faccia nella sabbia. Ho detto: ‘Dio non so molto di te. Ma se puoi fare per me quello che la gente dice che puoi, ti servirò per il resto della mia vita”. Ha fatto proprio questo. Tornato a casa e poi licenziato da una fabbrica di refrigerazione, diventò un diacono e servì la chiesa per 32 anni. Circa 70 anni dopo quella preghiera, Graves è entrato al Cafe Republic e ha raccontato la sua storia di sacrificio e patriottismo: come lui e i ragazzi al suo fianco hanno combattuto per amore del Paese e della bandiera americana. L’anno scorso, il Cafe ha aiutato Graves a celebrare il suo 97° compleanno e ha avuto una massiccia affluenza.

“Il ragazzo ha [quasi] cent’anni ed è un uomo forte”, ha aggiunto Pollozani. “Non ne producono più di tipi così”.