Le responsabilità di Albert Kesselring nel massacro delle Fosse Ardeatine

Le responsabilità di Albert Kesselring nel massacro delle Fosse Ardeatine

 

Un mio articolo del 2014 sul Corriere della Sera

Ecco qualcosa di nuovo che non conoscevo sul cinismo e le responsabilità di Albert Kesselring sia riguardo alla strage delle Fosse Ardeatine sia nella condanna a morte del suio collega, il generale Anton Dostler. Angelo Paratico ha letto un libro di Richard Reiber, “Anatomy of perjury” che spiega perché Kesselring riuscì con una bugia a farla franca sulle Fosse Ardeatine e si defilò anche da altre responsabilità.
Di seguito la bella recensione di Paratico. Dino Messina

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                L’esecuzione di Anton Dostler

 

Oggi cade l’anniversario della strage nazista delle Fosse Ardeatine, del 24 Marzo 1944. In Italia questo tragico episodio è un campo di scontro fra opposte ideologie, un campo dove i fatti e, dunque, la verità spariscono. Credo sia giunto il momento di superare questo muro e comincerò con il farlo io, uno scrittore di destra.

Nell’esprimere succintamente le mie opinioni mi baserò su opere contemporanee tedesche e americane, dove ci si può aspettare un grado di obiettività superiore a quelle italiane.
I fatti nella loro crudezza sono noti. Il 23 marzo 1944, alle ore 15 e 45, una bomba piazzata da un partigiano appartenente ai Gap, Rosario Bentivegna, affiancato da altri compagni, esplose, investendo una colonna di militari tedeschi che rientravano da un’esercitazione. Questi appartenevano alla XI compagnia di polizia “Bozen” acquartierata alla caserma Macao, nel Castro Pretorio. La loro età media era di 35 anni, molti fra di loro avevano in precedenza militato nell’esercito italiano. Il giorno dopo 32 poliziotti erano morti, cinque o sei erano in gravissime condizioni, e anche due civili italiani morirono a causa delle ferite. Il giorno dopo, 24 marzo 1944, alle 20 e 30, la strage di 335 civili era stata compiuta dalle SD guidate da Herbert Kappler. Alcune unità dell’esercito tedesco, fra cui i commilitoni dei caduti, avevano rifiutato di sparare sui civili italiani.
La sequenza temporale riportata qui sopra dimostra chiaramente che non fu possibile, né pensabile, stampare e appendere manifesti con i quali si intimava ai responsabili dell’attentato di costituirsi, la segretezza e la rapidità della strage impedì ai partigiani e ai romani di venirne a conoscenza se non nei giorni successivi. Del resto nessuno può dubitare del fatto che se Bentivegna e i suoi compagni si fossero costituiti, questi sarebbero stati messi assieme ai 335 assassinati.
Quali che fossero gli intenti dei gappisti non credo esistano dubbi sul fatto che il loro fu un atto di guerra e non un atto terroristico. Immaginiamo che uno spitfire inglese si fosse abbassato sulla Città Eterna e scorgendo una colonna di soldati tedeschi in marcia, avesse aperto il fuoco, provocando lo stesso numero di morti. In tal caso staremmo ancora qui a discutere di un atto terroristico? Io credo di no. E che i partigiani avessero ricevuto un riconoscimento come co-belligeranti dagli Alleati e dal governo monarchico italiano è altrettanto fuori discussione. Dunque quell’esplosione va riconosciuta come un legittimo atto bellico.
Ci si chiede ancora se la feroce reazione nazista, di dieci italiani per ogni tedesco ucciso, fosse in qualche modo giustificata dalle convenzioni internazionali. Eppure la Convenzione dell’Aja del 1907 non prevedeva l’applicazione di una tale norma in tali circostanze e seguendo la procedura adottata, questa fu l’opinione accettata e condivisa anche da vari generali della Wehrmacht, come Frido von Senger und Etterlin e il capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff.
I militari messi alla sbarra, primo fra tutti Albert Kesselring, giustificarono la loro decisione scaricando tutta la responsabilità su di un primo Führerbefehl (un ordine diretto di Hitler al quale non si poteva disubbidire) nel quale si ordinava appunto la morte di 10 civili per ogni militare tedesco e di un secondo Führerbefehl con il quale si stabiliva che l’esecuzione del massacro doveva ricadere sulle SD, il servizio di sicurezza nazista. Di questi ordini di Hitler non si è mai trovata traccia, né pare che siano mai stati effettivamente impartiti. Il colonnello Beelitz, di stanza al Monte Soratte, presso al quartier generale germanico, testimoniò di aver parlato al telefono con un ufficiale di collegamento del generale Jodl, a Berlino, il quale gli disse: “Il Führer è furioso. Per ogni poliziotto tedesco ucciso devono essere fucilati trenta o cinquanta italiani!”
Successivamente ci fu una nuova telefonata, sempre secondo Beelitz, nella quale si disse che Hitler chiedeva la morte di dieci ostaggi italiani per ogni soldato tedesco e di nuovo che l’esecuzione era affidata alla SD aggiungendo che voleva un rapporto per la sera del giorno successivo. Hitler, dunque, non aveva dato istruzioni dirette, lasciando la mano libera ai suoi generali, ma voleva un rapporto per la sera del giorno successivo. È possibile pensare che le sue istruzioni si potevano negoziare, che il numero dei “fucilandi” poteva essere ridotto, non solo ma che si poteva ritardarne l’esecuzione. Conosciamo esempi di ufficiali tedeschi che contraddissero, o che oppure ostacolavano degli ordini di repressione sui civili, senza andare incontro alla fucilazione o alla corte marziale. Invece Kappler, assistito da Priebke, partì a tutta velocità uccidendo addirittura un numero maggiore di civili rispetto a quanto necessario. Cosa accadde, dunque?
La mia personale opinione, supportata da quando pubblicato da Richard Reiber nel suo “Anatomy of Perjury”, Newark 2008, è che la Wehrmacht con Albert Kesselring scaricò il problema sulla SD, nella persona di Kappler, convincendolo che esisteva un preciso Führerbefehl affinché chiudessero il caso. Forse Kappler e Priebke vollero esagerare in brutalità per confermare la loro lealtà alla causa nazista. Tutto ciò accadde proprio perché mancò l’uomo chiave, mancò il regista, ovvero Albert Kesselring, occupato altrove. Nelle sue auto-celebrative memorie “Soldat bis zum letzen Tag” e durante le fasi del processo per la strage delle Fosse Ardeatine, Kesserling sostenne sempre di non aver potuto intercedere per mitigare l’ordine di Hitler perché rientrato tardi da un’ispezione in prima linea a Cassino, un fatto sempre supportato da tutti gli ufficiali del suo stato maggiore.
In realtà non fu così e la loro menzogna, perché di questo si trattò, servì a non far finire Kesselring davanti a un plotone d’esecuzione. Quel plotone d’esecuzione davanti al quale finì il generale Anton Dostler a causa dell’uccisione di 15 soldati americani, per la gran parte di origine italiana, che facevano parte di un commando di guastatori in uniforme. Furono catturati il 24 marzo 1944 vicino a La Spezia e fucilati il 26 marzo nei pressi di Lerici.
Quella operazione era stata denominata Ginny e la loro missione era di far saltare una galleria ferroviaria. Esisteva anche qui un Führerbefehl segreto che stabiliva che tutti i commando nemici andavano fucilati, anche se vestivano l’uniforme e i gradi, non dovevano essere internati in campi di prigionia. Ma tale ordine era noto a pochi generali, uno fra questi era certamente Albert Kesserling, che godeva della piena fiducia di Adolf Hitler.
Due settimane dopo l’esecuzione dei 15 americani arrivò un ordine nel quale si stabiliva che tutta la documentazione relativa a quel caso andava distrutta, fu così che a guerra finita, non riuscendo a rintracciare documenti e certi testimoni chiave per la difesa, il generale Dostler pagò con la propria vita un ordine ricevuto, per interposta persona, impartito da Kesselring. Il processo a Dostler si tenne a Roma dall’8 al 12 ottobre 1945 e il suo interprete fu un giovane Albert O. Hirschman (1915 – 2012) destinato poi a diventare uno dei maggiori economisti americani contemporanei. Lui e Anton Dostler vennero invitati ad alzarsi per la lettura della sentenza e Hirschman, sbiancando in viso, tradusse la condanna di morte a un impettito Dostler, che indossava ancora l’uniforme da generale tedesco.
La presenza di Kesselring in Liguria e non al fronte di Cassino è stata dimostrata dal ritrovamento del libro di volo del suo pilota personale, Manfred Bäumler, nel quale si dimostra senza ombra di dubbio che Kesselring nel suo quartier generale di Monte Soratte giunse solo il 26 marzo 1944. Questo fu tardivamente confermato dal Dietrich Beelitz, l’ultimo sopravvissuto di quella banda di depistatori, nel 1997. Kesselring stava certamente in Liguria il 24 marzo 1944. Questa sua assenza spiega anche certi suoi buchi di memoria per quanto riguarda le Fosse Ardeatine; per esempio in una deposizione da lui resa il 25 settembre 1946 egli mostra di ignorare che delle esecuzioni s’era occupata la SD!
Risulta dunque evidente che Albert Kesselring s’assunse la responsabilità di quanto accaduto alle Fosse Ardeatine perché aveva calcolato di potersela cavare, mentre se fosse risultato responsabile per l’ordine di fucilazione del commando Ginny sarebbe stato sicuramente messo davanti al plotone d’esecuzione che, ad Aversa, il 1° dicembre 1945 uccise il generale Anton Dostler.
Kesselring durante la sua prigionia a Londra – nella famosa “Gabbia” diretta dal colonnello Alexander Scotland – e poi in Italia, durante il processo, conquistò tutti con il suo comportamento da generale-gentiluomo, con la sua cortesia e la sua supposta lealtà che avevano affascinato anche Hitler. In realtà egli restò un cinico nazista anche dopo la guerra. Fu un freddo e spietato calcolatore capace di far fucilare quegli ufficiali tedeschi che il 26 aprile 1945 avevano cercato di prendere il controllo di Monaco e consegnare la città agli americani. Cercò di far lo stesso con i suoi camerati italiani, Westphal e Karl Wolff, che in Svizzera negoziarono la resa dell’esercito tedesco (trattative di cui lui stesso era stato messo al corrente). L’ordine di fucilarli fu ritirato solo il 30 aprile, dopo la morte di Adolf Hitler.

Angelo Paratico

Non esiste la pace giusta ma esiste una “pace con onore” come disse Nixon

Non esiste la pace giusta ma esiste una “pace con onore” come disse Nixon

Lo storico viaggio di Nixon in Cina ebbe luogo tra il 21 febbraio e il 28 febbraio 1972, visitando le città di Pechino, Hangzhou e Shanghai. Appena arrivato, Nixon incontrò privatamente Mao Zedong. Sappiamo cosa si dissero grazie al medico personale di Mao, che stava dietro a una tenda, pronto a intervenire con la bombola d’ossigeno. Il medico si chiamava Zhisui Li e pubblicò le sue memorie nel 1994, dopo essersi stabilito negli USA. Questo libro resta ancora proibito in Cina. L’autore racconta che Mao, stupito da quanto giovane fosse Richard Nixon, esordì con una battuta ironica, tramite il suo interprete: “Allora, Presidente, cosa vuole l’America, vuole la pace?”.  Nixon lo stupì con la sua risposta: “Sì, vogliamo la pace, ma con onore!”.

Oggi tutti parlano di una pace giusta per l’Ucraina, ma si tratta un ossimoro o un flatus vocis senza senso. Ne ha parlato il segretario generale dell’Onu al summit dei Brics, auspicando una soluzione negoziata della guerra in Ucraina. La reclama da mesi Zelensky, in chiave diversa, per opporsi a ogni e qualsiasi trattativa che ponga fine alla guerra fissando le loro perdite territoriali, inclusa la Crimea. Anche Immanuel Kant sapeva che non esiste una pace giusta fra uomini ingiusti e parlava piuttosto di una pace-attraverso-il-diritto, quando possibile. Oggi dovremmo tornare a Nixon e puntare a una pace con onore per entrambi i contendenti.

L’insistenza di Zelensky sulle garanzie di non aggressione equivarrebbe all’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che non ha alcun senso. La pace si deve basare su equilibri sottili non sulla garanzia di intervento in guerra della Nato e degli USA in un conflitto contro alla Russia. Gli errori storici spesso  si ripetono. Fu, infatti, la concessione di un assegno in bianco alla Polonia e ad altri paesi da parte di Gran Bretagna e Francia, che portarono l’occidente a una guerra contro la Germania Nazista il 1 settembre 1939. Quello fu un grave errore fatto da Chamberlain, primo ministro del Regno Unito, in accordo con la Francia, perché giocando a una partita di Poker non si dice mai “vedo” se non si hanno buone carte in mano.

 

 

Perché il presidente americano Trump minaccia il Canada

Perché il presidente americano Trump minaccia il Canada

 

Gli inglesi bruciano Washington e la Casa Bianca nel 1812.

 

Le sparate del presidente Trump circa il Canada non vengono dal vuoto, ma scaturiscono da una serie di eventi, battaglie e scontri, vecchi di tre secoli ma pochi in Italia li conoscono. Cerchiamo qui di abbozzare un breve sommario dei pricipali eventi, anche se vorremmo anticipare che le elezioni federali in Canada si terranno prima del 20 ottobre 2025 e se passessero gli oppositori dell’attuale presidente Trudeau, la tensione calerà molto.
Il Canada divenne un dominio autonomo nel 1867 ma la Gran Bretagna mantenne il controllo sulla sua diplomazia e sulla difesa. Il capo di Stato è ancora re Carlo III.
Prima della conquista britannica del Canada francese, nel 1760, vi furono una serie di guerre tra inglesi e francesi. In generale, i britannici facevano molto affidamento sulle unità della milizia coloniale, mentre i francesi facevano affidamento sui loro alleati locali. La nazione irochese era un importante alleato britannico. Gran parte dei combattimenti consistevano in imboscate e guerre su piccola scala, seguiti da massacri feroci, nei villaggi lungo il confine tra il New England e il Quebec. Le colonie del New England avevano una popolazione molto più numerosa di quella del Quebec e quindi le invasioni principali avvenivano da sud a nord. La tensione lungo il confine era esacerbata dalla religione, poiché i cattolici francesi e i protestanti inglesi nutrivano una profonda sfiducia reciproca.
In seguito all’indipendenza dell’America, con il trattato di Parigi del 3 settembre 1783, il Canada divenne un rifugio per circa 70.000, ovvero il 15% dei lealisti che volevano lasciare gli Stati Uniti o che erano costretti a farlo a causa delle rappresaglie dei patrioti. Tra i lealisti originari, c’erano 3.500 afroamericani liberi. La maggior parte si trasferì in Nuova Scozia e nel 1792, 1.200 migrarono in Sierra Leone. Circa 2.000 schiavi neri furono portati dai proprietari lealisti; rimasero schiavi in Canada fino a quando l’Impero abolì la schiavitù nel 1833.
Le tensioni aumentarono nuovamente dopo il 1805, sfociando nella guerra del 1812 (1812-1815), quando il Congresso degli Stati Uniti, approvato dal quarto presidente James Madison (1751-1836, in carica dal 1809 al 1817), dichiarò guerra alla Gran Bretagna nel giugno 1812. Gli americani erano irritati dalle vessazioni britanniche nei confronti delle navi statunitensi e dal sequestro di 6.000 marinai dalle navi americane, dalle severe restrizioni contro al commercio americano neutrale con la Francia e dal sostegno britannico alle tribù ostili dei nativi americani nell’Ohio e nei territori che gli Stati Uniti avevano conquistato nel 1783.
Una volta scoppiata la guerra, la strategia americana fu quella di impadronirsi del Canada. C’era qualche speranza che i coloni nel Canada occidentale, la maggior parte dei quali erano immigrati recenti dagli Stati Uniti, avrebbero accolto con favore la possibilità di rovesciare i loro governanti britannici. Tuttavia, l’invasione americana fu sconfitta principalmente dalle truppe regolari britanniche con il supporto dei nativi americani e della milizia dell’Alto Canada. Aiutati dalla Royal Navy, una serie di incursioni britanniche sulla costa americana ebbero grande successo, culminando con un attacco su Washington che portò i britannici a bruciare la Casa Bianca, il Campidoglio e altri edifici pubblici nel 1812.
Con la resa di Napoleone nel 1814, la Gran Bretagna pose fine alle politiche navali che avevano fatto infuriare gli americani; con la sconfitta delle tribù indiane, la minaccia all’espansione americana cessò. Il risultato fu che sia gli Stati Uniti che il Canada affermarono la loro sovranità, il Canada rimase sotto al dominio britannico e Londra e Washington non ebbero più nulla per cui combattere. La guerra terminò con il Trattato di Gand, che entrò in vigore nel febbraio 1815. Una serie di accordi postbellici stabilizzò ulteriormente le relazioni pacifiche lungo il confine tra Canada e Stati Uniti. Il Canada ridusse l’immigrazione americana per timore di un’influenza eccessiva da parte degli Stati Uniti e rafforzò la Chiesa anglicana del Canada come contrappeso alle chiese battiste e metodiste, in gran parte americane.
All’indomani della guerra del 1812, i conservatori filo-britannici guidati dal vescovo anglicano John Strachan presero il controllo dell’Ontario (“Alto Canada”) e promossero la religione anglicana in contrapposizione alle chiese metodiste e battiste più repubblicane. Una piccola élite interconnessa, nota come Family Compact, prese il pieno controllo politico. La democrazia, così come praticata negli Stati Uniti, fu ridicolizzata. Le politiche ebbero l’effetto desiderato di scoraggiare l’immigrazione dagli Stati Uniti. Le rivolte a favore della democrazia in Ontario e Quebec (“Lower Canada”) nel 1837 furono represse; molti dei leader fuggirono negli Stati Uniti e la politica americana fu quella di ignorare in gran parte le ribellioni e di fatto ignorare il Canada in generale a favore dell’espansione verso ovest della frontiera americana.
Il trattato Webster-Ashburton del 1842 formalizzò il confine tra Stati Uniti e Canada nel Maine, scongiurando la guerra di Aroostook. Durante l’era del Manifest Destiny, l’agenda richiedeva l’annessione da parte degli Stati Uniti di quello che sarebbe diventato il Canada occidentale; gli Stati Uniti e la Gran Bretagna concordarono invece un confine sul 49° parallelo.
Quando il Segretario di Stato americano William H. Seward negoziò l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, nel 1867, lo intese come il primo passo di un piano globale per ottenere il controllo dell’intera costa nord-occidentale del Pacifico. Seward credeva ai vantaggi commerciali che ne derivavano per gli Stati Uniti e si aspettava che la Columbia Britannica chiedesse l’annessione agli Stati Uniti e pensava che la Gran Bretagna avrebbe potuto accettarlo. Presto altri elementi approvarono l’annessione, pianificarono di annettere la Columbia Britannica, la Colonia del Fiume Rosso (Manitoba) e la Nuova Scozia. L’idea raggiunse il culmine nella primavera e nell’estate del 1870, quando gli espansionisti americani, i separatisti canadesi e gli inglesi filoamericani sembravano unire le forze. Poi per una serie di ragioni il piano fu abbandonato.
In seguito, vi furono delle pesanti frizioni fra i due stati che però non raggiunsero mai il livello di una guerra aperta.

 

 

 

Dittatura monarchica o diarchia con il fascismo? Un bagno di realtà dopo le fantasticherie di Scurati e di Cazzullo

Dittatura monarchica o diarchia con il fascismo? Un bagno di realtà dopo le fantasticherie di Scurati e di Cazzullo

 

La nostra storia di Dino Messina. 6 GENNAIO 2025 | di Dino Messina Corriere della Sera

La casa editrice veronese Gingko Edizioni ha da poco pubblicato un libro assai originale, scritto da Angelo Paratico e intitolato “Un Re e il suo burattino. Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini”. L’originalità di quest’opera sta tutta nel tentativo di una revisione critica, basata su diari e i resoconti di personaggi secondari del ventennio, che offrono testimonianza dei cordiali rapporti intercorsi fra il Re e il duce del fascismo. Il Re e Mussolini s’incontravano due volte alla settimana, per un paio d’ore e durante quelle riunioni venivano messe sul tavolo tutte le questioni correnti, sia interne che internazionali. Infatti, senza la firma del Re, Mussolini non aveva alcun potere. Si trattava di una situazione simile a quella di altri primi ministri italiani, come Cavour, Giolitti e Crispi.
Il primo capitolo di questo libro tratta dell’imperatore del Giappone, Hirohito, che si trovò in una situazione simile a quella di Vittorio Emanuele III, e che se la cavò scaricando le proprie gravissime responsabilità sui generali che lo attorniavano. La narrazione diffusa in Giappone era sempre stata che Hirohito fosse controllato da una cosca di militari e che in realtà egli non avesse alcun potere. Questa narrazione è crollata nell’anno 2000 con l’uscita del libro di Herbert Bix “Hirohito and the making of modern Japan” che vinse il premio Pulitzer. Bix, consultando diari di personaggi secondari del regime, scoprì che in effetti l’imperatore era a capo di tutte le operazioni belliche giapponesi, né più né meno di Hitler in Germania.
Pur trincerandosi dietro a dei tecnicismi costituzionali, Vittorio Emanuele III fu l’italiano più nefasto del XX secolo. Gran parte delle sciagure italiane furono determinate dal piccolo monarca sabaudo, che si sarebbe dovuto processare al termine della II Guerra mondiale, ma Winston Churchill pose il veto. L’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, diversamente da quanto si crede, non fu inevitabile ma organizzata da Vittorio Emanuele III, in barba al Parlamento e alla volontà del popolo, in seguito alla firma segreta del Trattato di Londra, che i bolscevichi resero pubblico solo nel 1917. Pur di entrare in quel conflitto il Re non ebbe timore di scavalcare le proprie prerogative costituzionali, la stessa cosa farà anche il 28 ottobre 1922, il 10 giugno 1940, il 25 luglio 1943 e l’8 settembre 1943. I motivi del suo comportamento sono da ricercare nelle sue tare psichiche mai adeguatamente studiate in precedenza. Dunque, perché scelse un ex estremista di sinistra, come Mussolini, come Primo Ministro? Paratico lo spiega così: “Alla fine della guerra l’ala massimalista della sinistra occupò le fabbriche, bloccando il Paese e appropriandosi dei mezzi di produzione. Per proteggere lo status quo intervennero i reduci dalla Grande Guerra, che un socialista radicale, formatosi sui testi di Georges Sorel, di Gustave Le Bon e di Karl Marx, unì e poi usò. Quell’uomo si chiamava Benito Mussolini e il Re, che lo ammirava, pur trovandolo incolto e rozzo, si convinse che fosse lui l’uomo di cui aveva bisogno per mantenersi sul trono, una sorta di generale Diaz fosforescente”.
Vengono riportati anche vari giudizi relativi a Mussolini, che dovrebbero scoraggiare ogni intenzione revanscista, per esempio Franco Bandini, reputato scrittore di destra ci descrive Mussolini con queste parole: “Dopo la guerra, la figura di Mussolini si è rivelata di grandissimo comodo, almeno all’interno della Nazione, tantoché se non fosse esistito si sarebbe reso necessario inventarlo. Nessuna delle accuse che gli sono state mosse, nessuna delle biografie che di lui sono state stese, potrà mai rendere pienamente l’incredibile ottusità di quest’uomo nefasto: la sua totale ignoranza dei problemi anche superficiali della collettività, la fatuità e la irresolutezza del suo giudizio, la sua completa dipendenza, di tipo psicanalitico, dalle pur mediocri personalità con le quali aveva ad imbattersi”.
Nel testo troviamo anche varie curiosità, fin qui poco note, sulla personalità del Re, che mostrano quanto profonda sia l’ombra che lo circonda. Per esempio, quasi certamente, pensava in inglese e poi traduceva in piemontese e in italiano. Questo perché, sino ai dodici anni, la sua governante fu una vedova irlandese, Elizabeth Lee, nota come Bessie.
Si racconta che, dopo la Marcia su Roma, quando Mussolini incontrò il Re gli disse: “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. In realtà tale frase non sarebbe mai stata pronunciata, e dev’essere parte della leggenda fascista costruita a posteriori, questo ce lo dice Giacomo Acerbo che fu presente all’incontro. Non è vero neppure che Armando Diaz disse che l’esercito era fedele ma era meglio non metterlo alla prova, questo lo nega il Re, dicendo che il 28 ottobre non si consultò con nessun generale. Ma, forse, è vero che si consultò con la sua fascistissima madre, la regina Margherita.
La situazione italiana fu molto simile a quella giapponese e desta stupore il fatto che due generazioni di storici non se ne siano accorti, e ora pensiamo che questo libretto cambierà la storia e indurrà molti a una revisione critica della figura di Vittorio Emanuele III e della diarchia con il fascismo.

Ambrogio Bianchi

25 ottobre 732. La sconfitta dei musulmani in Europa.

25 ottobre 732. La sconfitta dei musulmani in Europa.

Carlo Martello fra i figli Carlomanno e Pipino

Una cara amica mi ricorda le gravi responsabilità europee nel caos del Medio Oriente, responsabilità che, a suo parere, datano dal tempo delle crociate. Le rispondo che sono d’accordo con lei, infatti commettemmo eccessi e crudeltà e poi aggiungo che, forse, nel caso nostro ci muovemmo più per avidità che per zelo religioso. Ma fu davvero così? Poi dopo aver meditato sulle mie stesse parole e tolto la polvere a certi libri che da anni non aprivo, debbo ammettere che la mia visione della realtà è stata distorta. Credo che le crociate altro non furono che un tentativo di difendere noi stessi e il nostro mondo da un aggressore feroce e spietato che andò vicino, nel corso dei secoli, a sottometterci alle sue leggi e alla sua religione.
Possiamo dire che fu solo grazie alla intelligenza, al coraggio e alla forza d’animo di un uomo se oggi l’Europa non è musulmana, quell’uomo fu Carlo Martello (686 – 741), camerlengo di palazzo, che riuscì a unire e a organizzare i franchi e i burgundi, bloccando l’avanzata islamica nel cuore dell’Europa.
La battaglia che – come quella di Maratona, nel 490 a.C. – decise del corso della storia europea fu combattuta fra Tours e Poitiers, proprio dove, nel 451, il generale romano Flavio Ezio, fermò gli Unni di Attila.

Ecco ciò che scrisse il grande storico Edward Gibbon: “Una linea di vittorie lunga mille miglia venne tirata da Gibilterra alla Loira. Una ripetizione di simili vittorie avrebbe portato i saraceni ai confini della Polonia e agli altopiani della Scozia; infatti il Reno non è inguadabile più del Nilo e dell’Eufrate e la flotta Araba avrebbe potuto navigare incontrastata sino alla foce del Tamigi. Forse l’interpretazione del Corano sarebbe oggi materia d’insegnamento nelle scuole di Oxford e gli alunni spiegherebbero a un gregge di circoncisi la santità della verità e della rivelazione di Maometto. Da tali calamità il mondo cristiano fu salvato dal genio e dalla fortuna di un solo uomo. Carlo, il figlio illegittimo di Pipino il vecchio…”.

Gli arabi sbarcarono a Gibilterra nel 711 e si dice che il loro generale, Tariq Bin Ziyad, diede ordine di bruciare la flotta per far capire ai propri uomini che intendeva conquistare o morire. Dopo aver soggiogato la Spagna e sconfitto i visigoti, un’armata di cavalieri arabi e berberi comandati da Abdul Rahman Al Ghafiri, governatore del Al-Andalus assediò Tolosa e poi mise al sacco Bordeaux, muovendosi verso Tours, la Città Santa dei Galli. Dopo aver riunificato la parte a nord dell’attuale Francia, Carlo Martello li affrontò il 25 ottobre 732.
L’armata del califfato islamico era perlopiù composta da cavalleria, circa 80.000 armati, mentre i franchi erano solo 30.000 ma tutti soldati di professione grazie alla preparazione di Carlo, che aveva trasformato un’orda di contadini – che ritornavano ai campi una volta terminata una guerra – in un esercito di professionisti: una fatto non più visto dai tempi di Roma.
Per poterli mantenere e pagare, Carlo espropriò i beni della chiesa francese. Un’altra sua grossa innovazione fu l’introduzione delle staffe per i cavalieri, anche se la sua armata era perlopiù composta da fanteria pesante.
Abbiamo vari resoconti, sia da parte araba che cristiana, che descrivono quello storico scontro avvenuto fra Tours e Poitiers. Gli invasori non conoscevano i franchi, anche se sapevano che erano numerosi e abili ma pensavano che davanti agli zoccoli dei loro cavalli se la sarebbero data a gambe, come facevano tutti i loro nemici. Carlo, invece, li conosceva bene, come pure le loro tattiche. Era informato del loro assedio a Bisanzio del 717-718 e dunque non li sottovalutava affatto. Un primo assedio musulmano a Bisanzio era stato posto nel 668, determinato dal fatto che Maometto (570?-632) aveva promesso un’indulgenza plenaria a chi avrebbe preso la città dei cesari. Questa sua promessa vien spesso ripetuta anche oggi, ma per il Profeta la città dei cesari era quella che oggi conosciamo come Istanbul, e che fu nota come Costantinopoli, Bisanzio e Romania, e che fu conquistata da Maometto II nel 1453, non la nostra Roma.
Le due armate si schierano l’una di fronte all’altra, ma franchi e burgundi ben conoscevano il terreno e s’attestarono su di un colle dove oggi sorge il villaggio di Moussais-la-Bataille. Per cinque o sei giorni si squadrano, senza muoversi. Carlo proibì ai suoi uomini d’attaccare: dovevano restare uniti formando dei quadrati, stare dietro ai loro scudi e tenendo le lance pronte e tagliare il ventre dei cavalli arabi che li avrebbero attaccati. Per loro fortuna gli arabi non usavano archi sofisticati, altrimenti sarebbero stati massacrati, come successe ai romani, a Carre con Crasso, nel 53 a.C.
Impaziente d’uscire da quella impasse, Abn al-Rahman ordinò un attacco frontale con la cavalleria ma il muro dei franchi non si spezzò. Gli scudi si aprivano e dai varchi uscivano dei guerrieri che lanciavano le loro francische (asce bipenni) e poi rientravano nei ranghi. Lo stesso comandante dei saraceni perì nell’assalto.
Con il sopraggiungere dell’oscurità la battaglia cessò, ma il mattino successivo i franchi scoprirono che il nemico era fuggito. Nell’accampamento saraceno erano emerse tensioni fra i vari comandanti, che si erano scagliati l’uno contro l’altro. Solo mille e cinquecento franchi morirono, mentre i corpi degli arabi e dei loro cavalli coprivano tutta la piana sottostante e i feriti vennero finiti a colpi di lancia.
Fu lì che Carlo si guadagnò l’epiteto di “Martello” e fu la sua vittoria che fermò l’avanzata del califfato Ummayyad (661-750) in Europa, anche se un nuovo tentativo fu fatto via mare, nel 736 dal figlio di Abdul Rahman, che sbarcò a Narbona. Rinforzò la fortezza di Arles e poi si mosse all’interno della Francia e di nuovo toccò a Carlo Martello di muoversi con l’esercito per fermarlo: riprese Montfrin e Avignone. Prudente come sempre, Carlo chiese l’intervento di Liutprando, il re dei Longobardi, che da Pavia si unì a lui con un esercito e poi insieme presero Arles con un brutale attacco frontale e con una scalata alle sue mura. Il figlio di Carlo Martello, Pipino, nel 737 era stato adottato da Liutprando per cementare l’amicizia fra i due guerrieri. Poi marciarono su Nimes, Agde e Béziers che erano state occupate dai musulmani dal 725 e le liberarono.

Ci si sarebbe aspettata più riconoscenza da parte della Chiesa nei confronti di Carlo Martello, ma diamo nuovamente la parola al grande storico inglese Edward Gibbon: “Ci saremmo aspettati che il grande salvatore della cristianità sarebbe stato santificato, o perlomeno benedetto dalla gratitudine del clero, dato che devono alla sua spada la propria esistenza. Nella pubblica calamità il camerlengo del palazzo era stato costretto ad appropriarsi delle ricchezze o, perlomeno, delle entrate di vescovi e cardinali, per dar sollievo alle finanze statali e pagare i soldati. I suoi meriti furono dimenticati, solo il suo sacrilegio fu ricordato e, in una lettera a un principe Carolingio, un sinodo francese non si peritò di dichiarare che il suo antenato era dannato; tanto che all’apertura della sua tomba, gli spettatori furono terrorizzati dall’odore di zolfo e dalle fiamme, seguite all’apparizione d’un orribile drago; e che un santo di quei tempi si trastullava nella visione dell’anima e del corpo di Carlo Martello bruciare, per l’eternità, nell’abisso dell’inferno”.

Angelo Paratico

Una tragedia dimenticata a Verona

Una tragedia dimenticata a Verona

Esiste una sontuosa tomba marmorea al cimitero monumentale di Verona, che mi è stata indicata dalla pittrice veronese Alessandra Giunta e che raccoglie due nuclei familiari, inclusa una bambinaia svizzera. Tutti morirono il 6 maggio 1936.
Dopo varie ricerche non sono riuscito a trovare alcuna indicazione sulle tragiche circostante della loro scomparsa. Forse sulla mancanza di notizie conta molto la data: il 5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava ad Addis Abeba e quattro giorni dopo Benito Mussolini proclamava l’Impero. Questo deve aver assorbito completamente l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e dei giornalisti, anche quelli dedicati alla cronaca nera. Forse qualcuno dei lettori di Cangrande conosce le circostanze di tale tragedia? Nel maggio 1936 si registrò una grossa frana nei pressi del Teatro Romano, forse rimasero sepolti da quelle macerie?
I nomi dei morti sono i seguenti: Mario Ruberti, Andrea Ruberti, Sergio Ruberti, Genoveffa Samini in Ruberti, Ida Fenner, Giuseppe Magnaroni, Giovanni Magnaroni, Giuseppina Bianchet in Magnaroni.
Angelo Paratico
Un libro che attendevamo da tempo. “Controversie per un Massacro” di Dino Messina

Un libro che attendevamo da tempo. “Controversie per un Massacro” di Dino Messina

L’ultimo libro Dino Messina, intitolato: Controversie per un massacro. Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Una tragedia Italiana, Solferino, 2023, è dedicato alla strage delle Fosse Ardeatine, che seguì di poche ore l’attentato di via Rasella, del 23 marzo 1944. Una bomba costruita artigianalmente e piazzata da un partigiano appartenente ai Gap, Rosario Bentivegna, esplose nel primo pomeriggio, investendo una colonna di militari altoatesini che rientravano da un’esercitazione. Questi appartenevano alla XI compagnia di polizia “Bozen” acquartierata alla caserma Macao, nel Castro Pretorio. La loro età media era di 35 anni e molti fra di loro avevano in precedenza militato nell’esercito italiano. Subito 32 militari morirono, cinque o sei erano in gravissime condizioni, e anche due civili italiani vennero ammazzati dato che si trovavano nelle vicinanze. La strage fu ampliata dalle bombe a mano che i militari tenevano ai cinturoni e che, a causa delle schegge e del calore, esplosero spontaneamente.Il giorno successivo, il 24 marzo 1944, alle 20 e 30, si compì la strage di 335 civili da parte di militari delle SD guidate da Herbert Kappler. Alcune unità dell’esercito tedesco, fra cui i commilitoni dei caduti, coraggiosamente rifiutarono di sparare sui civili italiani.

I dettagli di come si arrivò a quell’attentato vengono passati in rassegna da Dino Messina con spassionatezza ed animo equo. Egli prende in considerazione e analizza molti fattori, presentati dalla destra e dalla sinistra nel corso del tempo. I suoi anni da giornalista investigativo e di cronista, nella redazione del Corriere della Sera servono a indagare tutti questi dettagli, anche i più insignificanti, per poi offrirli al giudizio dei lettori. Il risultato è che questo libro può essere serenamente letto sia da chi possiede una ideologia di destra che di sinistra. Messina ha conosciuto molto bene il responsabile materiale dell’attentato, Rosario Bentivegna, perché nel 1997 scrisse un libro a sei mani con lui e Carlo Mazzantini, che fece molto scalpore, il titolo era:  “C’eravamo tanto odiati”.
Ci si chiede ancora se la feroce decimazione nazista, di dieci italiani per ogni tedesco ucciso, fosse in qualche modo giustificata dalle convenzioni internazionali. In realtà non lo fu, perché la Convenzione dell’Aja del 1907 non prevedeva l’applicazione di una tale norma in tali circostanze, e si badi che questa fu l’opinione accettata e condivisa anche da vari generali della Wehrmacht, come Frido von Senger und Etterlin e il capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff.

I militari messi alla sbarra dopo la guerra, primo fra tutti Albert Kesselring, giustificarono la loro decisione scaricando tutta la responsabilità su di un primo Führerbefehl (un ordine diretto di Hitler al quale non si poteva disubbidire) nel quale si ordinava appunto la morte di dieci civili per ogni militare tedesco e di un secondo Führerbefehl con il quale si stabiliva che l’esecuzione del massacro doveva ricadere sulle SD, il servizio di sicurezza nazista. Di questi ordini di Hitler non si è mai trovata traccia, né pare che siano mai stati effettivamente impartiti. L’esecuzione dei civili fu, dunque, dovuta al fatto che quei generali persero la testa.

La mia personale opinione, supportata da quando pubblicato da Richard Reiber nel suo “Anatomy of Perjury”, Newark 2008, è che la Wehrmacht con Albert Kesselring scaricò il problema sulla SD, nella persona di Kappler, convincendolo che esistesse un preciso Führerbefehl affinché chiudessero il caso. Tutto ciò accadde proprio perché mancò l’uomo chiave, mancò il regista, ovvero Albert Kesselring, occupato altrove. Nelle sue auto-celebrative memorie “Soldat bis zum letzen Tag” e durante le fasi del processo per la strage delle Fosse Ardeatine, Kesserling sostenne sempre di non aver potuto intercedere per mitigare l’ordine di Hitler perché rientrato tardi da un’ispezione in prima linea a Cassino, un fatto sempre supportato da tutti gli ufficiali del suo stato maggiore.
In realtà non fu così e la loro menzogna, perché di questo si trattò, servì a non far finire Kesselring davanti a un plotone d’esecuzione. Quel plotone d’esecuzione davanti al quale finì il generale Anton Dostler a causa dell’uccisione di 15 soldati americani, per la gran parte di origine italiana, che facevano parte di un commando di guastatori in uniforme. Furono catturati il 24 marzo 1944 vicino a La Spezia e fucilati il 26 marzo nei pressi di Lerici. Quella operazione speciale era stata denominata Ginny e la loro missione era di far saltare una galleria ferroviaria. Ma per loro sventura esisteva anche qui un Führerbefehl segreto che stabiliva che tutti i commando nemici andavano fucilati, anche se vestivano l’uniforme e i gradi e non dovessero essere internati in campi di prigionia. Ma tale ordine era noto a pochi generali, uno fra questi fu certamente Albert Kesserling, che godeva della piena fiducia di Adolf Hitler.
Due settimane dopo l’esecuzione dei 15 americani Kesserling mandò un ordine nel quale si stabiliva che tutta la documentazione relativa a quel caso andava distrutta, fu così che a guerra finita, non riuscendo a rintracciare documenti e certi testimoni chiave per la difesa, il generale Dostler pagò con la propria vita un ordine ricevuto, per interposta persona, da Kesselring. Il processo a Dostler si tenne a Roma dall’8 al 12 ottobre 1945 e il suo interprete fu un giovane Albert O. Hirschman (1915 – 2012) destinato poi a diventare uno dei maggiori economisti americani contemporanei.
La presenza di Kesselring in Liguria e non al fronte di Cassino è stata dimostrata dal ritrovamento del libro di volo del suo pilota personale, Manfred Bäumler, nel quale si dimostra senza ombra di dubbio che Kesselring nel suo quartier generale di Monte Soratte giunse solo il 26 marzo 1944. Questo fu tardivamente confermato da Dietrich Beelitz nel 1997, l’ultimo sopravvissuto di quella banda di depistatori. Questa sua assenza spiega anche certi suoi buchi di memoria per quanto riguarda le Fosse Ardeatine; per esempio, in una deposizione da lui resa il 25 settembre 1946 egli mostra di ignorare che delle esecuzioni s’era occupata la SD!
Risulta dunque evidente che Albert Kesselring s’assunse la responsabilità di quanto accaduto alle Fosse Ardeatine perché aveva calcolato di potersela cavare, mentre se fosse risultato responsabile per l’ordine di fucilazione del commando Ginny sarebbe stato sicuramente messo davanti al plotone d’esecuzione che, ad Aversa, il 1° dicembre 1945 uccise il generale Anton Dostler.
Kesselring durante la sua prigionia a Londra – nella famosa “Gabbia” diretta dal colonnello Alexander Scotland – e poi in Italia, durante il processo, conquistò tutti con il suo comportamento da generale-gentiluomo, con la sua cortesia e la sua supposta lealtà che avevano affascinato anche Hitler. In realtà egli fu sempre un cinico nazista anche dopo la guerra. Fu un freddo e spietato calcolatore capace di far fucilare quegli ufficiali tedeschi che il 26 aprile 1945 avevano cercato di prendere il controllo di Monaco e consegnare la città agli americani. Cercò di far lo stesso con i suoi camerati italiani, Westphal e Karl Wolff, che in Svizzera negoziarono la resa dell’esercito tedesco (trattative di cui lui stesso era stato messo al corrente). L’ordine di fucilarli fu ritirato solo il 30 aprile, dopo la morte di Adolf Hitler.

Questo libro di Dino Messina diventerà un classico su questo argomento, perché non vuole provare alcuna tesi ma solo presentare dei fatti. Pensiamo che anche fra cent’anni, quando uno studente vorrà studiare tale argomento, dovrà leggere queste pagine.

 

Angelo Paratico

Perché ci si stupisce dell’invio di truppe russe al confine della Finlandia, dopo la sua adesione alla NATO?

Perché ci si stupisce dell’invio di truppe russe al confine della Finlandia, dopo la sua adesione alla NATO?

Hitler e Mannerheim nel 1942

La Finlandia è stata parte della Russia dal 1809 al 1917 e, grazie alla Rivoluzione d’Ottobre, riuscì a rendersi indipendente. Anche se non si è mai sentita tranquilla con l’orso russo alle porte.

La Finlandia affrontò in due fasi la Russia. Prima fu la Guerra d’Inverno e poi la Guerra di Continuazione. La loro guida militare fu il loro leggendario comandante, Carl Gustaf Mannerheim (1867-1951).

La Guerra d’Inverno (30 novembre 1939-12 marzo 1940) fu condotta dall’Unione Sovietica contro alla Finlandia, dopo la conclusione del Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, firmato il 23 agosto 1939 secondo il quale la Finlandia cadeva nella sfera d’influenza sovietica. Non passò molto tempo prima che l’Unione Sovietica si rivolgesse alla Finlandia, proponendo lo scambio di alcuni territori: “Nel nostro interesse nazionale vogliamo avere da voi alcuni territori e vi offriamo in cambio territori due volte più grandi, ma in aree meno cruciali”. Non era una cattiva proposta quella dei russi e certamente sbagliò il parlamento finlandese a rifiutare. Il risultato fu l’aggressione sovietica contro alla Finlandia e, anche se i finlandesi si batterono come dei leoni, l’Unione Sovietica vinse questa guerra e costrinse la Finlandia a cederle dei territori, circa il 10% dell’area finlandese.

Indro Montanelli venne mandato a Helsinki dal “Corriere della Sera” per coprire quel conflitto e l’aviazione italiana inviò dei caccia in appoggio alle forze finlandesi, che molto si distinsero. Gli articoli di Montanelli furono  apprezzati anche in Finlandia e pare che nel 1943 Mannerheim intercesse con i tedeschi per la sua liberazione dal carcere di San Vittore.

Lo svolgimento della Guerra d’Inverno ricorda un po’ la guerra in Ucraina, alla quale stiamo assistendo oggi. Le truppe sovietiche, per un totale di circa un milione di uomini, attaccarono la Finlandia su vari fronti. I finlandesi opposero un’abile ed efficace difesa e l’Armata Rossa fece ben pochi progressi.  Tuttavia, nel febbraio 1940, i sovietici utilizzarono massicciamente la loro artiglieria per sfondare la Linea Mannerheim (la barriera difensiva meridionale dei finlandesi che si estendeva attraverso l’Istmo di Carelia), dopodiché si diressero a nord attraverso l’istmo, fino alla città finlandese di Viipuri.

Non riuscendo a ottenere l’aiuto di Gran Bretagna e Francia, gli esausti finlandesi scelsero la pace, con il Trattato di Mosca, alle dure condizioni poste dai sovietici, il 12 marzo 1940. Accettarono la cessione della Carelia occidentale e la costruzione di una base navale sovietica nella penisola di Hanko.

Indignati da tali cessioni i finlandesi si avvicinarono alla Germania nazista, ma senza raggiungere un’alleanza formale. Dopo lo scoppio della guerra fra Germania e URSS,  nel giugno 1941, la Finlandia permise alle truppe tedesche di transitare sul loro Paese e si unirono alla lotta contro i sovietici, iniziando quella che chiamano “Guerra di Continuazione”. Rioccuparono i territori persi nella Guerra d’Inverno ma le forze finlandesi non si fermarono sul vecchio confine, occuparono la Carelia orientale (sovietica) con il desiderio di annettersela.

Questo fu un nuovo grave errore, perché la Finlandia divenne un alleato della Germania nella sua guerra di aggressione contro l’Unione Sovietica, in violazione del diritto internazionale. Nutrivano una fiducia cieca nella Germania e, un po’ come Benito Mussolini, i leader finlandesi presero alcune decisioni molto discutibili, senza ascoltare gli avvertimenti degli Stati occidentali sulle possibili conseguenze negative. L’Operazione Barbarossa fu pianificata dai tedeschi come una guerra lampo destinata a durare solo poche settimane ma già dall’autunno del 1941 ciò si rivelò un calcolo sbagliato e i principali ufficiali militari finlandesi cominciarono a dubitare della capacità della Germania di terminare rapidamente la guerra. Le truppe tedesche nel nord della Finlandia si trovarono ad affrontare circostanze alle quali non erano adeguatamente preparate e non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi, soprattutto a Murmansk. Mentre le linee si stabilizzavano, la Finlandia inviò più volte segnali di pace all’Unione Sovietica.

La Germania ne fu allarmata e nel giugno 1942 Adolf Hitler fece una improvvisata a Mannerheim, nel giorno del suo compleanno, volando in Finlandia, dove il generale lo attese con il presidente Ryti. La vera ragione del suo viaggio era che sperava in una maggiore collaborazione da parte dei finlandesi, ma Mannerheim ebbe la conferma che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere i sovietici e, dunque, restò sul vago. Sta scritto sui libri scolastici finlandesi da cosa lo capì. Si dice che stavano seduti in un vagone ferroviario e Mannerheim accese un sigaro davanti al dittatore tedesco, un fatto che normalmente lo faceva infuriare ma Hitler se ne stette quieto, avvolto nella nuvola di tabacco. Questo lo convinse che i tedeschi erano disperati. Esiste una accidentale registrazione di Hitler al tavolo del vagone feroviario, nel quale dice che se avesse saputo che avevano tutti quei carri armati non li avrebbe mai invasi.

Nonostante il contributo della Finlandia alla causa tedesca, gli Alleati nutrivano sentimenti ambivalenti, combattuti tra la residua benevolenza nei loro confronti e la necessità di accontentare il loro alleato vitale, l’Unione Sovietica. Poiché la Finlandia aderì al Patto anti Comintern e firmò altri accordi con la Germania, l’Italia e il Giappone, gli Alleati la caratterizzarono come una delle Potenze dell’Asse, anche se il termine usato in Finlandia era “co-belligeranza con la Germania”, a sottolineare la mancanza di un’alleanza militare formale.

Dal 1942 al 1944 ci fu anche un battaglione di volontari delle Schutzstaffel (SS) sul fronte finlandese settentrionale, reclutati dalla Norvegia, allora sotto alla occupazione tedesca e, allo stesso modo, vi erano anche dei danesi. Vi parteciparono anche circa 3.400 volontari estoni. In altre occasioni i finlandesi ricevettero un totale di circa 2.100 prigionieri di guerra in cambio dei prigionieri di guerra sovietici consegnati ai tedeschi. Questi prigionieri di guerra erano principalmente estoni e careliani disposti a unirsi all’esercito finlandese. Questi, insieme ad alcuni volontari della Carelia orientale, formarono il Battaglione della Parentela (in finlandese Heimopataljoona). Alla fine della guerra, l’URSS chiese la consegna di questi membri del Battaglione Parentela. Alcuni riuscirono a fuggire prima o durante il trasporto, ma la maggior parte di loro fu inviata in Russia, dove vennero fucilati.

La Finlandia aveva una piccola popolazione ebraica (circa 2.300). Godevano di pieni diritti civili e combattevano con gli altri finlandesi nelle file dell’esercito finlandese. I tedeschi avevano menzionato gli ebrei finlandesi alla Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942, con l’intenzione di trasportarli a Majdanek. Il leader delle SS Heinrich Himmler menzionò gli ebrei finlandesi durante la sua visita in Finlandia nell’estate del 1942 assieme a Hitler. Il Primo Ministro finlandese Jukka Rangell rispose che la Finlandia non aveva una “questione ebraica”. Tuttavia, ci furono differenze per i rifugiati ebrei in Finlandia. Nel novembre 1942, i finlandesi consegnarono otto rifugiati ebrei alla Gestapo. Ciò sollevò le proteste dei ministri socialdemocratici finlandesi, e dopo questo evento non furono consegnati altri rifugiati.

La Guerra di Continuazione rappresenta l’unico caso di partecipazione di uno Stato democratico alla Seconda Guerra Mondiale al fianco delle potenze dell’Asse, pur senza essere firmatario del Patto Tripartito. Il Regno Unito dichiarò guerra alla Finlandia il 6 dicembre 1941 (giorno dell’indipendenza finlandese), mentre il Canada e la Nuova Zelanda dichiararono guerra alla Finlandia il 7 dicembre e l’Australia e il Sudafrica il giorno successivo.  Gli Stati Uniti non dichiararono guerra alla Finlandia quando entrarono in guerra con i Paesi dell’Asse e, insieme al Regno Unito, si rivolsero al premier sovietico Giuseppe Stalin alla Conferenza di Teheran per riconoscere l’indipendenza finlandese. Tuttavia, il governo statunitense sequestrò le navi mercantili finlandesi nei porti americani e nell’estate del 1944 chiuse gli uffici diplomatici e commerciali finlandesi negli Stati Uniti a seguito del trattato del Presidente Ryti con la Germania per la fornitura di migliaia di armi anticarro.

La Finlandia iniziò a cercare attivamente una via d’uscita dalla guerra dopo la disastrosa sconfitta tedesca nella battaglia di Stalingrado del febbraio 1943. Edwin Linkomies formò un nuovo gabinetto con la pace come priorità assoluta. I negoziati furono condotti a intermittenza nel 1943-44 tra la Finlandia e il suo rappresentante, Juho Kusti Paasikivi, da una parte, e gli Alleati occidentali e l’Unione Sovietica dall’altra, ma non fu raggiunto alcun accordo.

Stalin decise di costringere la Finlandia alla resa e seguì una campagna di bombardamenti su Helsinki. La campagna aerea del febbraio 1944 comprendeva tre grandi attacchi aerei per un totale di oltre 6.000 sortite. Le difese antiaeree finlandesi riuscirono a respingere i raid e solo il 5% delle bombe sganciate colpì gli obiettivi previsti. La difesa aerea di Helsinki comprendeva il posizionamento strategico di fari e fuochi come esca all’esterno della città per attirare i bombardieri sovietici a sganciare i loro carichi in quelle che erano in realtà aree non popolate.

Il 9 giugno 1944, l’Unione Sovietica lanciò una grande offensiva contro le posizioni finlandesi sull’Istmo Careliano e nell’area del lago Ladoga. Sul segmento di sfondamento largo 21,7 km (13,5 miglia) l’Armata Rossa aveva concentrato 3.000 cannoni e mortai. In alcuni punti, la concentrazione di pezzi d’artiglieria superava i 200 cannoni per ogni chilometro di fronte (uno ogni 5 metri). Quel giorno, l’artiglieria sovietica sparò oltre 80.000 colpi lungo il fronte sull’Istmo Careliano.  Con nuovi rifornimenti dalla Germania, l’esercito finlandese fermò l’avanzata sovietica all’inizio di luglio 1944. A questo punto, le forze finlandesi si erano ritirate di un centinaio di chilometri, portandosi all’incirca sulla stessa linea di difesa che avevano tenuto alla fine della Guerra d’Inverno. Questa linea era nota come linea VKT (abbreviazione di “Viipuri-Kuparsaari-Taipale”) e andava da Viborg al fiume Vuoksi fino al lago Ladoga a Taipale). Il fronte si stabilizzò nuovamente e l’ultima battaglia fu quella di Ilomantsi, una vittoria finlandese, dal 26 luglio al 13 agosto 1944. L’avanzata sovietica contro i Gruppi d’armate tedeschi del Centro e del Nord complicò ulteriormente le cose per la Finlandia.

All’inizio di agosto il presidente Ryti rassegnò le dimissioni per consentire alla Finlandia di chiedere nuovamente la pace, cosa che il nuovo governo fece a fine agosto. I termini di pace sovietici furono duri, ma le riparazioni di 600.000.000 di dollari richieste in primavera furono ridotte a 300.000.000 di dollari, molto probabilmente a causa delle pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.  La Germania perse la guerra e così la Finlandia. Ma grazie alle pressioni occidentali su Stalin, evitarono l’occupazione da parte dell’esercito sovietico e riuscirono, nel settembre 1944, a concludere un armistizio con l’Unione Sovietica. La Finlandia perse altri territori e fu soggetta a molti obblighi e restrizioni. Il trattato di Pace fu concluso a Parigi nel 1947, con l’accettazione della neutralità finlandese che è durata sino a oggi anche se, con la loro adesione alla Nato, le carte vengono nuovamente scompaginate.

 

Angelo Paratico

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

 

Il Conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) fu Ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto di Savoia dal 1835 al 1847 ma fu poi cancellato dai gloriosi annali della storia risorgimentale e relegato in un angolino oscuro. Fu definito un reazionario, bigotto, contrario alla storia e un ottuso anti-Cavour.

La Gingko edizioni, una piccola casa editrice di Verona, ha ripubblicato un suo libro, intitolato “Questioni di Stato” uscito nel 1854, arricchita da una introduzione di Alessandre De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al ministero degli Esteri. Questo libro di Solaro della Margarita uscì al tempo dell’avventura in Crimea, con Francia e Gran Bretagna e da lui fortemente avversata.

Solaro, in 130 pagine e cinque punti, riassume ciò che avrebbero dovuti essere i capisaldi dello Stato Sabaudo, perché potesse continuare a esistere. Egli vide con chiarezza che la partita giocata da Cavour e dagli “italianissimi” (come sarcasticamente chiamava i patrioti italiani che volevano subito la guerra) fosse una partita assai azzardata. Lo stato dell’esercito e le finanze del Regno di Sardegna, a suo giudizio, precludevano uno scontro con una super potenza come l’Austro-Ungheria. Egli favoriva le vie diplomatiche, anche perché per sperare in un successo sul campo di battaglia avrebbe reso indispensabile l’intervento di una potenza straniera, come la Francia, che avrebbe poi inevitabilmente avanzato delle richieste territoriali e controllato la politica sarda.

Solaro fu licenziato dal suo Re dopo che decise di rompere gli indugi e passò alla guerra guadando il fiume Ticino. La follia delle decisioni prese da Carlo Alberto, privato del suo saggio Ministro degli Esteri, sono ormai a tutti manifeste. Basti guardare alla disfatta di Novara, inevitabile dopo che il Sovrano decise di affidare il proprio esercito a un mediocre generale polacco, più versato alla cartografia che nella guerra, inviso a tutti gli altri suoi generali, che neppure riuscivano a pronunciare il suo nome.

Alessandro De Pedys inquadra bene il personaggio e l’epoca: “Solaro guiderà la politica estera del Regno di Sardegna per quasi 13 anni, senza mai rinunciare ad agire sulla base delle sue convinzioni, spesso incurante delle conseguenze (i cattivi rapporti con la Spagna, ad esempio, avranno un costo economico rilevante per il Piemonte); il pensiero del monarca invece evolverà, come si è detto, e questa progressiva divergenza porterà Carlo Alberto alla decisione accettare le dimissioni del suo Ministro nel 1847. Tra i principali motivi di dissidio vi saranno l’ostilità del Re nei confronti dell’Austria e la consapevolezza del ruolo che la dinastia avrebbe potuto giocare nell’unificare almeno parte della penisola italiana, soddisfacendo in tal modo le secolari mire dei Savoia sulla Lombardia. Già nel 1832, dopo un solo anno di regno, Carlo Alberto scriveva nel suo diario: “De tous les côtés de l’Italie il nous revient que la haine contre les Autrichiens paraît se centupler et que les voeux de tous les honnêtes gens nous appellent; mais le temps de nous montrer n’est pas encore venu”.

L’editore ha inserito all’inizio del testo una celeberrima riflessione di Fëdor Dostoevskji, del 1877 e tratta dal suo Diario. Il grande scrittore russo pare della stessa idea del Solaro, espressa nelle “Questioni di Stato”.

Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della Nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!