Una cara amica mi ricorda le gravi responsabilità europee nel caos del Medio Oriente, responsabilità che, a suo parere, datano dal tempo delle crociate. Le rispondo che sono d’accordo con lei, infatti commettemmo eccessi e crudeltà e poi aggiungo che, forse, nel caso nostro ci muovemmo più per avidità che per zelo religioso. Ma fu davvero così? Poi dopo aver meditato sulle mie stesse parole e tolto la polvere a certi libri che da anni non aprivo, debbo ammettere che la mia visione della realtà è stata distorta. Credo che le crociate altro non furono che un tentativo di difendere noi stessi e il nostro mondo da un aggressore feroce e spietato che andò vicino, nel corso dei secoli, a sottometterci alle sue leggi e alla sua religione.
Possiamo dire che fu solo grazie alla intelligenza, al coraggio e alla forza d’animo di un uomo se oggi l’Europa non è musulmana, quell’uomo fu Carlo Martello (686 – 741), camerlengo di palazzo, che riuscì a unire e a organizzare i franchi e i burgundi, bloccando l’avanzata islamica nel cuore dell’Europa.
La battaglia che – come quella di Maratona, nel 490 a.C. – decise del corso della storia europea fu combattuta fra Tours e Poitiers, proprio dove, nel 451, il generale romano Flavio Ezio, fermò gli Unni di Attila.
Ecco ciò che scrisse il grande storico Edward Gibbon: “Una linea di vittorie lunga mille miglia venne tirata da Gibilterra alla Loira. Una ripetizione di simili vittorie avrebbe portato i saraceni ai confini della Polonia e agli altopiani della Scozia; infatti il Reno non è inguadabile più del Nilo e dell’Eufrate e la flotta Araba avrebbe potuto navigare incontrastata sino alla foce del Tamigi. Forse l’interpretazione del Corano sarebbe oggi materia d’insegnamento nelle scuole di Oxford e gli alunni spiegherebbero a un gregge di circoncisi la santità della verità e della rivelazione di Maometto. Da tali calamità il mondo cristiano fu salvato dal genio e dalla fortuna di un solo uomo. Carlo, il figlio illegittimo di Pipino il vecchio…”.
Gli arabi sbarcarono a Gibilterra nel 711 e si dice che il loro generale, Tariq Bin Ziyad, diede ordine di bruciare la flotta per far capire ai propri uomini che intendeva conquistare o morire. Dopo aver soggiogato la Spagna e sconfitto i visigoti, un’armata di cavalieri arabi e berberi comandati da Abdul Rahman Al Ghafiri, governatore del Al-Andalus assediò Tolosa e poi mise al sacco Bordeaux, muovendosi verso Tours, la Città Santa dei Galli. Dopo aver riunificato la parte a nord dell’attuale Francia, Carlo Martello li affrontò il 25 ottobre 732.
L’armata del califfato islamico era perlopiù composta da cavalleria, circa 80.000 armati, mentre i franchi erano solo 30.000 ma tutti soldati di professione grazie alla preparazione di Carlo, che aveva trasformato un’orda di contadini – che ritornavano ai campi una volta terminata una guerra – in un esercito di professionisti: una fatto non più visto dai tempi di Roma.
Per poterli mantenere e pagare, Carlo espropriò i beni della chiesa francese. Un’altra sua grossa innovazione fu l’introduzione delle staffe per i cavalieri, anche se la sua armata era perlopiù composta da fanteria pesante.
Abbiamo vari resoconti, sia da parte araba che cristiana, che descrivono quello storico scontro avvenuto fra Tours e Poitiers. Gli invasori non conoscevano i franchi, anche se sapevano che erano numerosi e abili ma pensavano che davanti agli zoccoli dei loro cavalli se la sarebbero data a gambe, come facevano tutti i loro nemici. Carlo, invece, li conosceva bene, come pure le loro tattiche. Era informato del loro assedio a Bisanzio del 717-718 e dunque non li sottovalutava affatto. Un primo assedio musulmano a Bisanzio era stato posto nel 668, determinato dal fatto che Maometto (570?-632) aveva promesso un’indulgenza plenaria a chi avrebbe preso la città dei cesari. Questa sua promessa vien spesso ripetuta anche oggi, ma per il Profeta la città dei cesari era quella che oggi conosciamo come Istanbul, e che fu nota come Costantinopoli, Bisanzio e Romania, e che fu conquistata da Maometto II nel 1453, non la nostra Roma.
Le due armate si schierano l’una di fronte all’altra, ma franchi e burgundi ben conoscevano il terreno e s’attestarono su di un colle dove oggi sorge il villaggio di Moussais-la-Bataille. Per cinque o sei giorni si squadrano, senza muoversi. Carlo proibì ai suoi uomini d’attaccare: dovevano restare uniti formando dei quadrati, stare dietro ai loro scudi e tenendo le lance pronte e tagliare il ventre dei cavalli arabi che li avrebbero attaccati. Per loro fortuna gli arabi non usavano archi sofisticati, altrimenti sarebbero stati massacrati, come successe ai romani, a Carre con Crasso, nel 53 a.C.
Impaziente d’uscire da quella impasse, Abn al-Rahman ordinò un attacco frontale con la cavalleria ma il muro dei franchi non si spezzò. Gli scudi si aprivano e dai varchi uscivano dei guerrieri che lanciavano le loro francische (asce bipenni) e poi rientravano nei ranghi. Lo stesso comandante dei saraceni perì nell’assalto.
Con il sopraggiungere dell’oscurità la battaglia cessò, ma il mattino successivo i franchi scoprirono che il nemico era fuggito. Nell’accampamento saraceno erano emerse tensioni fra i vari comandanti, che si erano scagliati l’uno contro l’altro. Solo mille e cinquecento franchi morirono, mentre i corpi degli arabi e dei loro cavalli coprivano tutta la piana sottostante e i feriti vennero finiti a colpi di lancia.
Fu lì che Carlo si guadagnò l’epiteto di “Martello” e fu la sua vittoria che fermò l’avanzata del califfato Ummayyad (661-750) in Europa, anche se un nuovo tentativo fu fatto via mare, nel 736 dal figlio di Abdul Rahman, che sbarcò a Narbona. Rinforzò la fortezza di Arles e poi si mosse all’interno della Francia e di nuovo toccò a Carlo Martello di muoversi con l’esercito per fermarlo: riprese Montfrin e Avignone. Prudente come sempre, Carlo chiese l’intervento di Liutprando, il re dei Longobardi, che da Pavia si unì a lui con un esercito e poi insieme presero Arles con un brutale attacco frontale e con una scalata alle sue mura. Il figlio di Carlo Martello, Pipino, nel 737 era stato adottato da Liutprando per cementare l’amicizia fra i due guerrieri. Poi marciarono su Nimes, Agde e Béziers che erano state occupate dai musulmani dal 725 e le liberarono.
Ci si sarebbe aspettata più riconoscenza da parte della Chiesa nei confronti di Carlo Martello, ma diamo nuovamente la parola al grande storico inglese Edward Gibbon: “Ci saremmo aspettati che il grande salvatore della cristianità sarebbe stato santificato, o perlomeno benedetto dalla gratitudine del clero, dato che devono alla sua spada la propria esistenza. Nella pubblica calamità il camerlengo del palazzo era stato costretto ad appropriarsi delle ricchezze o, perlomeno, delle entrate di vescovi e cardinali, per dar sollievo alle finanze statali e pagare i soldati. I suoi meriti furono dimenticati, solo il suo sacrilegio fu ricordato e, in una lettera a un principe Carolingio, un sinodo francese non si peritò di dichiarare che il suo antenato era dannato; tanto che all’apertura della sua tomba, gli spettatori furono terrorizzati dall’odore di zolfo e dalle fiamme, seguite all’apparizione d’un orribile drago; e che un santo di quei tempi si trastullava nella visione dell’anima e del corpo di Carlo Martello bruciare, per l’eternità, nell’abisso dell’inferno”.
Esiste una sontuosa tomba marmorea al cimitero monumentale di Verona, che mi è stata indicata dalla pittrice veronese Alessandra Giunta e che raccoglie due nuclei familiari, inclusa una bambinaia svizzera. Tutti morirono il 6 maggio 1936.
Dopo varie ricerche non sono riuscito a trovare alcuna indicazione sulle tragiche circostante della loro scomparsa. Forse sulla mancanza di notizie conta molto la data: il 5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava ad Addis Abeba e quattro giorni dopo Benito Mussolini proclamava l’Impero. Questo deve aver assorbito completamente l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e dei giornalisti, anche quelli dedicati alla cronaca nera. Forse qualcuno dei lettori di Cangrande conosce le circostanze di tale tragedia? Nel maggio 1936 si registrò una grossa frana nei pressi del Teatro Romano, forse rimasero sepolti da quelle macerie?
I nomi dei morti sono i seguenti: Mario Ruberti, Andrea Ruberti, Sergio Ruberti, Genoveffa Samini in Ruberti, Ida Fenner, Giuseppe Magnaroni, Giovanni Magnaroni, Giuseppina Bianchet in Magnaroni.
L’ultimo libro Dino Messina, intitolato: Controversie per un massacro. Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Una tragedia Italiana, Solferino, 2023, è dedicato alla strage delle Fosse Ardeatine, che seguì di poche ore l’attentato di via Rasella, del 23 marzo 1944. Una bomba costruita artigianalmente e piazzata da un partigiano appartenente ai Gap, Rosario Bentivegna, esplose nel primo pomeriggio, investendo una colonna di militari altoatesini che rientravano da un’esercitazione. Questi appartenevano alla XI compagnia di polizia “Bozen” acquartierata alla caserma Macao, nel Castro Pretorio. La loro età media era di 35 anni e molti fra di loro avevano in precedenza militato nell’esercito italiano. Subito 32 militari morirono, cinque o sei erano in gravissime condizioni, e anche due civili italiani vennero ammazzati dato che si trovavano nelle vicinanze. La strage fu ampliata dalle bombe a mano che i militari tenevano ai cinturoni e che, a causa delle schegge e del calore, esplosero spontaneamente.Il giorno successivo, il 24 marzo 1944, alle 20 e 30, si compì la strage di 335 civili da parte di militari delle SD guidate da Herbert Kappler. Alcune unità dell’esercito tedesco, fra cui i commilitoni dei caduti, coraggiosamente rifiutarono di sparare sui civili italiani.
I dettagli di come si arrivò a quell’attentato vengono passati in rassegna da Dino Messina con spassionatezza ed animo equo. Egli prende in considerazione e analizza molti fattori, presentati dalla destra e dalla sinistra nel corso del tempo. I suoi anni da giornalista investigativo e di cronista, nella redazione del Corriere della Sera servono a indagare tutti questi dettagli, anche i più insignificanti, per poi offrirli al giudizio dei lettori. Il risultato è che questo libro può essere serenamente letto sia da chi possiede una ideologia di destra che di sinistra. Messina ha conosciuto molto bene il responsabile materiale dell’attentato, Rosario Bentivegna, perché nel 1997 scrisse un libro a sei mani con lui e Carlo Mazzantini, che fece molto scalpore, il titolo era: “C’eravamo tanto odiati”.
Ci si chiede ancora se la feroce decimazione nazista, di dieci italiani per ogni tedesco ucciso, fosse in qualche modo giustificata dalle convenzioni internazionali. In realtà non lo fu, perché la Convenzione dell’Aja del 1907 non prevedeva l’applicazione di una tale norma in tali circostanze, e si badi che questa fu l’opinione accettata e condivisa anche da vari generali della Wehrmacht, come Frido von Senger und Etterlin e il capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff.
I militari messi alla sbarra dopo la guerra, primo fra tutti Albert Kesselring, giustificarono la loro decisione scaricando tutta la responsabilità su di un primo Führerbefehl (un ordine diretto di Hitler al quale non si poteva disubbidire) nel quale si ordinava appunto la morte di dieci civili per ogni militare tedesco e di un secondo Führerbefehl con il quale si stabiliva che l’esecuzione del massacro doveva ricadere sulle SD, il servizio di sicurezza nazista. Di questi ordini di Hitler non si è mai trovata traccia, né pare che siano mai stati effettivamente impartiti. L’esecuzione dei civili fu, dunque, dovuta al fatto che quei generali persero la testa.
La mia personale opinione, supportata da quando pubblicato da Richard Reiber nel suo “Anatomy of Perjury”, Newark 2008, è che la Wehrmacht con Albert Kesselring scaricò il problema sulla SD, nella persona di Kappler, convincendolo che esistesse un preciso Führerbefehl affinché chiudessero il caso. Tutto ciò accadde proprio perché mancò l’uomo chiave, mancò il regista, ovvero Albert Kesselring, occupato altrove. Nelle sue auto-celebrative memorie “Soldat bis zum letzen Tag” e durante le fasi del processo per la strage delle Fosse Ardeatine, Kesserling sostenne sempre di non aver potuto intercedere per mitigare l’ordine di Hitler perché rientrato tardi da un’ispezione in prima linea a Cassino, un fatto sempre supportato da tutti gli ufficiali del suo stato maggiore.
In realtà non fu così e la loro menzogna, perché di questo si trattò, servì a non far finire Kesselring davanti a un plotone d’esecuzione. Quel plotone d’esecuzione davanti al quale finì il generale Anton Dostler a causa dell’uccisione di 15 soldati americani, per la gran parte di origine italiana, che facevano parte di un commando di guastatori in uniforme. Furono catturati il 24 marzo 1944 vicino a La Spezia e fucilati il 26 marzo nei pressi di Lerici. Quella operazione speciale era stata denominata Ginny e la loro missione era di far saltare una galleria ferroviaria. Ma per loro sventura esisteva anche qui un Führerbefehl segreto che stabiliva che tutti i commando nemici andavano fucilati, anche se vestivano l’uniforme e i gradi e non dovessero essere internati in campi di prigionia. Ma tale ordine era noto a pochi generali, uno fra questi fu certamente Albert Kesserling, che godeva della piena fiducia di Adolf Hitler.
Due settimane dopo l’esecuzione dei 15 americani Kesserling mandò un ordine nel quale si stabiliva che tutta la documentazione relativa a quel caso andava distrutta, fu così che a guerra finita, non riuscendo a rintracciare documenti e certi testimoni chiave per la difesa, il generale Dostler pagò con la propria vita un ordine ricevuto, per interposta persona, da Kesselring. Il processo a Dostler si tenne a Roma dall’8 al 12 ottobre 1945 e il suo interprete fu un giovane Albert O. Hirschman (1915 – 2012) destinato poi a diventare uno dei maggiori economisti americani contemporanei.
La presenza di Kesselring in Liguria e non al fronte di Cassino è stata dimostrata dal ritrovamento del libro di volo del suo pilota personale, Manfred Bäumler, nel quale si dimostra senza ombra di dubbio che Kesselring nel suo quartier generale di Monte Soratte giunse solo il 26 marzo 1944. Questo fu tardivamente confermato da Dietrich Beelitz nel 1997, l’ultimo sopravvissuto di quella banda di depistatori. Questa sua assenza spiega anche certi suoi buchi di memoria per quanto riguarda le Fosse Ardeatine; per esempio, in una deposizione da lui resa il 25 settembre 1946 egli mostra di ignorare che delle esecuzioni s’era occupata la SD!
Risulta dunque evidente che Albert Kesselring s’assunse la responsabilità di quanto accaduto alle Fosse Ardeatine perché aveva calcolato di potersela cavare, mentre se fosse risultato responsabile per l’ordine di fucilazione del commando Ginny sarebbe stato sicuramente messo davanti al plotone d’esecuzione che, ad Aversa, il 1° dicembre 1945 uccise il generale Anton Dostler.
Kesselring durante la sua prigionia a Londra – nella famosa “Gabbia” diretta dal colonnello Alexander Scotland – e poi in Italia, durante il processo, conquistò tutti con il suo comportamento da generale-gentiluomo, con la sua cortesia e la sua supposta lealtà che avevano affascinato anche Hitler. In realtà egli fu sempre un cinico nazista anche dopo la guerra. Fu un freddo e spietato calcolatore capace di far fucilare quegli ufficiali tedeschi che il 26 aprile 1945 avevano cercato di prendere il controllo di Monaco e consegnare la città agli americani. Cercò di far lo stesso con i suoi camerati italiani, Westphal e Karl Wolff, che in Svizzera negoziarono la resa dell’esercito tedesco (trattative di cui lui stesso era stato messo al corrente). L’ordine di fucilarli fu ritirato solo il 30 aprile, dopo la morte di Adolf Hitler.
Questo libro di Dino Messina diventerà un classico su questo argomento, perché non vuole provare alcuna tesi ma solo presentare dei fatti. Pensiamo che anche fra cent’anni, quando uno studente vorrà studiare tale argomento, dovrà leggere queste pagine.
La Finlandia è stata parte della Russia dal 1809 al 1917 e, grazie alla Rivoluzione d’Ottobre, riuscì a rendersi indipendente. Anche se non si è mai sentita tranquilla con l’orso russo alle porte.
La Finlandia affrontò in due fasi la Russia. Prima fu la Guerra d’Inverno e poi la Guerra di Continuazione. La loro guida militare fu il loro leggendario comandante, Carl Gustaf Mannerheim (1867-1951).
La Guerra d’Inverno (30 novembre 1939-12 marzo 1940) fu condotta dall’Unione Sovietica contro alla Finlandia, dopo la conclusione del Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, firmato il 23 agosto 1939 secondo il quale la Finlandia cadeva nella sfera d’influenza sovietica. Non passò molto tempo prima che l’Unione Sovietica si rivolgesse alla Finlandia, proponendo lo scambio di alcuni territori: “Nel nostro interesse nazionale vogliamo avere da voi alcuni territori e vi offriamo in cambio territori due volte più grandi, ma in aree meno cruciali”. Non era una cattiva proposta quella dei russi e certamente sbagliò il parlamento finlandese a rifiutare. Il risultato fu l’aggressione sovietica contro alla Finlandia e, anche se i finlandesi si batterono come dei leoni, l’Unione Sovietica vinse questa guerra e costrinse la Finlandia a cederle dei territori, circa il 10% dell’area finlandese.
Indro Montanelli venne mandato a Helsinki dal “Corriere della Sera” per coprire quel conflitto e l’aviazione italiana inviò dei caccia in appoggio alle forze finlandesi, che molto si distinsero. Gli articoli di Montanelli furono apprezzati anche in Finlandia e pare che nel 1943 Mannerheim intercesse con i tedeschi per la sua liberazione dal carcere di San Vittore.
Lo svolgimento della Guerra d’Inverno ricorda un po’ la guerra in Ucraina, alla quale stiamo assistendo oggi. Le truppe sovietiche, per un totale di circa un milione di uomini, attaccarono la Finlandia su vari fronti. I finlandesi opposero un’abile ed efficace difesa e l’Armata Rossa fece ben pochi progressi. Tuttavia, nel febbraio 1940, i sovietici utilizzarono massicciamente la loro artiglieria per sfondare la Linea Mannerheim (la barriera difensiva meridionale dei finlandesi che si estendeva attraverso l’Istmo di Carelia), dopodiché si diressero a nord attraverso l’istmo, fino alla città finlandese di Viipuri.
Non riuscendo a ottenere l’aiuto di Gran Bretagna e Francia, gli esausti finlandesi scelsero la pace, con il Trattato di Mosca, alle dure condizioni poste dai sovietici, il 12 marzo 1940. Accettarono la cessione della Carelia occidentale e la costruzione di una base navale sovietica nella penisola di Hanko.
Indignati da tali cessioni i finlandesi si avvicinarono alla Germania nazista, ma senza raggiungere un’alleanza formale. Dopo lo scoppio della guerra fra Germania e URSS, nel giugno 1941, la Finlandia permise alle truppe tedesche di transitare sul loro Paese e si unirono alla lotta contro i sovietici, iniziando quella che chiamano “Guerra di Continuazione”. Rioccuparono i territori persi nella Guerra d’Inverno ma le forze finlandesi non si fermarono sul vecchio confine, occuparono la Carelia orientale (sovietica) con il desiderio di annettersela.
Questo fu un nuovo grave errore, perché la Finlandia divenne un alleato della Germania nella sua guerra di aggressione contro l’Unione Sovietica, in violazione del diritto internazionale. Nutrivano una fiducia cieca nella Germania e, un po’ come Benito Mussolini, i leader finlandesi presero alcune decisioni molto discutibili, senza ascoltare gli avvertimenti degli Stati occidentali sulle possibili conseguenze negative. L’Operazione Barbarossa fu pianificata dai tedeschi come una guerra lampo destinata a durare solo poche settimane ma già dall’autunno del 1941 ciò si rivelò un calcolo sbagliato e i principali ufficiali militari finlandesi cominciarono a dubitare della capacità della Germania di terminare rapidamente la guerra. Le truppe tedesche nel nord della Finlandia si trovarono ad affrontare circostanze alle quali non erano adeguatamente preparate e non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi, soprattutto a Murmansk. Mentre le linee si stabilizzavano, la Finlandia inviò più volte segnali di pace all’Unione Sovietica.
La Germania ne fu allarmata e nel giugno 1942 Adolf Hitler fece una improvvisata a Mannerheim, nel giorno del suo compleanno, volando in Finlandia, dove il generale lo attese con il presidente Ryti. La vera ragione del suo viaggio era che sperava in una maggiore collaborazione da parte dei finlandesi, ma Mannerheim ebbe la conferma che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere i sovietici e, dunque, restò sul vago. Sta scritto sui libri scolastici finlandesi da cosa lo capì. Si dice che stavano seduti in un vagone ferroviario e Mannerheim accese un sigaro davanti al dittatore tedesco, un fatto che normalmente lo faceva infuriare ma Hitler se ne stette quieto, avvolto nella nuvola di tabacco. Questo lo convinse che i tedeschi erano disperati. Esiste una accidentale registrazione di Hitler al tavolo del vagone feroviario, nel quale dice che se avesse saputo che avevano tutti quei carri armati non li avrebbe mai invasi.
Nonostante il contributo della Finlandia alla causa tedesca, gli Alleati nutrivano sentimenti ambivalenti, combattuti tra la residua benevolenza nei loro confronti e la necessità di accontentare il loro alleato vitale, l’Unione Sovietica. Poiché la Finlandia aderì al Patto anti Comintern e firmò altri accordi con la Germania, l’Italia e il Giappone, gli Alleati la caratterizzarono come una delle Potenze dell’Asse, anche se il termine usato in Finlandia era “co-belligeranza con la Germania”, a sottolineare la mancanza di un’alleanza militare formale.
Dal 1942 al 1944 ci fu anche un battaglione di volontari delle Schutzstaffel (SS) sul fronte finlandese settentrionale, reclutati dalla Norvegia, allora sotto alla occupazione tedesca e, allo stesso modo, vi erano anche dei danesi. Vi parteciparono anche circa 3.400 volontari estoni. In altre occasioni i finlandesi ricevettero un totale di circa 2.100 prigionieri di guerra in cambio dei prigionieri di guerra sovietici consegnati ai tedeschi. Questi prigionieri di guerra erano principalmente estoni e careliani disposti a unirsi all’esercito finlandese. Questi, insieme ad alcuni volontari della Carelia orientale, formarono il Battaglione della Parentela (in finlandese Heimopataljoona). Alla fine della guerra, l’URSS chiese la consegna di questi membri del Battaglione Parentela. Alcuni riuscirono a fuggire prima o durante il trasporto, ma la maggior parte di loro fu inviata in Russia, dove vennero fucilati.
La Finlandia aveva una piccola popolazione ebraica (circa 2.300). Godevano di pieni diritti civili e combattevano con gli altri finlandesi nelle file dell’esercito finlandese. I tedeschi avevano menzionato gli ebrei finlandesi alla Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942, con l’intenzione di trasportarli a Majdanek. Il leader delle SS Heinrich Himmler menzionò gli ebrei finlandesi durante la sua visita in Finlandia nell’estate del 1942 assieme a Hitler. Il Primo Ministro finlandese Jukka Rangell rispose che la Finlandia non aveva una “questione ebraica”. Tuttavia, ci furono differenze per i rifugiati ebrei in Finlandia. Nel novembre 1942, i finlandesi consegnarono otto rifugiati ebrei alla Gestapo. Ciò sollevò le proteste dei ministri socialdemocratici finlandesi, e dopo questo evento non furono consegnati altri rifugiati.
La Guerra di Continuazione rappresenta l’unico caso di partecipazione di uno Stato democratico alla Seconda Guerra Mondiale al fianco delle potenze dell’Asse, pur senza essere firmatario del Patto Tripartito. Il Regno Unito dichiarò guerra alla Finlandia il 6 dicembre 1941 (giorno dell’indipendenza finlandese), mentre il Canada e la Nuova Zelanda dichiararono guerra alla Finlandia il 7 dicembre e l’Australia e il Sudafrica il giorno successivo. Gli Stati Uniti non dichiararono guerra alla Finlandia quando entrarono in guerra con i Paesi dell’Asse e, insieme al Regno Unito, si rivolsero al premier sovietico Giuseppe Stalin alla Conferenza di Teheran per riconoscere l’indipendenza finlandese. Tuttavia, il governo statunitense sequestrò le navi mercantili finlandesi nei porti americani e nell’estate del 1944 chiuse gli uffici diplomatici e commerciali finlandesi negli Stati Uniti a seguito del trattato del Presidente Ryti con la Germania per la fornitura di migliaia di armi anticarro.
La Finlandia iniziò a cercare attivamente una via d’uscita dalla guerra dopo la disastrosa sconfitta tedesca nella battaglia di Stalingrado del febbraio 1943. Edwin Linkomies formò un nuovo gabinetto con la pace come priorità assoluta. I negoziati furono condotti a intermittenza nel 1943-44 tra la Finlandia e il suo rappresentante, Juho Kusti Paasikivi, da una parte, e gli Alleati occidentali e l’Unione Sovietica dall’altra, ma non fu raggiunto alcun accordo.
Stalin decise di costringere la Finlandia alla resa e seguì una campagna di bombardamenti su Helsinki. La campagna aerea del febbraio 1944 comprendeva tre grandi attacchi aerei per un totale di oltre 6.000 sortite. Le difese antiaeree finlandesi riuscirono a respingere i raid e solo il 5% delle bombe sganciate colpì gli obiettivi previsti. La difesa aerea di Helsinki comprendeva il posizionamento strategico di fari e fuochi come esca all’esterno della città per attirare i bombardieri sovietici a sganciare i loro carichi in quelle che erano in realtà aree non popolate.
Il 9 giugno 1944, l’Unione Sovietica lanciò una grande offensiva contro le posizioni finlandesi sull’Istmo Careliano e nell’area del lago Ladoga. Sul segmento di sfondamento largo 21,7 km (13,5 miglia) l’Armata Rossa aveva concentrato 3.000 cannoni e mortai. In alcuni punti, la concentrazione di pezzi d’artiglieria superava i 200 cannoni per ogni chilometro di fronte (uno ogni 5 metri). Quel giorno, l’artiglieria sovietica sparò oltre 80.000 colpi lungo il fronte sull’Istmo Careliano. Con nuovi rifornimenti dalla Germania, l’esercito finlandese fermò l’avanzata sovietica all’inizio di luglio 1944. A questo punto, le forze finlandesi si erano ritirate di un centinaio di chilometri, portandosi all’incirca sulla stessa linea di difesa che avevano tenuto alla fine della Guerra d’Inverno. Questa linea era nota come linea VKT (abbreviazione di “Viipuri-Kuparsaari-Taipale”) e andava da Viborg al fiume Vuoksi fino al lago Ladoga a Taipale). Il fronte si stabilizzò nuovamente e l’ultima battaglia fu quella di Ilomantsi, una vittoria finlandese, dal 26 luglio al 13 agosto 1944. L’avanzata sovietica contro i Gruppi d’armate tedeschi del Centro e del Nord complicò ulteriormente le cose per la Finlandia.
All’inizio di agosto il presidente Ryti rassegnò le dimissioni per consentire alla Finlandia di chiedere nuovamente la pace, cosa che il nuovo governo fece a fine agosto. I termini di pace sovietici furono duri, ma le riparazioni di 600.000.000 di dollari richieste in primavera furono ridotte a 300.000.000 di dollari, molto probabilmente a causa delle pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La Germania perse la guerra e così la Finlandia. Ma grazie alle pressioni occidentali su Stalin, evitarono l’occupazione da parte dell’esercito sovietico e riuscirono, nel settembre 1944, a concludere un armistizio con l’Unione Sovietica. La Finlandia perse altri territori e fu soggetta a molti obblighi e restrizioni. Il trattato di Pace fu concluso a Parigi nel 1947, con l’accettazione della neutralità finlandese che è durata sino a oggi anche se, con la loro adesione alla Nato, le carte vengono nuovamente scompaginate.
Il Conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) fu Ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto di Savoia dal 1835 al 1847 ma fu poi cancellato dai gloriosi annali della storia risorgimentale e relegato in un angolino oscuro. Fu definito un reazionario, bigotto, contrario alla storia e un ottuso anti-Cavour.
La Gingko edizioni, una piccola casa editrice di Verona, ha ripubblicato un suo libro, intitolato “Questioni di Stato” uscito nel 1854, arricchita da una introduzione di Alessandre De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al ministero degli Esteri. Questo libro di Solaro della Margarita uscì al tempo dell’avventura in Crimea, con Francia e Gran Bretagna e da lui fortemente avversata.
Solaro, in 130 pagine e cinque punti, riassume ciò che avrebbero dovuti essere i capisaldi dello Stato Sabaudo, perché potesse continuare a esistere. Egli vide con chiarezza che la partita giocata da Cavour e dagli “italianissimi” (come sarcasticamente chiamava i patrioti italiani che volevano subito la guerra) fosse una partita assai azzardata. Lo stato dell’esercito e le finanze del Regno di Sardegna, a suo giudizio, precludevano uno scontro con una super potenza come l’Austro-Ungheria. Egli favoriva le vie diplomatiche, anche perché per sperare in un successo sul campo di battaglia avrebbe reso indispensabile l’intervento di una potenza straniera, come la Francia, che avrebbe poi inevitabilmente avanzato delle richieste territoriali e controllato la politica sarda.
Solaro fu licenziato dal suo Re dopo che decise di rompere gli indugi e passò alla guerra guadando il fiume Ticino. La follia delle decisioni prese da Carlo Alberto, privato del suo saggio Ministro degli Esteri, sono ormai a tutti manifeste. Basti guardare alla disfatta di Novara, inevitabile dopo che il Sovrano decise di affidare il proprio esercito a un mediocre generale polacco, più versato alla cartografia che nella guerra, inviso a tutti gli altri suoi generali, che neppure riuscivano a pronunciare il suo nome.
Alessandro De Pedys inquadra bene il personaggio e l’epoca: “Solaro guiderà la politica estera del Regno di Sardegna per quasi 13 anni, senza mai rinunciare ad agire sulla base delle sue convinzioni, spesso incurante delle conseguenze (i cattivi rapporti con la Spagna, ad esempio, avranno un costo economico rilevante per il Piemonte); il pensiero del monarca invece evolverà, come si è detto, e questa progressiva divergenza porterà Carlo Alberto alla decisione accettare le dimissioni del suo Ministro nel 1847. Tra i principali motivi di dissidio vi saranno l’ostilità del Re nei confronti dell’Austria e la consapevolezza del ruolo che la dinastia avrebbe potuto giocare nell’unificare almeno parte della penisola italiana, soddisfacendo in tal modo le secolari mire dei Savoia sulla Lombardia. Già nel 1832, dopo un solo anno di regno, Carlo Alberto scriveva nel suo diario: “De tous les côtés de l’Italie il nous revient que la haine contre les Autrichiens paraît se centupler et que les voeux de tous les honnêtes gens nous appellent; mais le temps de nous montrer n’est pas encore venu”.
L’editore ha inserito all’inizio del testo una celeberrima riflessione di Fëdor Dostoevskji, del 1877 e tratta dal suo Diario. Il grande scrittore russo pare della stessa idea del Solaro, espressa nelle “Questioni di Stato”.
Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della Nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!
Un documentario della BBC, presentato nel 2017, su Albert Goring coincise con l’ennesimo respingimento di una richiesta di nominarlo “Giusto d’Israele”, come Schindler e Perlasca. La proposta venne respinta dallo Yad Vashem, secondo cui non esisterebbe della documentazione sufficiente. La cosa non deve sorprenderci, dato che l’influenza salvifica di Albert era dovuta solo ed esclusivamente a suo fratello, Hermann.
Esce in questi giorni nelle librerie un testo storico che narra quelle vicende sorprendentemente sconosciute ai più, in Italia. Si tratta di “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle” di James Wyllie, un noto storico e produttore di programmi televisivi, per la BBC e Film4, di grande successo.
Il suo libro è stato finalmente pubblicato in Italia da Gingko Edizioni di Verona. In questa opera vengono narrate le vite parallele dei due fratelli Göring, che si differenziarono in tutto, a partire dall’aspetto, ma soprattutto nelle passioni politiche e nella visione della storia. Hermann contribuì alla morte di milioni di persone, mentre Albert salvò, mettendo a rischio la propria vita, migliaia di persone, soprattutto ebrei. Possiamo dire che Albert Göring fu uno Oscar Schindler elevato al cubo, e proprio come Schindler fu un incallito donnaiolo, con quattro divorzi alle spalle e un gran numero di amanti, infatti egli amava la bella vita, la tolleranza e praticava seriamente la religione cristiana.
Hermann Göring (1893-1946) fu, oltre che ministro dell’aeronautica della Germania, anche il numero due del regime nazista. Suo fratello, Albert (1895-1966) invece, odiò Hitler dalla prima volta che lo vide e poi lo disprezzò sino alla propria morte.
La Gestapo, alla fine, raccolse un corposo dossier contro Albert e ordinò il suo arresto, il 31 gennaio 1945, ma suo fratello, Hermann Göring, anche se la sua reputazione era ormai a pezzi agli occhi di Hitler, che accusava la Luftwaffe di avergli fatto perdere la guerra, riuscì nuovamente a salvarlo, ma gli disse che quella volta sarebbe stata l’ultimissima, perché aveva rischiato molto per tenerlo fuori dai guai. A causa del suo cognome, venne arrestato dagli Alleati e portato a Norimberga, per essere processato, ignorando tutte le voci che si levarono in sua difesa. Alla fine, Albert presentò una lista di 33 famiglie ebraiche che lui aveva salvato, fornendo i lasciapassare e finanziandoli. Dopo un anno, lo dovettero rilasciare, ma in seguito ebbe una vita molto difficile e visse in povertà sino alla fine.
Non parliamo qui del Felice Bellotti (1786-1858), traduttore di Camŏes e di Eschilo, un letterato che s’è meritato una via o una piazza in ogni città d’Italia. Parliamo del Felice Bellotti, giornalista e scrittore, del quale pressoché nulla sappiamo, neppure le date di nascita e di morte. Già prima della guerra scriveva su importanti giornali, come la Stampa e il Corriere della Sera, e dopo la guerra pubblicò libri di viaggio. Splendidamente scritti e che furono tradotti in varie lingue, andando attraverso molte ristampe. Alcuni sono ancora in catalogo, come il suo “Grande Nord. Oltre l’Estrema Tule”.
Un fatto curioso nei suoi libri è che nel risguardo delle copertine manca sempre il suo profilo biografico e una sua foto. Eppure, Felice Bellotti aveva pubblicato libri anche prima della guerra. Un testo di economia, a Genova, negli anni ’20, poi “XXVIII Ottobre, divisione d’assalto” nel 1937 e “Arabi contro Ebrei in Terrasanta” nel 1939.
Lessi un suo libro molti anni fa, che mi piacque moltissimo, “Formosa. Isola dai due volti” uscito nel 1958 e dedicato a Taiwan.
Svolgendo delle indagini in rete credo di essere riuscito a capire i motivi del suo “anonimato”. Egli ebbe molta fama durante l’epoca fascista e alla fine della guerra subì vari processi. Credo, inoltre, che abbia rischiato di fare la fine del suo amico e mentore, Giovanni Preziosi (1881-1945) che, a Milano, il 26 aprile 1945, braccato dai partigiani, saltò giù da un balcone, abbracciato alla moglie, Valeria.
Bellotti aveva aderito alla RSI ed era stato il direttore del mensile delle SS in Italia “Avanguardia”, sul quale avevano scritto anche Evola, Preziosi ed Ezra Pound e vi apparivano le splendide caricature di Gino Boccasile.
Dalla seconda metà del settembre 1943, Felice Bellotti e Cesare Rivelli trasmisero dei programmi italiani per Radio Monaco, ancor prima della proclamazione della Repubblica Sociale. Poiché Bellotti operò a Radio Monaco, ci pare plausibile ipotizzare che fosse presente all’arrivo di Mussolini in Germania. Ebbe anche un ruolo nella liberazione di Indro Montanelli dal carcere di San Vittore, dato che i due si erano conosciuti in Finlandia, al tempo della guerra contro alla Russia. Di queste vicende parla Renata Broggini nel suo “Passaggio in Svizzera. L’anno nascosto di Montanelli”. Riccardo Lazzeri sul settimanale “Il Domenicale” del 6 settembre 2003 scrisse: “Il maresciallo Graziani, su preghiera di Donna Ines, telefonò a Guido Buffarini-Guidi a Maderno, il quale diede il nullaosta per la liberazione di Montanelli al giornalista Felice Bellotti. Questi lo portò al questore Ulderico de Luca e fece liberare Montanelli dal carcere di San Vittore, portandolo a Garbagnate con un ordine fittizio di trasferimento in data 1° agosto 1944, da dove, accompagnato dal commissario Osteria della polizia politica, giungerà a Stabio, in Svizzera, il 14 dello stesso mese. Tutto questo sopra fu confermato dallo stesso Felice Bellotti, in un articolo comparso sul Roma di Napoli, nel dicembre 1959”.
Un libro di Felice Bellotti che meriterebbe una rilettura, perché dimostra che le sue informazioni erano di prima mano, forse per via della sua vicinanza a Preziosi, è “La Repubblica di Mussolini. 26 luglio 1943 – 25 aprile 1945” pubblicato a Milano nel mese di aprile del 1947, anche se il testo risulta completato a Selvino, in provincia di Bergamo, il 30 giugno 1946. Giovanni Preziosi veniva tenuto in grande considerazione da Adolf Hitler e aveva cercato, fra l’altro, di dissuadere Mussolini dal tenere il Gran Consiglio perché avrebbe costituito il “suicidio del Fascismo”.
Nel libro di Bellotti si trovano alcuni particolari poco conosciuti di quanto accadde durante gli anni della guerra. Una delle cose che più mi ha incuriosito è stata la rivelazione, fatta dal generale francese Gamelin, nel 1943 a Vichy, circa le ragioni dell’impreparazione bellica della Francia. Egli disse che aveva preparato un piano per contenere la Germania sulla linea Maginot e allo stesso tempo attaccare l’Italia. Il suo piano era chiamato “George” che entrò in fase operativa con ordini per cannoni, aerei e munizioni, passati ai produttori di armamenti. Gamelin dichiarò che, quando il 3 settembre 1939 iniziarono le ostilità contro alla Germania, si presentò al presidente della repubblica e al primo ministro, pretendendo una dichiarazione di guerra contro l’Italia, per lanciare una fulminea occupazione della valle del Po, data l’assoluta insufficienza delle difese italiane e anche perché il piano George era stato sviluppato proprio in funzione di quella azione. Con suo grande stupore vide Lebrun e Daladier tergiversare e poi gli dissero che non era possibile. Gamelin s’infuriò e finalmente, dopo che gli fecero giurare la massima segretezza, rivelarono perché non intendessero dichiarare guerra all’Italia.
Dissero a Gamelin che il 19 giugno 1939 s’era tenuta una riunione segreta a Lione, presente Galeazzo Ciano e un rappresentante della Gran Bretagna. Ciano garantì, in caso di dichiarazione di guerra fra la Germania e gli Alleati, che l’Italia, in un primo tempo, avrebbe dichiarato la non belligeranza, in un secondo, la neutralità e, alla fine, avrebbe dichiarato guerra contro alla Germania. Avrebbe tentato di ricusare gli impegni sottoscritti dall’Italia sfruttando la violazione della neutralità di Belgio e Olanda e la mancata concessione degli aiuti promessi dai tedeschi. Purtroppo, il crollo improvviso della Francia impedì l’attuazione di questo piano. Queste rivelazioni vennero segretate dai tedeschi, ma li convinsero, se già non l’avevano capito, che Ciano (e Mussolini) avevano tentato di sabotare in vari modi il Patto d’Acciaio e la Germania.
Esce in questi giorni nelle librerie un testo storico che all’estero vende bene da molti anni. Si tratta di “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle” di James Wyllie, un noto storico e produttore di programmi televisivi, per la BBC e Film4, di grande successo. Il suo libro è stato pubblicato in Italia da Gingko Edizioni di Verona.
In questo libro vengono narrate le vite parallele dei due fratelli Göring, che si differenziarono in tutto, a partire dall’aspetto, ma soprattutto nelle passioni politiche e nella visione della storia. Hermann contribuì alla morte di milioni di persone, mentre Albert salvò, mettendo a rischio la propria vita, migliaia di persone, soprattutto tanti ebrei. Possiamo dire che Albert Göring fu uno Oscar Schindler elevato al cubo, come Schindler fu un incallito donnaiolo, con quattro divorzi alle spalle e un gran numero di amanti, infatti egli amava la bella vita, la tolleranza e praticava seriamente la religione cristiana. Si tratta di un capitolo stranamente poco noto in Italia e che mostra come sia spesso difficile separare il bene dal male. Hermann Göring (1893-1946) fu, oltre che ministro dell’aeronautica della Germania, anche il numero due del regime nazista. Suo fratello, Albert (1895-1966) invece, odiò Hitler dalla prima volta che lo vide e poi lo disprezzò sino alla morte.
Albert si sottomise a Hermann, in quanto suo capofamiglia, ma passò quasi un decennio a lavorare contro il regime da lui sostenuto. Se fosse stato un comune cittadino tedesco, sarebbe stato imprigionato in un lager o fucilato nel giro di pochi giorni. Ma l’influenza del fratello lo protesse costantemente, mostrando che il Familismo era molto più forte del Nazismo, anche in quella strana famiglia tedesca. Nonostante le loro convinzioni estreme e diverse, Hermann tenne al riparo il fratello da tutte le accuse e i due rimasero vicini per tutta la durata della guerra. Nonostante il profondo divario nelle loro convinzioni politiche, ognuno credeva sinceramente che l’altro stesse facendo ciò che riteneva giusto fare.
La Gestapo, alla fine, raccolse un grosso dossier contro Albert e ordinò il suo arresto, il 31 gennaio 1945, ma suo fratello, Hermann Göring, la cui reputazione era ormai a pezzi agli occhi di Hitler, che accusava la Luftwaffe di avergli fatto perdere la guerra, riuscì nuovamente a salvarlo, ma gli disse che quella volta sarebbe stata l’ultimissima, perché aveva rischiato molto per tenerlo fuori.
Secondo Elsa Moravek, la cui famiglia doveva la vita ad Albert Göring, lui soleva ripetere: “Quello che la Gestapo sta facendo è vergognoso e tutti gli alberi della Germania non basteranno a nascondere i tedeschi coinvolti”. Jacques Benbassat, anche lui salvato da Albert assieme alla propria famiglia, disse che il suo comportamento poteva riassumersi in una scenetta alla quale lui aveva assistito, da bambino: “Una sera, a Bucarest, Albert stava suonando il pianoforte e cantando un’aria viennese insieme a mio padre. Dall’altra parte della strada qualcuno continuò la canzone in tedesco. Così, Albert andò alla finestra e vide che sul balcone di fronte a casa nostra si trovavano due ufficiali tedeschi. Scambiarono alcune parole e poi i tedeschi gli chiesero ‘Chi sei? Come ti chiami?’. Lui rispose, sono Albert Göring. Loro chiesero: ‘Sei imparentato?’ per cui lui rispose: ‘Sì, è mio fratello’. Quei due scattarono sull’attenti e lo salutarono con un: Heil Hitler! Al che Albert alzò il calice e gli disse: ‘Baciatemi il culo”.
A causa del suo cognome, venne arrestato dagli Alleati e portato a Norimberga, per essere processato, ignorando tutte le voci che si levarono in sua difesa. Alla fine, Albert presentò una lista di 33 famiglie ebraiche che lui aveva salvato, fornendo i lasciapassare e finanziandoli. Dopo un anno, lo dovettero rilasciare, con tante scuse. Un documentario della BBC, presentato nel 2017, ha coinciso con il respingimento di una richiesta di nominarlo “Giusto d’Israele”, come Schindler o Perlasca. La proposta venne respinta dallo Yad Vashem, secondo cui non esisterebbe della documentazione sufficiente. La cosa non deve sorprenderci, dato che l’influenza salvifica di Albert era dovuta solo ed esclusivamente a suo fratello, Hermann.
Ogni 28 aprile ci fa tornare in mente i corpi straziati dei fascisti appesi a testa in giù a Piazzale Loreto. Di tanto in tanto questa immagine riappare, a volte applicata anche ai nostri attuali governanti, come monito e insulto. Accennando a Clara o Claretta Petacci, si è giustamente detto che, al di là della satira, si dovrebbe aver rispetto per una donna uccisa a 33 anni per via del suo amore per un uomo, un tempo potente e adulato e poi abbandonato da tutti.
Si è anche detto che la Petacci fu stuprata dai partigiani, ma davvero accadde questo? Storicamente è difficile ricostruire tutti i passaggi di quanto veramente accadde a Giulino di Mezzegra e a Dongo. Con il passare del tempo s’è creato un intricato groviglio di bugie e di mezze verità, che sviano anche gli storici più precisi e spassionati. Lo storico Arrigo Petacco disse che l’unica cosa certa è che Mussolini fu accoppato e tutto il resto è soggetto a discussione: da chi, dove, come?
Certi partigiani presenti a Dongo erano effettivamente capaci di violentare le proprie prigioniere, come scoprì a proprie spese la moglie di Marcello Petacci, pure lui barbaramente assassinato a Dongo, solo perché scambiato per Vittorio Mussolini. Zita Ritossa, sua moglie, era stata una fotomodella e il maggiore dei loro due bambini, Benvenuto Petacci, assistendo alla morte del padre e alle violenze (sessuali) subite dalla madre, sviluppò in seguito dei gravi problemi psichici.
I maggiori capi politici dell’insurrezione erano contrari all’esposizione dei cadaveri a Piazzale Loreto. Pare che il solo Emilio Sereni la reputasse una cosa naturale, si dice che rispose all’indignato governatore militare di Milano, l’italo-americano Charles Poletti: “La storia è fatta così. Alcuni devono non solo morire, ma morire vergognosamente!”
Diversamente la pensava Sandro Pertini, che proruppe con un: “Avete visto? L’insurrezione è disonorata!” Ferruccio Parri, sconsolato, affermò: “Questa esibizione di macelleria messicana è terribile e indegna: nuocerà al movimento partigiano per gli anni a venire!”.
Quando fu appesa per i piedi alla pensilina di un distributore di benzina, a Piazzale Loreto, la gonna di Clara Petacci cadde giù, mostrando la sua vagina. Fu don Pollarolo, cappellano dei partigiani, a prendere l’iniziativa di fissare la gonna con una spilla da balia che gli diede una donna. Questa soluzione si rivelò inefficace, intervennero allora dei pompieri che, con una corda, legarono la gonna intorno alle sue gambe.
Questa storia della Petacci nuda a testa in giù creò molto scalpore e, forse per questo motivo, nella versione dattiloscritta dei fatti di Dongo, scritta successivamente da Walter Audisio, egli inserisce il particolare delle mutandine mancanti della Petacci, in quella che diverrà la versione ufficiale data dal PCI.
Audisio disse che quando prelevò Clara nella camera di casa dei De Maria a Giulino di Mezzegra, la mattina del 28 aprile, per essere portata con Mussolini sul luogo della fucilazione, lei gli disse: “Non trovo le mutandine” al che lui le disse: “Tira via, non pensarci!”.
Un dettaglio che in una relazione storica normale non sarebbe mai apparso, essendo di poco conto ma che, evidentemente, andava inserito per spiegare quanto s’era visto a Piazzale Loreto. Ovvero, un po’ come dire che ‘non siamo stati noi a toglierle…’. Perché allora era senza mutandine? Forse aveva avuto le mestruazioni e se ne era liberata? O come suggerirono altri “il porco Mussolini passò la sua ultima notte facendo sesso con la sua amante”, nonostante i partigiani armati fuori dalla porta?
L’unica fonte che parla dello stupro di Clara Petacci, molti anni dopo i fatti, è ascrivibile a Enrico Grossi, che raccolse le confidenze del professor Caio Mario Cattabeni, il medico legale che il 30 aprile 1945, all’Istituto di medicina legale di Milano, ricevette i corpi martoriati di Clara e di Mussolini, per effettuare l’autopsia.
Grossi conosceva bene il dottor Cattabeni, che redasse un verbale dell’autopsia e, alcuni mesi dopo, vergò una memoria dell’indagine necroscopica per una rivista medica. A parte ciò, egli mantenne poi un totale riserbo sulle impressioni ricavate in quella storica e per lui difficilissima giornata.
Enrico Grossi aveva conosciuto il Prof. Cattabeni nel 1970, poi lo incontrò casualmente durante un viaggio in treno. Affrontò con lui l’argomento e, stando al Grossi, il professore sganciò una bomba: «Mi raccontò che, terminata l’autopsia del Duce, iniziarono a compiere quella sulla Petacci. Il corpo di Claretta presentava varie ecchimosi sul ventre e segni di graffiature sulle cosce, nella parte interna ma anche nella parte posteriore. Com’è noto, a Piazzale Loreto, la Petacci non indossava le mutandine. Tolsero il corpo della donna, che già mostrava la rigidità cadaverica, da una specie di cassa grezza dove era deposto e lo adagiarono su un telo. Dalla sua vagina fuoruscì un liquido sieroso misto a sangue e anche dell’altro liquido che a lui parve liquido seminale. Quando deposero il corpo sul tavolo, l’abbondante fuoruscita di liquido non s’interruppe’”. Prosegue il Grossi: “A quel punto – mi confidò Cattabeni – ho ricevuto l’ordine tassativo di soprassedere all’autopsia” e la donna fu rimessa nella cassa e sepolta così com’era. Tant’è che anni dopo, quando venne riesumato il suo cadavere, nel suo reggiseno, che ancora indossava, rinvennero un grosso diamante che s’era fatto cucire dentro, come avevano fatto la zarina e le sue figlie a Ekaterinburg, in Russia.
Ci pare strano che a distanza di 3 giorni il liquido seminale e il sangue fossero ancora fluidi e, forse, si trattava di resti di mestruazioni, oppure di linfa e dell’inizio della decomposizione. Esiste un’ultima ipotesi, che non è mai stata contemplata prima: dei rapporti sessuali sul cadavere a Dongo, oppure sul camion della Tinto Stamperia Pessina, che trasportava quei corpi sino a Milano, o addirittura dopo l’esposizione di Piazzale Loreto, ma questa è una possibilità remota.
In conclusione, credo che Clara Petacci non fu violentata, perché mancò il tempo e l’incalzare degli eventi fu vorticoso. Da varie fonti, ma in particolare dalla vicina di casa dei De Maria, Dorina Mazzola, intervistata da Giorgio Pisanò, sappiamo che nel giro di 8 ore si ebbero ben 12 scariche di fucileria e pistolettate, con un gran via vai di persone che entravano e uscivano da quella casa.
Francisco Franco, al secolo Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco Bahamonde, soprannome El Caudillo (“Il Capo”), era nato il 4 dicembre 1892 a El Ferrol, Spagna – morì il 20 novembre 1975 a Madrid. Fu un abile generale e un leader delle forze nazionaliste che rovesciarono la Repubblica, nella Guerra civile spagnola (1936-39); in seguito fu capo del governo della Spagna fino al 1973 e capo di Stato fino alla sua morte nel 1975.
Franco nacque nella città costiera e centro navale di El Ferrol, in Galizia (Spagna nord-occidentale). La sua vita familiare non fu del tutto felice, poiché suo padre, ufficiale del Corpo amministrativo navale spagnolo, fu un uomo eccentrico e sprecone. Più disciplinato e serio di altri ragazzi della sua età, Franco era molto legato a sua madre, una cattolica romana dell’alta borghesia, pia e conservatrice. Come quattro generazioni e il fratello maggiore prima di lui, Franco era stato inizialmente destinato alla carriera di ufficiale di marina, ma la riduzione delle ammissioni all’Accademia Navale lo costrinsero a scegliere l’esercito. Nel 1907, a soli 14 anni, entrò nell’Accademia di Fanteria di Toledo, diplomandosi tre anni dopo.
Franco si offrì volontario per il servizio attivo nelle campagne coloniali nel Marocco spagnolo, iniziate nel 1909, e vi fu trasferito nel 1912 all’età di 19 anni. L’anno successivo fu promosso primo tenente in un reggimento d’élite di cavalleria nativa marocchina. In un’epoca in cui molti ufficiali spagnoli erano caratterizzati da sciatteria e mancanza di professionalità, il giovane Franco dimostrò subito la sua capacità di comandare le truppe in modo efficace e si guadagnò presto una reputazione di completa dedizione professionale. Dedicò grande cura alla preparazione delle azioni della sua unità e prestò più attenzione di quanto fosse comune al benessere delle truppe. Reputato scrupolosamente onesto, introverso e con un numero relativamente basso di amici intimi, era noto per rifuggire da ogni divertimento frivolo. Nel 1915 divenne il più giovane capitano dell’esercito spagnolo. L’anno successivo fu gravemente ferito da una pallottola nell’addome e tornò in Spagna per riprendersi. Nel 1920 fu scelto come comandante in seconda della Legione Straniera Spagnola, appena organizzata, per poi passare al comando completo nel 1923. In quell’anno sposò anche Carmen Polo, dalla quale ebbe una figlia. Durante le campagne cruciali contro i ribelli marocchini, la legione giocò un ruolo decisivo nel porre fine alla rivolta. Franco divenne un eroe nazionale e nel 1926, all’età di 33 anni, fu promosso generale di brigata. All’inizio del 1928 fu nominato direttore dell’Accademia Militare Generale di Saragozza, appena organizzata.
Dopo la caduta della monarchia, nel 1931, i leader della nuova Repubblica spagnola intrapresero un’importante e necessaria riforma militare e la carriera di Franco subì una temporanea battuta d’arresto. L’Accademia Militare Generale fu sciolta e Franco fu inserito nella lista degli inattivi. Nonostante fosse un monarchico dichiarato e avesse l’onore di essere un gentiluomo di camera del re, Franco accettò sia il nuovo regime che la sua temporanea retrocessione con perfetta disciplina. Quando le forze conservatrici ottennero il controllo della Repubblica nel 1933, Franco fu ripristinato al comando attivo; nel 1934 fu promosso maggior generale. Nell’ottobre 1934, durante una sanguinosa rivolta dei minatori delle Asturie che si opponevano all’ammissione di tre membri conservatori al governo, Franco fu chiamato a sedare la rivolta. Il successo in questa operazione gli procurò una nuova ribalta. Nel maggio 1935 fu nominato capo dello Stato Maggiore dell’esercito spagnolo e iniziò a rafforzare la disciplina e le istituzioni militari, pur lasciando in vigore molte delle riforme precedenti.
In seguito a una serie di scandali che indebolirono i Radicali, uno dei partiti della coalizione di governo, il Parlamento fu sciolto e furono indette nuove elezioni per il febbraio 1936. A questo punto i partiti politici spagnoli si erano divisi in due fazioni: il Blocco Nazionale di destra e il Fronte Popolare di sinistra. La sinistra vinse le elezioni, ma il nuovo governo non fu in grado di impedire l’accelerazione della dissoluzione della struttura sociale ed economica della Spagna. Sebbene Franco non fosse mai stato membro di un partito politico, la crescente anarchia lo spinse a chiedere al governo di dichiarare lo stato di emergenza. Il suo appello fu respinto, ed egli fu rimosso dallo stato maggiore e inviato a un oscuro comando nelle Isole Canarie. Per qualche tempo rifiutò di impegnarsi in una cospirazione militare contro il governo, ma, con la disintegrazione del sistema politico, decise infine di unirsi ai ribelli.
All’alba del 18 luglio 1936, il manifesto di Franco che acclama la ribellione militare viene trasmesso dalle Isole Canarie e la mattina stessa inizia l’insurrezione sul Continente. Il giorno seguente volò in Marocco e nel giro di 24 ore aveva saldamente il controllo del protettorato e dell’esercito spagnolo che lo presidiava. Dopo lo sbarco in Spagna, Franco e il suo esercito marciarono verso Madrid, che era tenuta dal governo. Quando l’avanzata nazionalista si arrestò alla periferia della città, i capi militari, in preparazione di quello che credevano fosse l’assalto finale che avrebbe consegnato Madrid e il Paese nelle loro mani, decisero di scegliere un comandante in capo, o generalissimo, che avrebbe anche guidato il governo nazionalista ribelle in opposizione alla Repubblica. Per le sue capacità militari e il suo prestigio, per il suo curriculum politico non inficiato da politiche settarie e cospirazioni e per la sua comprovata capacità di ottenere assistenza militare dalla Germania di Adolf Hitler e dall’Italia di Benito Mussolini, Franco era la scelta più ovvia. Anche perché non era un tipico “generale politico” spagnolo, Franco divenne capo di Stato del nuovo regime nazionalista il 1° ottobre 1936.
Ecco qui il suo discorso alla nazione spagnola, letto alla radio:
Discorso del Generale Franco Trasmesso il 1° ottobre 1936, all’assunzione dei poteri di Capo dello Stato
Saluti a voi tutti, che ascoltate dalle vostre case le notizie sulla guerra, o dal fronte, pensando alle vostre case, o dall’Area Rossa, aspettando l’arrivo delle nostre truppe, o oltre i nostri confini, seguendo le nostre sorti con ansia – saluti dal microfono di Radio Castiglia!
Non parlerò della guerra, poiché gli obblighi di stato che sto assumendo rendono necessario che io vi parli del lavoro che ci aspetta. Non abbiamo bisogno di discutere di un’utopia, e nemmeno di suddividere i successi delle nostre speranze in rigide tappe. In ogni caso, per parlare delle nostre intenzioni è necessario prima esaminare brevemente il passato, sia per trarre vantaggio dalla nostra esperienza, sia per implementare le nostre decisioni in modo utile.
La Spagna, il cui nome invoco con tutta la devozione della mia anima, ha sofferto per molti anni di molti mali, non il meno pernicioso di essi è stata l’influenza di intellettuali squilibrati, che hanno provato a diminuire il prestigio dei pensatori della nostra nazione, e hanno guardato oltre le nostre frontiere per portare in Spagna ogni sorta di idee esotiche e distruttive che hanno avuto origine in altri paesi. Letteratura demoralizzante, dottrine demagogiche, amaro razzismo, l’infiltrazione di idee disfattiste, e la perversione della storia – tutto questo e molto di più è servito a scuotere le fondamenta del nostro patriottismo, così da perdere le principali caratteristiche del nostro popolo, da vergognarci del nostro presente, da dimenticare il nostro passato e avere paura del nostro futuro.
Avendo raggiunto il tracollo morale, non fu difficile per queste persone preparare il paese all’accoppiamento, e venderlo al miglior offerente straniero. Il nostro commercio ha iniziato a mostrare debito invece di credito di bilancio, e i frutti della nostra terra sono stati trattati come se fossero quelli di qualche colonia conquistata, mentre uno pseudo-pacifismo fu incoraggiato, in modo da indebolire il braccio armato di qualsiasi liberatore. Falsi profeti sono emersi, i quali mentre tessevano l’odio e la lotta di classe, promettevano la terra ai contadini, la dittatura agli operai e l’autonomia alle nostre Province. In modo estremamente cinico, queste persone, hanno acquisito potere, prendendosi la terra del contadino, la libertà dell’operaio, e tutta la speranza di una flessibilità autonoma dalle Province.
E ora la nostra Nuova Spagna, tenendo conto della grandezza del suo compito, prosegue verso la sua liberazione, determinata a mostrare, in uno spirito di collaborazione sociale, che la restaurazione della legge e dell’ordine è la condizione primaria e il percorso sicuro verso la libertà, i cui benefici seguiranno tutto il suo popolo, all’interno e all’esterno dei confini della madre patria.
La Spagna si sta organizzando largamente sotto un concetto totalitario, nel quale le sue istituzioni natie assicureranno la sua nazionalità, unità e continuità. L’applicazione di queste nuove misure di autorità non significa che il nostro regime sarà esclusivamente di carattere militare; al contrario il nostro sistema stabilirà un regime gerarchico nel quale tutte le capacità e le energie del paese troveranno la propria espressione.
La personalità delle Province della Spagna deve essere rispettata, in conformità con l’antica tradizione nazionale al tempo del nostro più grande splendore; sempre che questo contribuisca all’unità nazionale. La municipalità spagnola riassumerà la sua importanza storica, in modo che essa svolga le sue antiche funzioni in qualità di unità nella nostra vita pubblica.
Una volta abolito il suffragio universale, con i suoi effetti disastrosi locali e nazionali, e le sue oppressioni attraverso le unioni e gli interessi politici, dovremmo vedere che la volontà della Nazione si esprima attraverso quegli organi tecnici e corporativi nei quali i bisogni e gli ideali del paese vengono sviluppati al meglio. Mentre la forza del nuovo Stato spagnolo cresce, così sarà raggiunta la decentralizzazione, cosicché i distretti, i municipi, le associazioni e gli individui godranno della più ampia libertà possibile nei limiti dei supremi interessi dello Stato.
Nel suo aspetto sociale, il lavoro riceverà una garanzia assoluta che non sarà schiavo del capitalismo, sempre che non adotti quei metodi combattivi e aspri che rendono la mutua collaborazione impossibile. Il lavoratore è degno del suo impiego: non solo verrà istituita la sicurezza dei salari, ma tutti gli anticipi sui salari finora garantiti verranno mantenuti. Con i diritti del lavoratore così riconosciuti, si farà carico delle sue responsabilità per la leale cooperazione con gli elementi che creano ricchezza nazionale. Tutti gli spagnoli saranno obbligati a lavorare secondo le loro capacità. Il nuovo Stato non può ammettere alcun parassita.
Lo Stato darà alla Chiesa Cattolica i suoi dovuti diritti e privilegi, perciò rispettando la nostra tradizione, e la fede della grande maggioranza del popolo spagnolo; ma lo Stato non ammetterà l’intrusione di qualsiasi potere esterno nelle specifiche funzioni di Governo. Per quanto riguarda le entrate, lo Stato organizzerà la giusta distribuzione delle tasse, in modo che il loro fardello ricada sulle spalle più adatte a sopportarlo.
Per quanto riguarda l’agricoltura, le aziende familiari saranno realizzate stabilendo il coltivatore sulla terra, non da qualche ipotetico sistema di proprietà ma da aiuto costante e diretto, il cui scopo sarà fornire al contadino la sua indipendenza. Una caratteristica permanente del nostro lavoro sarà diretta a questo fine. Il lavoratore agricolo dovrà ricevere una parte di ciò che la città assorbe oggi come pagamento per i suoi servizi commerciali e clericali.
Per quanto riguarda gli affari internazionali, ci auguriamo di vivere in armonia con tutti i popoli, aprendo ad un vasto orizzonte di amicizia con tutto il mondo. A questo vi è una eccezione enfatica: non avremo nessun contatto con l’Unione dei Socialisti delle Repubbliche Sovietiche, la cui politica ha avuto risultati così disastrosi per l’umanità e la civiltà.
Sono sicuro che questa terra di eroi e martiri, nell’affrontare le sue difficoltà, scriverà ancora un’altra pagina di storia gloriosa, e troverà una soluzione che non deriverà né dall’est né dall’ovest, ma sarà genuinamente Spagnola.
Spagnoli, lunga vita alla Spagna!
Francisco Franco
Il governo ribelle, tuttavia, non ottenne il controllo completo del Paese per più di tre anni.
Franco presiedeva un governo che era fondamentalmente una dittatura militare, ma si rese conto che aveva bisogno di una struttura civile regolare per ampliare il suo sostegno, che doveva provenire principalmente dalle classi medie antileftiste. Il 19 aprile 1937 fondò la Falange (il partito fascista spagnolo) con i carlisti e creò il movimento politico ufficiale del regime ribelle. Pur ampliando la Falange in un gruppo più pluralista, Franco chiarì che era il governo a usare il partito e non il contrario. Il suo regime divenne così un sistema autoritario istituzionalizzato, che si differenziava in questo senso dai partiti-stato fascisti dei modelli tedesco e italiano.
Come comandante in capo durante la guerra civile, Franco fu un leader attento e sistematico. Non fece mosse avventate e subì solo poche sconfitte temporanee mentre le sue forze avanzavano lentamente ma costantemente; l’unica critica importante rivoltagli durante la campagna fu che la sua strategia era spesso priva di immaginazione. Tuttavia, grazie alla qualità militare relativamente superiore del suo esercito e alla continua assistenza tedesca e italiana, Franco ottenne una vittoria completa e incondizionata il 1° aprile 1939.
La guerra civile era stata in gran parte una sanguinosa lotta di logoramento, segnata da atrocità da entrambe le parti. Le decine di migliaia di esecuzioni compiute dal regime nazionalista, che continuarono nei primi anni dopo la fine della guerra, valsero a Franco più rimproveri di qualsiasi altro aspetto del suo governo.
Sebbene Franco avesse la visione di ripristinare la grandezza spagnola dopo la guerra civile, in realtà era il leader di un Paese esausto, ancora diviso al suo interno e impoverito da una guerra lunga e costosa. La stabilità del suo governo fu resa più precaria dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, solo cinque mesi dopo. Nonostante la sua simpatia per il “Nuovo Ordine” delle potenze dell’Asse, Franco dichiarò inizialmente la neutralità spagnola nel conflitto. La sua politica cambiò dopo la caduta della Francia, nel giugno 1940, quando si avvicinò al leader tedesco Hitler, che voleva coinvolgere la Spagna nel conflitto; Franco si dichiarò disposto a far entrare la Spagna in guerra al fianco della Germania in cambio di un’ampia assistenza militare ed economica tedesca e della cessione alla Spagna della maggior parte delle proprietà territoriali francesi nell’Africa nord-occidentale.
Le richieste di Franco furono volutamente astronomiche (si dice su consiglio di Canaris) e il materiale richiesto la Germania non lo possedeva. Hitler non fu in grado o non volle accettare questo prezzo e, dopo un incontro con Franco a Hendaye, in Francia, nell’ottobre 1940, Hitler osservò che si sarebbe “fatto strappare tre o quattro denti” piuttosto che affrontare un’altra sessione di contrattazione come quella. Il governo di Franco rimase d’ora in poi relativamente comprensivo nei confronti delle potenze dell’Asse, pur evitando accuratamente qualsiasi impegno diplomatico e militare diretto nei loro confronti. Il ritorno della Spagna a uno stato di completa neutralità nel 1943 arrivò troppo tardi per ottenere un trattamento favorevole da parte degli Alleati in ascesa. Tuttavia, la diplomazia di guerra di Franco, caratterizzata da un freddo realismo e da un’attenta tempistica, aveva evitato che il suo regime venisse distrutto insieme alle potenze dell’Asse.
Il periodo più difficile del regime di Franco iniziò all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, quando il suo governo fu ostracizzato dalle Nazioni Unite appena costituite. Fu etichettato dall’opinione pubblica straniera ostile come “l’ultimo dittatore fascista sopravvissuto” e per un certo periodo sembrò essere il più odiato dei capi di Stato occidentali; all’interno del suo Paese, tuttavia, tante persone lo sostenevano quante lo osteggiavano. Il periodo di ostracismo si concluse infine con il peggioramento delle relazioni tra il mondo sovietico e l’Occidente all’apice della Guerra Fredda. Franco poteva ora essere considerato uno dei principali statisti anticomunisti del mondo e le relazioni con gli altri Paesi iniziarono a regolarizzarsi nel 1948. La sua riabilitazione internazionale fu ulteriormente favorita nel 1953, quando la Spagna firmò un patto di assistenza militare decennale con gli Stati Uniti, che fu poi rinnovato in forma più limitata.
Le politiche interne di Franco divennero in qualche modo più liberali durante gli anni Cinquanta e Sessanta e la continuità del suo regime, insieme alla sua capacità di evoluzione creativa, gli valsero almeno un limitato grado di rispetto da parte di alcuni dei suoi critici. Franco disse di non trovare particolarmente gravoso il peso del governo e, di fatto, il suo governo fu caratterizzato da un’assoluta sicurezza di sé e da una relativa indifferenza alle critiche. Dimostrò una spiccata abilità politica nel valutare la psicologia dei diversi elementi, dai liberali moderati ai reazionari estremi, il cui sostegno era necessario per la sopravvivenza del suo regime. Mantenne un attento equilibrio tra di loro e lasciò in gran parte l’esecuzione della politica ai suoi incaricati, ponendosi così come arbitro al di sopra della tempesta del conflitto politico ordinario. In misura considerevole, il biasimo per gli aspetti fallimentari o impopolari della politica tendeva a ricadere sui singoli ministri piuttosto che su Franco. Il partito di Stato Falange, declassato all’inizio degli anni Quaranta, negli anni successivi divenne noto semplicemente come “Movimento” e perse gran parte della sua originaria identità quasi fascista.
A differenza della maggior parte dei governanti dei regimi autoritari di destra, Franco garantì la continuità del suo governo dopo la sua morte attraverso un referendum ufficiale nel 1947 che rese lo Stato spagnolo una monarchia e ratificò i poteri di Franco come una sorta di reggente a vita. Nel 1967 aprì le elezioni dirette per una piccola minoranza di deputati al parlamento e nel 1969 designò ufficialmente l’allora 32enne principe Juan Carlos, figlio maggiore del pretendente nominale al trono spagnolo, come suo successore ufficiale alla sua morte. Franco si dimise dalla carica di premier nel 1973, ma mantenne le sue funzioni di capo di Stato, comandante in capo delle forze armate e capo del “Movimento”.
Franco non è mai stato un governante popolare e raramente ha cercato di mobilitare il sostegno delle masse, ma dopo il 1947 c’è stata poca opposizione diretta o organizzata al suo governo. Con la liberalizzazione del suo governo e l’allentamento di alcuni poteri di polizia, insieme al notevole sviluppo economico del Paese durante gli anni Sessanta, l’immagine di Franco cambiò da quella del rigoroso generalissimo a quella di un più benevolo anziano statista civile. La salute di Franco declinò notevolmente alla fine degli anni Sessanta, ma egli si disse convinto di aver lasciato gli affari della Spagna “legati e ben legati” e che dopo la sua morte il principe Juan Carlos avrebbe mantenuto almeno la struttura di base del suo regime. Dopo la morte di Franco, avvenuta nel 1975 in seguito a una lunga malattia, il suo corpo fu inumato nella Valle dei Caduti, un enorme mausoleo a nord-ovest di Madrid che ospita i resti di decine di migliaia di caduti di entrambe le parti della guerra civile spagnola. Quasi immediatamente, Juan Carlos si mosse per smantellare le istituzioni autoritarie del sistema di Franco e incoraggiò la rinascita dei partiti politici. La Spagna aveva compiuto grandi progressi economici durante gli ultimi due decenni di governo di Franco e, entro tre anni dalla sua morte, il Paese era diventato una monarchia costituzionale democratica, con un’economia prospera e istituzioni democratiche simili a quelle del resto dell’Europa occidentale.
Nel 2019 il corpo di Franco è stato riesumato e sepolto in una cripta di famiglia vicino a El Pardo, il palazzo fuori Madrid che era servito come residenza ufficiale per tutto il suo regno.
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