Perché ci si stupisce dell’invio di truppe russe al confine della Finlandia, dopo la sua adesione alla NATO?

Perché ci si stupisce dell’invio di truppe russe al confine della Finlandia, dopo la sua adesione alla NATO?

Hitler e Mannerheim nel 1942

La Finlandia è stata parte della Russia dal 1809 al 1917 e, grazie alla Rivoluzione d’Ottobre, riuscì a rendersi indipendente. Anche se non si è mai sentita tranquilla con l’orso russo alle porte.

La Finlandia affrontò in due fasi la Russia. Prima fu la Guerra d’Inverno e poi la Guerra di Continuazione. La loro guida militare fu il loro leggendario comandante, Carl Gustaf Mannerheim (1867-1951).

La Guerra d’Inverno (30 novembre 1939-12 marzo 1940) fu condotta dall’Unione Sovietica contro alla Finlandia, dopo la conclusione del Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, firmato il 23 agosto 1939 secondo il quale la Finlandia cadeva nella sfera d’influenza sovietica. Non passò molto tempo prima che l’Unione Sovietica si rivolgesse alla Finlandia, proponendo lo scambio di alcuni territori: “Nel nostro interesse nazionale vogliamo avere da voi alcuni territori e vi offriamo in cambio territori due volte più grandi, ma in aree meno cruciali”. Non era una cattiva proposta quella dei russi e certamente sbagliò il parlamento finlandese a rifiutare. Il risultato fu l’aggressione sovietica contro alla Finlandia e, anche se i finlandesi si batterono come dei leoni, l’Unione Sovietica vinse questa guerra e costrinse la Finlandia a cederle dei territori, circa il 10% dell’area finlandese.

Indro Montanelli venne mandato a Helsinki dal “Corriere della Sera” per coprire quel conflitto e l’aviazione italiana inviò dei caccia in appoggio alle forze finlandesi, che molto si distinsero. Gli articoli di Montanelli furono  apprezzati anche in Finlandia e pare che nel 1943 Mannerheim intercesse con i tedeschi per la sua liberazione dal carcere di San Vittore.

Lo svolgimento della Guerra d’Inverno ricorda un po’ la guerra in Ucraina, alla quale stiamo assistendo oggi. Le truppe sovietiche, per un totale di circa un milione di uomini, attaccarono la Finlandia su vari fronti. I finlandesi opposero un’abile ed efficace difesa e l’Armata Rossa fece ben pochi progressi.  Tuttavia, nel febbraio 1940, i sovietici utilizzarono massicciamente la loro artiglieria per sfondare la Linea Mannerheim (la barriera difensiva meridionale dei finlandesi che si estendeva attraverso l’Istmo di Carelia), dopodiché si diressero a nord attraverso l’istmo, fino alla città finlandese di Viipuri.

Non riuscendo a ottenere l’aiuto di Gran Bretagna e Francia, gli esausti finlandesi scelsero la pace, con il Trattato di Mosca, alle dure condizioni poste dai sovietici, il 12 marzo 1940. Accettarono la cessione della Carelia occidentale e la costruzione di una base navale sovietica nella penisola di Hanko.

Indignati da tali cessioni i finlandesi si avvicinarono alla Germania nazista, ma senza raggiungere un’alleanza formale. Dopo lo scoppio della guerra fra Germania e URSS,  nel giugno 1941, la Finlandia permise alle truppe tedesche di transitare sul loro Paese e si unirono alla lotta contro i sovietici, iniziando quella che chiamano “Guerra di Continuazione”. Rioccuparono i territori persi nella Guerra d’Inverno ma le forze finlandesi non si fermarono sul vecchio confine, occuparono la Carelia orientale (sovietica) con il desiderio di annettersela.

Questo fu un nuovo grave errore, perché la Finlandia divenne un alleato della Germania nella sua guerra di aggressione contro l’Unione Sovietica, in violazione del diritto internazionale. Nutrivano una fiducia cieca nella Germania e, un po’ come Benito Mussolini, i leader finlandesi presero alcune decisioni molto discutibili, senza ascoltare gli avvertimenti degli Stati occidentali sulle possibili conseguenze negative. L’Operazione Barbarossa fu pianificata dai tedeschi come una guerra lampo destinata a durare solo poche settimane ma già dall’autunno del 1941 ciò si rivelò un calcolo sbagliato e i principali ufficiali militari finlandesi cominciarono a dubitare della capacità della Germania di terminare rapidamente la guerra. Le truppe tedesche nel nord della Finlandia si trovarono ad affrontare circostanze alle quali non erano adeguatamente preparate e non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi, soprattutto a Murmansk. Mentre le linee si stabilizzavano, la Finlandia inviò più volte segnali di pace all’Unione Sovietica.

La Germania ne fu allarmata e nel giugno 1942 Adolf Hitler fece una improvvisata a Mannerheim, nel giorno del suo compleanno, volando in Finlandia, dove il generale lo attese con il presidente Ryti. La vera ragione del suo viaggio era che sperava in una maggiore collaborazione da parte dei finlandesi, ma Mannerheim ebbe la conferma che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a battere i sovietici e, dunque, restò sul vago. Sta scritto sui libri scolastici finlandesi da cosa lo capì. Si dice che stavano seduti in un vagone ferroviario e Mannerheim accese un sigaro davanti al dittatore tedesco, un fatto che normalmente lo faceva infuriare ma Hitler se ne stette quieto, avvolto nella nuvola di tabacco. Questo lo convinse che i tedeschi erano disperati. Esiste una accidentale registrazione di Hitler al tavolo del vagone feroviario, nel quale dice che se avesse saputo che avevano tutti quei carri armati non li avrebbe mai invasi.

Nonostante il contributo della Finlandia alla causa tedesca, gli Alleati nutrivano sentimenti ambivalenti, combattuti tra la residua benevolenza nei loro confronti e la necessità di accontentare il loro alleato vitale, l’Unione Sovietica. Poiché la Finlandia aderì al Patto anti Comintern e firmò altri accordi con la Germania, l’Italia e il Giappone, gli Alleati la caratterizzarono come una delle Potenze dell’Asse, anche se il termine usato in Finlandia era “co-belligeranza con la Germania”, a sottolineare la mancanza di un’alleanza militare formale.

Dal 1942 al 1944 ci fu anche un battaglione di volontari delle Schutzstaffel (SS) sul fronte finlandese settentrionale, reclutati dalla Norvegia, allora sotto alla occupazione tedesca e, allo stesso modo, vi erano anche dei danesi. Vi parteciparono anche circa 3.400 volontari estoni. In altre occasioni i finlandesi ricevettero un totale di circa 2.100 prigionieri di guerra in cambio dei prigionieri di guerra sovietici consegnati ai tedeschi. Questi prigionieri di guerra erano principalmente estoni e careliani disposti a unirsi all’esercito finlandese. Questi, insieme ad alcuni volontari della Carelia orientale, formarono il Battaglione della Parentela (in finlandese Heimopataljoona). Alla fine della guerra, l’URSS chiese la consegna di questi membri del Battaglione Parentela. Alcuni riuscirono a fuggire prima o durante il trasporto, ma la maggior parte di loro fu inviata in Russia, dove vennero fucilati.

La Finlandia aveva una piccola popolazione ebraica (circa 2.300). Godevano di pieni diritti civili e combattevano con gli altri finlandesi nelle file dell’esercito finlandese. I tedeschi avevano menzionato gli ebrei finlandesi alla Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942, con l’intenzione di trasportarli a Majdanek. Il leader delle SS Heinrich Himmler menzionò gli ebrei finlandesi durante la sua visita in Finlandia nell’estate del 1942 assieme a Hitler. Il Primo Ministro finlandese Jukka Rangell rispose che la Finlandia non aveva una “questione ebraica”. Tuttavia, ci furono differenze per i rifugiati ebrei in Finlandia. Nel novembre 1942, i finlandesi consegnarono otto rifugiati ebrei alla Gestapo. Ciò sollevò le proteste dei ministri socialdemocratici finlandesi, e dopo questo evento non furono consegnati altri rifugiati.

La Guerra di Continuazione rappresenta l’unico caso di partecipazione di uno Stato democratico alla Seconda Guerra Mondiale al fianco delle potenze dell’Asse, pur senza essere firmatario del Patto Tripartito. Il Regno Unito dichiarò guerra alla Finlandia il 6 dicembre 1941 (giorno dell’indipendenza finlandese), mentre il Canada e la Nuova Zelanda dichiararono guerra alla Finlandia il 7 dicembre e l’Australia e il Sudafrica il giorno successivo.  Gli Stati Uniti non dichiararono guerra alla Finlandia quando entrarono in guerra con i Paesi dell’Asse e, insieme al Regno Unito, si rivolsero al premier sovietico Giuseppe Stalin alla Conferenza di Teheran per riconoscere l’indipendenza finlandese. Tuttavia, il governo statunitense sequestrò le navi mercantili finlandesi nei porti americani e nell’estate del 1944 chiuse gli uffici diplomatici e commerciali finlandesi negli Stati Uniti a seguito del trattato del Presidente Ryti con la Germania per la fornitura di migliaia di armi anticarro.

La Finlandia iniziò a cercare attivamente una via d’uscita dalla guerra dopo la disastrosa sconfitta tedesca nella battaglia di Stalingrado del febbraio 1943. Edwin Linkomies formò un nuovo gabinetto con la pace come priorità assoluta. I negoziati furono condotti a intermittenza nel 1943-44 tra la Finlandia e il suo rappresentante, Juho Kusti Paasikivi, da una parte, e gli Alleati occidentali e l’Unione Sovietica dall’altra, ma non fu raggiunto alcun accordo.

Stalin decise di costringere la Finlandia alla resa e seguì una campagna di bombardamenti su Helsinki. La campagna aerea del febbraio 1944 comprendeva tre grandi attacchi aerei per un totale di oltre 6.000 sortite. Le difese antiaeree finlandesi riuscirono a respingere i raid e solo il 5% delle bombe sganciate colpì gli obiettivi previsti. La difesa aerea di Helsinki comprendeva il posizionamento strategico di fari e fuochi come esca all’esterno della città per attirare i bombardieri sovietici a sganciare i loro carichi in quelle che erano in realtà aree non popolate.

Il 9 giugno 1944, l’Unione Sovietica lanciò una grande offensiva contro le posizioni finlandesi sull’Istmo Careliano e nell’area del lago Ladoga. Sul segmento di sfondamento largo 21,7 km (13,5 miglia) l’Armata Rossa aveva concentrato 3.000 cannoni e mortai. In alcuni punti, la concentrazione di pezzi d’artiglieria superava i 200 cannoni per ogni chilometro di fronte (uno ogni 5 metri). Quel giorno, l’artiglieria sovietica sparò oltre 80.000 colpi lungo il fronte sull’Istmo Careliano.  Con nuovi rifornimenti dalla Germania, l’esercito finlandese fermò l’avanzata sovietica all’inizio di luglio 1944. A questo punto, le forze finlandesi si erano ritirate di un centinaio di chilometri, portandosi all’incirca sulla stessa linea di difesa che avevano tenuto alla fine della Guerra d’Inverno. Questa linea era nota come linea VKT (abbreviazione di “Viipuri-Kuparsaari-Taipale”) e andava da Viborg al fiume Vuoksi fino al lago Ladoga a Taipale). Il fronte si stabilizzò nuovamente e l’ultima battaglia fu quella di Ilomantsi, una vittoria finlandese, dal 26 luglio al 13 agosto 1944. L’avanzata sovietica contro i Gruppi d’armate tedeschi del Centro e del Nord complicò ulteriormente le cose per la Finlandia.

All’inizio di agosto il presidente Ryti rassegnò le dimissioni per consentire alla Finlandia di chiedere nuovamente la pace, cosa che il nuovo governo fece a fine agosto. I termini di pace sovietici furono duri, ma le riparazioni di 600.000.000 di dollari richieste in primavera furono ridotte a 300.000.000 di dollari, molto probabilmente a causa delle pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.  La Germania perse la guerra e così la Finlandia. Ma grazie alle pressioni occidentali su Stalin, evitarono l’occupazione da parte dell’esercito sovietico e riuscirono, nel settembre 1944, a concludere un armistizio con l’Unione Sovietica. La Finlandia perse altri territori e fu soggetta a molti obblighi e restrizioni. Il trattato di Pace fu concluso a Parigi nel 1947, con l’accettazione della neutralità finlandese che è durata sino a oggi anche se, con la loro adesione alla Nato, le carte vengono nuovamente scompaginate.

 

Angelo Paratico

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

 

Il Conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) fu Ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto di Savoia dal 1835 al 1847 ma fu poi cancellato dai gloriosi annali della storia risorgimentale e relegato in un angolino oscuro. Fu definito un reazionario, bigotto, contrario alla storia e un ottuso anti-Cavour.

La Gingko edizioni, una piccola casa editrice di Verona, ha ripubblicato un suo libro, intitolato “Questioni di Stato” uscito nel 1854, arricchita da una introduzione di Alessandre De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al ministero degli Esteri. Questo libro di Solaro della Margarita uscì al tempo dell’avventura in Crimea, con Francia e Gran Bretagna e da lui fortemente avversata.

Solaro, in 130 pagine e cinque punti, riassume ciò che avrebbero dovuti essere i capisaldi dello Stato Sabaudo, perché potesse continuare a esistere. Egli vide con chiarezza che la partita giocata da Cavour e dagli “italianissimi” (come sarcasticamente chiamava i patrioti italiani che volevano subito la guerra) fosse una partita assai azzardata. Lo stato dell’esercito e le finanze del Regno di Sardegna, a suo giudizio, precludevano uno scontro con una super potenza come l’Austro-Ungheria. Egli favoriva le vie diplomatiche, anche perché per sperare in un successo sul campo di battaglia avrebbe reso indispensabile l’intervento di una potenza straniera, come la Francia, che avrebbe poi inevitabilmente avanzato delle richieste territoriali e controllato la politica sarda.

Solaro fu licenziato dal suo Re dopo che decise di rompere gli indugi e passò alla guerra guadando il fiume Ticino. La follia delle decisioni prese da Carlo Alberto, privato del suo saggio Ministro degli Esteri, sono ormai a tutti manifeste. Basti guardare alla disfatta di Novara, inevitabile dopo che il Sovrano decise di affidare il proprio esercito a un mediocre generale polacco, più versato alla cartografia che nella guerra, inviso a tutti gli altri suoi generali, che neppure riuscivano a pronunciare il suo nome.

Alessandro De Pedys inquadra bene il personaggio e l’epoca: “Solaro guiderà la politica estera del Regno di Sardegna per quasi 13 anni, senza mai rinunciare ad agire sulla base delle sue convinzioni, spesso incurante delle conseguenze (i cattivi rapporti con la Spagna, ad esempio, avranno un costo economico rilevante per il Piemonte); il pensiero del monarca invece evolverà, come si è detto, e questa progressiva divergenza porterà Carlo Alberto alla decisione accettare le dimissioni del suo Ministro nel 1847. Tra i principali motivi di dissidio vi saranno l’ostilità del Re nei confronti dell’Austria e la consapevolezza del ruolo che la dinastia avrebbe potuto giocare nell’unificare almeno parte della penisola italiana, soddisfacendo in tal modo le secolari mire dei Savoia sulla Lombardia. Già nel 1832, dopo un solo anno di regno, Carlo Alberto scriveva nel suo diario: “De tous les côtés de l’Italie il nous revient que la haine contre les Autrichiens paraît se centupler et que les voeux de tous les honnêtes gens nous appellent; mais le temps de nous montrer n’est pas encore venu”.

L’editore ha inserito all’inizio del testo una celeberrima riflessione di Fëdor Dostoevskji, del 1877 e tratta dal suo Diario. Il grande scrittore russo pare della stessa idea del Solaro, espressa nelle “Questioni di Stato”.

Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della Nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!

 

 

 

Lo Stato Ebraico si rifiuta di accogliere fra i “Giusti d’Israele” Albert Goring, che ne salvò migliaia

Lo Stato Ebraico si rifiuta di accogliere fra i “Giusti d’Israele” Albert Goring, che ne salvò migliaia

Un documentario della BBC, presentato nel 2017, su Albert Goring coincise con l’ennesimo respingimento di una richiesta di nominarlo “Giusto d’Israele”, come Schindler e Perlasca. La proposta venne respinta dallo Yad Vashem, secondo cui non esisterebbe della documentazione sufficiente. La cosa non deve sorprenderci, dato che l’influenza salvifica di Albert era dovuta solo ed esclusivamente a suo fratello, Hermann.

Esce in questi giorni nelle librerie un testo storico che narra quelle vicende sorprendentemente sconosciute ai più, in Italia. Si tratta di “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle” di James Wyllie, un noto storico e produttore di programmi televisivi, per la BBC e Film4, di grande successo.

Il suo libro è stato finalmente pubblicato in Italia da Gingko Edizioni di Verona. In questa opera vengono narrate le vite parallele dei due fratelli Göring, che si differenziarono in tutto, a partire dall’aspetto, ma soprattutto nelle passioni politiche e nella visione della storia. Hermann contribuì alla morte di milioni di persone, mentre Albert salvò, mettendo a rischio la propria vita, migliaia di persone, soprattutto ebrei. Possiamo dire che Albert Göring fu uno Oscar Schindler elevato al cubo, e proprio come Schindler fu un incallito donnaiolo, con quattro divorzi alle spalle e un gran numero di amanti, infatti egli amava la bella vita, la tolleranza e praticava seriamente la religione cristiana.

Hermann Göring (1893-1946) fu, oltre che ministro dell’aeronautica della Germania, anche il numero due del regime nazista. Suo fratello, Albert (1895-1966) invece, odiò Hitler dalla prima volta che lo vide e poi lo disprezzò sino alla propria morte.

La Gestapo, alla fine, raccolse un corposo dossier contro Albert e ordinò il suo arresto, il 31 gennaio 1945, ma suo fratello, Hermann Göring, anche se la sua reputazione era ormai a pezzi agli occhi di Hitler, che accusava la Luftwaffe di avergli fatto perdere la guerra, riuscì nuovamente a salvarlo, ma gli disse che quella volta sarebbe stata l’ultimissima, perché aveva rischiato molto per tenerlo fuori dai guai. A causa del suo cognome, venne arrestato dagli Alleati e portato a Norimberga, per essere processato, ignorando tutte le voci che si levarono in sua difesa. Alla fine, Albert presentò una lista di 33 famiglie ebraiche che lui aveva salvato, fornendo i lasciapassare e finanziandoli. Dopo un anno, lo dovettero rilasciare, ma in seguito ebbe una vita molto difficile e visse in povertà sino alla fine.

Ambrogio Bianchi

Il Mistero Felice Bellotti, che aiutò Montanelli a fuggire in Svizzera

Il Mistero Felice Bellotti, che aiutò Montanelli a fuggire in Svizzera

Non parliamo qui del Felice Bellotti (1786-1858), traduttore di Camŏes e di Eschilo, un letterato che s’è meritato una via o una piazza in ogni città d’Italia. Parliamo del Felice Bellotti, giornalista e scrittore, del quale pressoché nulla sappiamo, neppure le date di nascita e di morte. Già prima della guerra scriveva su importanti giornali, come la Stampa e il Corriere della Sera, e dopo la guerra pubblicò libri di viaggio. Splendidamente scritti e che furono tradotti in varie lingue, andando attraverso molte ristampe. Alcuni sono ancora in catalogo, come il suo “Grande Nord. Oltre l’Estrema Tule”.

Un fatto curioso nei suoi libri è che nel risguardo delle copertine manca sempre il suo profilo biografico e una sua foto.  Eppure, Felice Bellotti aveva pubblicato libri anche prima della guerra. Un testo di economia, a Genova, negli anni ’20, poi “XXVIII Ottobre, divisione d’assalto” nel 1937 e “Arabi contro Ebrei in Terrasanta” nel 1939.

Lessi un suo libro molti anni fa, che mi piacque moltissimo, “Formosa. Isola dai due volti” uscito nel 1958 e dedicato a Taiwan.

Svolgendo delle indagini in rete credo di essere riuscito a capire i motivi del suo “anonimato”.  Egli ebbe molta fama durante l’epoca fascista e alla fine della guerra subì vari processi. Credo, inoltre, che abbia rischiato di fare la fine del suo amico e mentore, Giovanni Preziosi (1881-1945) che, a Milano, il 26 aprile 1945, braccato dai partigiani, saltò giù da un balcone, abbracciato alla moglie, Valeria.

Bellotti aveva aderito alla RSI ed era stato il direttore del mensile delle SS in Italia “Avanguardia”, sul quale avevano scritto anche Evola, Preziosi ed Ezra Pound e vi apparivano le splendide caricature di Gino Boccasile.

Dalla seconda metà del settembre 1943, Felice Bellotti e Cesare Rivelli trasmisero dei programmi italiani per Radio Monaco, ancor prima della proclamazione della Repubblica Sociale. Poiché Bellotti operò a Radio Monaco, ci pare plausibile ipotizzare che fosse presente all’arrivo di Mussolini in Germania.  Ebbe anche un ruolo nella liberazione di Indro Montanelli dal carcere di San Vittore, dato che i due si erano conosciuti in Finlandia, al tempo della guerra contro alla Russia.  Di queste vicende parla Renata Broggini nel suo “Passaggio in Svizzera. L’anno nascosto di Montanelli”.  Riccardo Lazzeri sul settimanale “Il Domenicale” del 6 settembre 2003 scrisse: “Il maresciallo Graziani, su preghiera di Donna Ines, telefonò a Guido Buffarini-Guidi a Maderno, il quale diede il nullaosta per la liberazione di Montanelli al giornalista Felice Bellotti. Questi lo portò al questore Ulderico de Luca e fece liberare Montanelli dal carcere di San Vittore, portandolo a Garbagnate con un ordine fittizio di trasferimento in data 1° agosto 1944, da dove, accompagnato dal commissario Osteria della polizia politica, giungerà a Stabio, in Svizzera, il 14 dello stesso mese. Tutto questo sopra fu confermato dallo stesso Felice Bellotti, in un articolo comparso sul Roma di Napoli, nel dicembre 1959”.

Un libro di Felice Bellotti che meriterebbe una rilettura, perché dimostra che le sue informazioni erano di prima mano, forse per via della sua vicinanza a Preziosi, è “La Repubblica di Mussolini. 26 luglio 1943 – 25 aprile 1945” pubblicato a Milano nel mese di aprile del 1947, anche se il testo risulta completato a Selvino, in provincia di Bergamo, il 30 giugno 1946. Giovanni Preziosi veniva tenuto in grande considerazione da Adolf Hitler e aveva cercato, fra l’altro, di dissuadere Mussolini dal tenere il Gran Consiglio perché avrebbe costituito il “suicidio del Fascismo”.

Nel libro di Bellotti si trovano alcuni particolari poco conosciuti di quanto accadde durante gli anni della guerra. Una delle cose che più mi ha incuriosito è stata la rivelazione, fatta dal generale francese Gamelin, nel 1943 a Vichy, circa le ragioni dell’impreparazione bellica della Francia. Egli disse che aveva preparato un piano per contenere la Germania sulla linea Maginot e allo stesso tempo attaccare l’Italia. Il suo piano era chiamato “George” che entrò in fase operativa con ordini per cannoni, aerei e munizioni, passati ai produttori di armamenti. Gamelin dichiarò che, quando il 3 settembre 1939 iniziarono le ostilità contro alla Germania, si presentò al presidente della repubblica e al primo ministro, pretendendo una dichiarazione di guerra contro l’Italia, per lanciare una fulminea occupazione della valle del Po, data l’assoluta insufficienza delle difese italiane e anche perché il piano George era stato sviluppato proprio in funzione di quella azione. Con suo grande stupore vide Lebrun e Daladier tergiversare e poi gli dissero che non era possibile. Gamelin s’infuriò e finalmente, dopo che gli fecero giurare la massima segretezza, rivelarono perché non intendessero dichiarare guerra all’Italia.

Dissero a Gamelin che il 19 giugno 1939 s’era tenuta una riunione segreta a Lione, presente Galeazzo Ciano e un rappresentante della Gran Bretagna. Ciano garantì, in caso di dichiarazione di guerra fra la Germania e gli Alleati, che l’Italia, in un primo tempo, avrebbe dichiarato la non belligeranza, in un secondo, la neutralità e, alla fine, avrebbe dichiarato guerra contro alla Germania. Avrebbe tentato di ricusare gli impegni sottoscritti dall’Italia sfruttando la violazione della neutralità di Belgio e Olanda e la mancata concessione degli aiuti promessi dai tedeschi. Purtroppo, il crollo improvviso della Francia impedì l’attuazione di questo piano. Queste rivelazioni vennero segretate dai tedeschi, ma li convinsero, se già non l’avevano capito, che Ciano (e Mussolini) avevano tentato di sabotare in vari modi il Patto d’Acciaio e la Germania.

 

Angelo Paratico

 

Esce il libro “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle”. Recensione sul Corriere della Sera.

Esce il libro “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle”. Recensione sul Corriere della Sera.

 

I due fratelli Göring, uno nazista e l’altro democratico

di Dino Messina

0di Ambrogio Bianchi

Esce in questi giorni nelle librerie un testo storico che all’estero vende bene da molti anni. Si tratta di “Hermann & Albert Göring. Il Nazista e il Ribelle” di James Wyllie, un noto storico e produttore di programmi televisivi, per la BBC e Film4, di grande successo. Il suo libro è stato pubblicato in Italia da Gingko Edizioni di Verona.

In questo libro vengono narrate le vite parallele dei due fratelli Göring, che si differenziarono in tutto, a partire dall’aspetto, ma soprattutto nelle passioni politiche e nella visione della storia. Hermann contribuì alla morte di milioni di persone, mentre Albert salvò, mettendo a rischio la propria vita, migliaia di persone, soprattutto tanti ebrei. Possiamo dire che Albert Göring fu uno Oscar Schindler elevato al cubo, come Schindler fu un incallito donnaiolo, con quattro divorzi alle spalle e un gran numero di amanti, infatti egli amava la bella vita, la tolleranza e praticava seriamente la religione cristiana. Si tratta di un capitolo stranamente poco noto in Italia e che mostra come sia spesso difficile separare il bene dal male. Hermann Göring (1893-1946) fu, oltre che ministro dell’aeronautica della Germania, anche il numero due del regime nazista. Suo fratello, Albert (1895-1966) invece, odiò Hitler dalla prima volta che lo vide e poi lo disprezzò sino alla morte.

Albert si sottomise a Hermann, in quanto suo capofamiglia, ma passò quasi un decennio a lavorare contro il regime da lui sostenuto. Se fosse stato un comune cittadino tedesco, sarebbe stato imprigionato in un lager o fucilato nel giro di pochi giorni. Ma l’influenza del fratello lo protesse costantemente, mostrando che il Familismo era molto più forte del Nazismo, anche in quella strana famiglia tedesca. Nonostante le loro convinzioni estreme e diverse, Hermann tenne al riparo il fratello da tutte le accuse e i due rimasero vicini per tutta la durata della guerra. Nonostante il profondo divario nelle loro convinzioni politiche, ognuno credeva sinceramente che l’altro stesse facendo ciò che riteneva giusto fare.

La Gestapo, alla fine, raccolse un grosso dossier contro Albert e ordinò il suo arresto, il 31 gennaio 1945, ma suo fratello, Hermann Göring, la cui reputazione era ormai a pezzi agli occhi di Hitler, che accusava la Luftwaffe di avergli fatto perdere la guerra, riuscì nuovamente a salvarlo, ma gli disse che quella volta sarebbe stata l’ultimissima, perché aveva rischiato molto per tenerlo fuori.

Secondo Elsa Moravek, la cui famiglia doveva la vita ad Albert Göring, lui soleva ripetere: “Quello che la Gestapo sta facendo è vergognoso e tutti gli alberi della Germania non basteranno a nascondere i tedeschi coinvolti”. Jacques Benbassat, anche lui salvato da Albert assieme alla propria famiglia, disse che il suo comportamento poteva riassumersi in una scenetta alla quale lui aveva assistito, da bambino: “Una sera, a Bucarest, Albert stava suonando il pianoforte e cantando un’aria viennese insieme a mio padre. Dall’altra parte della strada qualcuno continuò la canzone in tedesco. Così, Albert andò alla finestra e vide che sul balcone di fronte a casa nostra si trovavano due ufficiali tedeschi. Scambiarono alcune parole e poi i tedeschi gli chiesero ‘Chi sei? Come ti chiami?’. Lui rispose, sono Albert Göring. Loro chiesero: ‘Sei imparentato?’ per cui lui rispose: ‘Sì, è mio fratello’. Quei due scattarono sull’attenti e lo salutarono con un: Heil Hitler! Al che Albert alzò il calice e gli disse: ‘Baciatemi il culo”.

A causa del suo cognome, venne arrestato dagli Alleati e portato a Norimberga, per essere processato, ignorando tutte le voci che si levarono in sua difesa. Alla fine, Albert presentò una lista di 33 famiglie ebraiche che lui aveva salvato, fornendo i lasciapassare e finanziandoli. Dopo un anno, lo dovettero rilasciare, con tante scuse. Un documentario della BBC, presentato nel 2017, ha coinciso con il respingimento di una richiesta di nominarlo “Giusto d’Israele”, come Schindler o Perlasca. La proposta venne respinta dallo Yad Vashem, secondo cui non esisterebbe della documentazione sufficiente. La cosa non deve sorprenderci, dato che l’influenza salvifica di Albert era dovuta solo ed esclusivamente a suo fratello, Hermann.

 

Ambrogio Bianchi

 

 

Clara Petacci fu davvero stuprata?

Clara Petacci fu davvero stuprata?

Ogni  28 aprile ci fa tornare in mente i corpi straziati dei fascisti appesi a testa in giù a Piazzale Loreto. Di tanto in tanto questa immagine riappare, a volte applicata anche ai nostri attuali governanti, come monito e insulto. Accennando a Clara o Claretta Petacci, si è giustamente detto che, al di là della satira, si dovrebbe aver rispetto per una donna uccisa a 33 anni per via del suo amore per un uomo, un tempo potente e adulato e poi abbandonato da tutti.

Si è anche detto che la Petacci fu stuprata dai partigiani, ma davvero accadde questo? Storicamente è difficile ricostruire tutti i passaggi di quanto veramente accadde  a Giulino di Mezzegra e a Dongo. Con il passare del tempo s’è creato un intricato groviglio di bugie e di mezze verità, che sviano anche gli storici più precisi e spassionati. Lo storico Arrigo Petacco disse che l’unica cosa certa è che Mussolini fu accoppato e tutto il resto è soggetto a discussione: da chi, dove, come?
Certi partigiani presenti a Dongo erano effettivamente capaci di violentare le proprie prigioniere, come scoprì a proprie spese la moglie di Marcello Petacci, pure lui barbaramente assassinato a Dongo, solo perché scambiato per Vittorio Mussolini. Zita Ritossa, sua moglie, era stata una fotomodella e il maggiore dei loro due bambini, Benvenuto Petacci, assistendo alla morte del padre e alle violenze (sessuali) subite dalla madre, sviluppò in seguito dei gravi problemi psichici.

I maggiori capi politici dell’insurrezione erano contrari all’esposizione dei cadaveri a Piazzale Loreto. Pare che il solo Emilio Sereni la reputasse una cosa naturale, si dice che rispose all’indignato governatore militare di Milano, l’italo-americano Charles Poletti: “La storia è fatta così. Alcuni devono non solo morire, ma morire vergognosamente!”
Diversamente la pensava Sandro Pertini, che proruppe con un: “Avete visto? L’insurrezione è disonorata!” Ferruccio Parri, sconsolato, affermò: “Questa esibizione di macelleria messicana è terribile e indegna: nuocerà al movimento partigiano per gli anni a venire!”.
Quando fu appesa per i piedi alla pensilina di un distributore di benzina, a Piazzale Loreto, la gonna di Clara Petacci cadde giù, mostrando la sua vagina. Fu don Pollarolo, cappellano dei partigiani, a prendere l’iniziativa di fissare la gonna con una spilla da balia che gli diede una donna. Questa soluzione si rivelò inefficace,  intervennero allora dei pompieri che, con una corda, legarono la gonna intorno alle sue gambe.
Questa storia della Petacci nuda a testa in giù creò molto scalpore e, forse per questo motivo, nella versione dattiloscritta dei fatti di Dongo, scritta successivamente da Walter Audisio, egli inserisce il particolare delle mutandine mancanti della Petacci, in quella che diverrà la versione ufficiale data dal PCI.
Audisio disse che quando prelevò Clara nella camera di casa dei De Maria a Giulino di Mezzegra, la mattina del 28 aprile, per essere portata con Mussolini sul luogo della fucilazione, lei gli disse: “Non trovo le mutandine” al che lui le disse: “Tira via, non pensarci!”.
Un dettaglio che in una relazione storica normale non sarebbe mai apparso, essendo di poco conto ma che, evidentemente, andava inserito per spiegare quanto s’era visto a Piazzale Loreto. Ovvero, un po’ come dire che ‘non siamo stati noi a toglierle…’. Perché allora era senza mutandine? Forse aveva avuto le mestruazioni e se ne era liberata? O come suggerirono altri “il porco Mussolini passò la sua ultima notte facendo sesso con la sua amante”, nonostante i partigiani armati fuori dalla porta?

L’unica fonte che parla dello stupro di Clara Petacci, molti anni dopo i fatti, è ascrivibile a Enrico Grossi, che raccolse le confidenze del professor Caio Mario Cattabeni, il medico legale che il 30 aprile 1945, all’Istituto di medicina legale di Milano, ricevette i corpi martoriati di Clara e di Mussolini, per effettuare l’autopsia.
Grossi conosceva bene il dottor Cattabeni, che redasse un verbale dell’autopsia e, alcuni mesi dopo, vergò una memoria dell’indagine necroscopica per una rivista medica. A parte ciò, egli mantenne poi un totale riserbo sulle impressioni ricavate in quella storica e per lui difficilissima giornata.
Enrico Grossi aveva conosciuto il Prof. Cattabeni nel 1970, poi lo incontrò casualmente durante un viaggio in treno. Affrontò con lui l’argomento e, stando al Grossi, il professore sganciò una bomba: «Mi raccontò che, terminata l’autopsia del Duce, iniziarono a compiere quella sulla Petacci. Il corpo di Claretta presentava varie ecchimosi sul ventre e segni di graffiature sulle cosce, nella parte interna ma anche nella parte posteriore. Com’è noto, a Piazzale Loreto, la Petacci non indossava le mutandine. Tolsero il corpo della donna, che già mostrava la rigidità cadaverica, da una specie di cassa grezza dove era deposto e lo adagiarono su un telo. Dalla sua vagina fuoruscì  un liquido sieroso misto a sangue e anche dell’altro liquido che a lui parve liquido seminale. Quando deposero il corpo sul tavolo, l’abbondante fuoruscita di liquido non s’interruppe’”. Prosegue il Grossi: “A quel punto – mi confidò Cattabeni – ho ricevuto l’ordine tassativo di soprassedere all’autopsia” e la donna fu rimessa nella cassa e sepolta così com’era. Tant’è che anni dopo, quando venne riesumato il suo cadavere, nel suo reggiseno, che ancora indossava, rinvennero un grosso diamante che s’era fatto cucire dentro, come avevano fatto la zarina e le sue figlie a Ekaterinburg, in Russia.

Ci pare strano che a distanza di 3 giorni il liquido seminale e il sangue fossero ancora fluidi e, forse, si trattava di resti di mestruazioni, oppure di linfa e dell’inizio della decomposizione. Esiste un’ultima ipotesi, che non è mai stata contemplata prima: dei rapporti sessuali sul cadavere a Dongo, oppure sul camion della Tinto Stamperia Pessina, che trasportava quei corpi sino a Milano, o addirittura dopo l’esposizione di Piazzale Loreto, ma questa è una possibilità remota.

In conclusione, credo che Clara Petacci non fu violentata, perché mancò il tempo e l’incalzare degli eventi fu vorticoso. Da varie fonti, ma in particolare dalla vicina di casa dei De Maria, Dorina Mazzola, intervistata da Giorgio Pisanò, sappiamo che nel giro di 8 ore si ebbero ben 12 scariche di fucileria e pistolettate, con un gran via vai di persone che entravano e uscivano da quella casa.

Angelo Paratico

Francisco Franco, un dittatore riluttante

Francisco Franco, un dittatore riluttante

Francisco Franco (a sinistra) con il fratello Ramon, un celebre aviatore, nel 1925.

Francisco Franco, al secolo Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco Bahamonde, soprannome El Caudillo (“Il Capo”), era nato il 4 dicembre 1892 a El Ferrol, Spagna – morì il 20 novembre 1975 a Madrid. Fu un abile generale e un leader delle forze nazionaliste che rovesciarono la Repubblica, nella Guerra civile spagnola (1936-39); in seguito fu capo del governo della Spagna fino al 1973 e capo di Stato fino alla sua morte nel 1975.

Franco nacque nella città costiera e centro navale di El Ferrol, in Galizia (Spagna nord-occidentale). La sua vita familiare non fu del tutto felice, poiché suo padre, ufficiale del Corpo amministrativo navale spagnolo, fu un uomo eccentrico e sprecone. Più disciplinato e serio di altri ragazzi della sua età, Franco era molto legato a sua madre, una cattolica romana dell’alta borghesia, pia e conservatrice. Come quattro generazioni e il fratello maggiore prima di lui, Franco era stato inizialmente destinato alla carriera di ufficiale di marina, ma la riduzione delle ammissioni all’Accademia Navale lo costrinsero a scegliere l’esercito.  Nel 1907, a soli 14 anni, entrò nell’Accademia di Fanteria di Toledo, diplomandosi tre anni dopo.

Franco si offrì volontario per il servizio attivo nelle campagne coloniali nel Marocco spagnolo, iniziate nel 1909, e vi fu trasferito nel 1912 all’età di 19 anni. L’anno successivo fu promosso primo tenente in un reggimento d’élite di cavalleria nativa marocchina. In un’epoca in cui molti ufficiali spagnoli erano caratterizzati da sciatteria e mancanza di professionalità, il giovane Franco dimostrò subito la sua capacità di comandare le truppe in modo efficace e si guadagnò presto una reputazione di completa dedizione professionale. Dedicò grande cura alla preparazione delle azioni della sua unità e prestò più attenzione di quanto fosse comune al benessere delle truppe. Reputato scrupolosamente onesto, introverso e con un numero relativamente basso di amici intimi, era noto per rifuggire da ogni divertimento frivolo. Nel 1915 divenne il più giovane capitano dell’esercito spagnolo. L’anno successivo fu gravemente ferito da una pallottola nell’addome e tornò in Spagna per riprendersi. Nel 1920 fu scelto come comandante in seconda della Legione Straniera Spagnola, appena organizzata, per poi passare al comando completo nel 1923. In quell’anno sposò anche Carmen Polo, dalla quale ebbe una figlia. Durante le campagne cruciali contro i ribelli marocchini, la legione giocò un ruolo decisivo nel porre fine alla rivolta. Franco divenne un eroe nazionale e nel 1926, all’età di 33 anni, fu promosso generale di brigata. All’inizio del 1928 fu nominato direttore dell’Accademia Militare Generale di Saragozza, appena organizzata.

Dopo la caduta della monarchia, nel 1931, i leader della nuova Repubblica spagnola intrapresero un’importante e necessaria riforma militare e la carriera di Franco subì una temporanea battuta d’arresto. L’Accademia Militare Generale fu sciolta e Franco fu inserito nella lista degli inattivi. Nonostante fosse un monarchico dichiarato e avesse l’onore di essere un gentiluomo di camera del re, Franco accettò sia il nuovo regime che la sua temporanea retrocessione con perfetta disciplina. Quando le forze conservatrici ottennero il controllo della Repubblica nel 1933, Franco fu ripristinato al comando attivo; nel 1934 fu promosso maggior generale. Nell’ottobre 1934, durante una sanguinosa rivolta dei minatori delle Asturie che si opponevano all’ammissione di tre membri conservatori al governo, Franco fu chiamato a sedare la rivolta. Il successo in questa operazione gli procurò una nuova ribalta. Nel maggio 1935 fu nominato capo dello Stato Maggiore dell’esercito spagnolo e iniziò a rafforzare la disciplina e le istituzioni militari, pur lasciando in vigore molte delle riforme precedenti.

In seguito a una serie di scandali che indebolirono i Radicali, uno dei partiti della coalizione di governo, il Parlamento fu sciolto e furono indette nuove elezioni per il febbraio 1936. A questo punto i partiti politici spagnoli si erano divisi in due fazioni: il Blocco Nazionale di destra e il Fronte Popolare di sinistra. La sinistra vinse le elezioni, ma il nuovo governo non fu in grado di impedire l’accelerazione della dissoluzione della struttura sociale ed economica della Spagna. Sebbene Franco non fosse mai stato membro di un partito politico, la crescente anarchia lo spinse a chiedere al governo di dichiarare lo stato di emergenza. Il suo appello fu respinto, ed egli fu rimosso dallo stato maggiore e inviato a un oscuro comando nelle Isole Canarie. Per qualche tempo rifiutò di impegnarsi in una cospirazione militare contro il governo, ma, con la disintegrazione del sistema politico, decise infine di unirsi ai ribelli.

All’alba del 18 luglio 1936, il manifesto di Franco che acclama la ribellione militare viene trasmesso dalle Isole Canarie e la mattina stessa inizia l’insurrezione sul Continente. Il giorno seguente volò in Marocco e nel giro di 24 ore aveva saldamente il controllo del protettorato e dell’esercito spagnolo che lo presidiava. Dopo lo sbarco in Spagna, Franco e il suo esercito marciarono verso Madrid, che era tenuta dal governo. Quando l’avanzata nazionalista si arrestò alla periferia della città, i capi militari, in preparazione di quello che credevano fosse l’assalto finale che avrebbe consegnato Madrid e il Paese nelle loro mani, decisero di scegliere un comandante in capo, o generalissimo, che avrebbe anche guidato il governo nazionalista ribelle in opposizione alla Repubblica. Per le sue capacità militari e il suo prestigio, per il suo curriculum politico non inficiato da politiche settarie e cospirazioni e per la sua comprovata capacità di ottenere assistenza militare dalla Germania di Adolf Hitler e dall’Italia di Benito Mussolini, Franco era la scelta più ovvia. Anche perché non era un tipico “generale politico” spagnolo, Franco divenne capo di Stato del nuovo regime nazionalista il 1° ottobre 1936.

Ecco qui il suo discorso alla nazione spagnola, letto alla radio:

Discorso del Generale Franco Trasmesso il 1° ottobre 1936, all’assunzione dei poteri di Capo dello Stato

Saluti a voi tutti, che ascoltate dalle vostre case le notizie sulla guerra, o dal fronte, pensando alle vostre case, o dall’Area Rossa, aspettando l’arrivo delle nostre truppe, o oltre i nostri confini, seguendo le nostre sorti con ansia – saluti dal microfono di Radio Castiglia!

Non parlerò della guerra, poiché gli obblighi di stato che sto assumendo rendono necessario che io vi parli del lavoro che ci aspetta. Non abbiamo bisogno di discutere di un’utopia, e nemmeno di suddividere i successi delle nostre speranze in rigide tappe. In ogni caso, per parlare delle nostre intenzioni è necessario prima esaminare brevemente il passato, sia per trarre vantaggio dalla nostra esperienza, sia per implementare le nostre decisioni in modo utile.

La Spagna, il cui nome invoco con tutta la devozione della mia anima, ha sofferto per molti anni di molti mali, non il meno pernicioso di essi è stata l’influenza di intellettuali squilibrati, che hanno provato a diminuire il prestigio dei pensatori della nostra nazione, e hanno guardato oltre le nostre frontiere per portare in Spagna ogni sorta di idee esotiche e distruttive che hanno avuto origine in altri paesi. Letteratura demoralizzante, dottrine demagogiche, amaro razzismo, l’infiltrazione di idee disfattiste, e la perversione della storia – tutto questo e molto di più è servito a scuotere le fondamenta del nostro patriottismo, così da perdere le principali caratteristiche del nostro popolo, da vergognarci del nostro presente, da dimenticare il nostro passato e avere paura del nostro futuro.

Avendo raggiunto il tracollo morale, non fu difficile per queste persone preparare il paese all’accoppiamento, e venderlo al miglior offerente straniero. Il nostro commercio ha iniziato a mostrare debito invece di credito di bilancio, e i frutti della nostra terra sono stati trattati come se fossero quelli di qualche colonia conquistata, mentre uno pseudo-pacifismo fu incoraggiato, in modo da indebolire il braccio armato di qualsiasi liberatore. Falsi profeti sono emersi, i quali mentre tessevano l’odio e la lotta di classe, promettevano la terra ai contadini, la dittatura agli operai e l’autonomia alle nostre Province. In modo estremamente cinico, queste persone, hanno acquisito potere, prendendosi la terra del contadino, la libertà dell’operaio, e tutta la speranza di una flessibilità autonoma dalle Province.

E ora la nostra Nuova Spagna, tenendo conto della grandezza del suo compito, prosegue verso la sua liberazione, determinata a mostrare, in uno spirito di collaborazione sociale, che la restaurazione della legge e dell’ordine è la condizione primaria e il percorso sicuro verso la libertà, i cui benefici seguiranno tutto il suo popolo, all’interno e all’esterno dei confini della madre patria.

La Spagna si sta organizzando largamente sotto un concetto totalitario, nel quale le sue istituzioni natie assicureranno la sua nazionalità, unità e continuità. L’applicazione di queste nuove misure di autorità non significa che il nostro regime sarà esclusivamente di carattere militare; al contrario il nostro sistema stabilirà un regime gerarchico nel quale tutte le capacità e le energie del paese troveranno la propria espressione.

La personalità delle Province della Spagna deve essere rispettata, in conformità con l’antica tradizione nazionale al tempo del nostro più grande splendore; sempre che questo contribuisca all’unità nazionale. La municipalità spagnola riassumerà la sua importanza storica, in modo che essa svolga le sue antiche funzioni in qualità di unità nella nostra vita pubblica.

Una volta abolito il suffragio universale, con i suoi effetti disastrosi locali e nazionali, e le sue oppressioni attraverso le unioni e gli interessi politici, dovremmo vedere che la volontà della Nazione si esprima attraverso quegli organi tecnici e corporativi nei quali i bisogni e gli ideali del paese vengono sviluppati al meglio. Mentre la forza del nuovo Stato spagnolo cresce, così sarà raggiunta la decentralizzazione, cosicché i distretti, i municipi, le associazioni e gli individui godranno della più ampia libertà possibile nei limiti dei supremi interessi dello Stato.

Nel suo aspetto sociale, il lavoro riceverà una garanzia assoluta che non sarà schiavo del capitalismo, sempre che non adotti quei metodi combattivi e aspri che rendono la mutua collaborazione impossibile. Il lavoratore è degno del suo impiego: non solo verrà istituita la sicurezza dei salari, ma tutti gli anticipi sui salari finora garantiti verranno mantenuti. Con i diritti del lavoratore così riconosciuti, si farà carico delle sue responsabilità per la leale cooperazione con gli elementi che creano ricchezza nazionale. Tutti gli spagnoli saranno obbligati a lavorare secondo le loro capacità. Il nuovo Stato non può ammettere alcun parassita.

Lo Stato darà alla Chiesa Cattolica i suoi dovuti diritti e privilegi, perciò rispettando la nostra tradizione, e la fede della grande maggioranza del popolo spagnolo; ma lo Stato non ammetterà l’intrusione di qualsiasi potere esterno nelle specifiche funzioni di Governo. Per quanto riguarda le entrate, lo Stato organizzerà la giusta distribuzione delle tasse, in modo che il loro fardello ricada sulle spalle più adatte a sopportarlo.

Per quanto riguarda l’agricoltura, le aziende familiari saranno realizzate stabilendo il coltivatore sulla terra, non da qualche ipotetico sistema di proprietà ma da aiuto costante e diretto, il cui scopo sarà fornire al contadino la sua indipendenza. Una caratteristica permanente del nostro lavoro sarà diretta a questo fine. Il lavoratore agricolo dovrà ricevere una parte di ciò che la città assorbe oggi come pagamento per i suoi servizi commerciali e clericali.

Per quanto riguarda gli affari internazionali, ci auguriamo di vivere in armonia con tutti i popoli, aprendo ad un vasto orizzonte di amicizia con tutto il mondo. A questo vi è una eccezione enfatica: non avremo nessun contatto con l’Unione dei Socialisti delle Repubbliche Sovietiche, la cui politica ha avuto risultati così disastrosi per l’umanità e la civiltà.

Sono sicuro che questa terra di eroi e martiri, nell’affrontare le sue difficoltà, scriverà ancora un’altra pagina di storia gloriosa, e troverà una soluzione che non deriverà né dall’est né dall’ovest, ma sarà genuinamente Spagnola.

Spagnoli, lunga vita alla Spagna!

Francisco Franco

Il governo ribelle, tuttavia, non ottenne il controllo completo del Paese per più di tre anni.

Franco presiedeva un governo che era fondamentalmente una dittatura militare, ma si rese conto che aveva bisogno di una struttura civile regolare per ampliare il suo sostegno, che doveva provenire principalmente dalle classi medie antileftiste. Il 19 aprile 1937 fondò la Falange (il partito fascista spagnolo) con i carlisti e creò il movimento politico ufficiale del regime ribelle. Pur ampliando la Falange in un gruppo più pluralista, Franco chiarì che era il governo a usare il partito e non il contrario. Il suo regime divenne così un sistema autoritario istituzionalizzato, che si differenziava in questo senso dai partiti-stato fascisti dei modelli tedesco e italiano.

Come comandante in capo durante la guerra civile, Franco fu un leader attento e sistematico. Non fece mosse avventate e subì solo poche sconfitte temporanee mentre le sue forze avanzavano lentamente ma costantemente; l’unica critica importante rivoltagli durante la campagna fu che la sua strategia era spesso priva di immaginazione. Tuttavia, grazie alla qualità militare relativamente superiore del suo esercito e alla continua assistenza tedesca e italiana, Franco ottenne una vittoria completa e incondizionata il 1° aprile 1939.

La guerra civile era stata in gran parte una sanguinosa lotta di logoramento, segnata da atrocità da entrambe le parti. Le decine di migliaia di esecuzioni compiute dal regime nazionalista, che continuarono nei primi anni dopo la fine della guerra, valsero a Franco più rimproveri di qualsiasi altro aspetto del suo governo.

Sebbene Franco avesse la visione di ripristinare la grandezza spagnola dopo la guerra civile, in realtà era il leader di un Paese esausto, ancora diviso al suo interno e impoverito da una guerra lunga e costosa. La stabilità del suo governo fu resa più precaria dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, solo cinque mesi dopo. Nonostante la sua simpatia per il “Nuovo Ordine” delle potenze dell’Asse, Franco dichiarò inizialmente la neutralità spagnola nel conflitto. La sua politica cambiò dopo la caduta della Francia, nel giugno 1940, quando si avvicinò al leader tedesco Hitler, che voleva coinvolgere la Spagna nel conflitto; Franco si dichiarò disposto a far entrare la Spagna in guerra al fianco della Germania in cambio di un’ampia assistenza militare ed economica tedesca e della cessione alla Spagna della maggior parte delle proprietà territoriali francesi nell’Africa nord-occidentale.

Le richieste di Franco furono volutamente astronomiche (si dice su consiglio di Canaris) e il materiale richiesto la Germania non lo possedeva.  Hitler non fu in grado o non volle accettare questo prezzo e, dopo un incontro con Franco a Hendaye, in Francia, nell’ottobre 1940, Hitler osservò che si sarebbe “fatto strappare tre o quattro denti” piuttosto che affrontare un’altra sessione di contrattazione come quella. Il governo di Franco rimase d’ora in poi relativamente comprensivo nei confronti delle potenze dell’Asse, pur evitando accuratamente qualsiasi impegno diplomatico e militare diretto nei loro confronti. Il ritorno della Spagna a uno stato di completa neutralità nel 1943 arrivò troppo tardi per ottenere un trattamento favorevole da parte degli Alleati in ascesa. Tuttavia, la diplomazia di guerra di Franco, caratterizzata da un freddo realismo e da un’attenta tempistica, aveva evitato che il suo regime venisse distrutto insieme alle potenze dell’Asse.

Il periodo più difficile del regime di Franco iniziò all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, quando il suo governo fu ostracizzato dalle Nazioni Unite appena costituite. Fu etichettato dall’opinione pubblica straniera ostile come “l’ultimo dittatore fascista sopravvissuto” e per un certo periodo sembrò essere il più odiato dei capi di Stato occidentali; all’interno del suo Paese, tuttavia, tante persone lo sostenevano quante lo osteggiavano. Il periodo di ostracismo si concluse infine con il peggioramento delle relazioni tra il mondo sovietico e l’Occidente all’apice della Guerra Fredda. Franco poteva ora essere considerato uno dei principali statisti anticomunisti del mondo e le relazioni con gli altri Paesi iniziarono a regolarizzarsi nel 1948. La sua riabilitazione internazionale fu ulteriormente favorita nel 1953, quando la Spagna firmò un patto di assistenza militare decennale con gli Stati Uniti, che fu poi rinnovato in forma più limitata.

Le politiche interne di Franco divennero in qualche modo più liberali durante gli anni Cinquanta e Sessanta e la continuità del suo regime, insieme alla sua capacità di evoluzione creativa, gli valsero almeno un limitato grado di rispetto da parte di alcuni dei suoi critici. Franco disse di non trovare particolarmente gravoso il peso del governo e, di fatto, il suo governo fu caratterizzato da un’assoluta sicurezza di sé e da una relativa indifferenza alle critiche. Dimostrò una spiccata abilità politica nel valutare la psicologia dei diversi elementi, dai liberali moderati ai reazionari estremi, il cui sostegno era necessario per la sopravvivenza del suo regime. Mantenne un attento equilibrio tra di loro e lasciò in gran parte l’esecuzione della politica ai suoi incaricati, ponendosi così come arbitro al di sopra della tempesta del conflitto politico ordinario. In misura considerevole, il biasimo per gli aspetti fallimentari o impopolari della politica tendeva a ricadere sui singoli ministri piuttosto che su Franco. Il partito di Stato Falange, declassato all’inizio degli anni Quaranta, negli anni successivi divenne noto semplicemente come “Movimento” e perse gran parte della sua originaria identità quasi fascista.

A differenza della maggior parte dei governanti dei regimi autoritari di destra, Franco garantì la continuità del suo governo dopo la sua morte attraverso un referendum ufficiale nel 1947 che rese lo Stato spagnolo una monarchia e ratificò i poteri di Franco come una sorta di reggente a vita. Nel 1967 aprì le elezioni dirette per una piccola minoranza di deputati al parlamento e nel 1969 designò ufficialmente l’allora 32enne principe Juan Carlos, figlio maggiore del pretendente nominale al trono spagnolo, come suo successore ufficiale alla sua morte. Franco si dimise dalla carica di premier nel 1973, ma mantenne le sue funzioni di capo di Stato, comandante in capo delle forze armate e capo del “Movimento”.

Franco non è mai stato un governante popolare e raramente ha cercato di mobilitare il sostegno delle masse, ma dopo il 1947 c’è stata poca opposizione diretta o organizzata al suo governo. Con la liberalizzazione del suo governo e l’allentamento di alcuni poteri di polizia, insieme al notevole sviluppo economico del Paese durante gli anni Sessanta, l’immagine di Franco cambiò da quella del rigoroso generalissimo a quella di un più benevolo anziano statista civile. La salute di Franco declinò notevolmente alla fine degli anni Sessanta, ma egli si disse convinto di aver lasciato gli affari della Spagna “legati e ben legati” e che dopo la sua morte il principe Juan Carlos avrebbe mantenuto almeno la struttura di base del suo regime. Dopo la morte di Franco, avvenuta nel 1975 in seguito a una lunga malattia, il suo corpo fu inumato nella Valle dei Caduti, un enorme mausoleo a nord-ovest di Madrid che ospita i resti di decine di migliaia di caduti di entrambe le parti della guerra civile spagnola. Quasi immediatamente, Juan Carlos si mosse per smantellare le istituzioni autoritarie del sistema di Franco e incoraggiò la rinascita dei partiti politici. La Spagna aveva compiuto grandi progressi economici durante gli ultimi due decenni di governo di Franco e, entro tre anni dalla sua morte, il Paese era diventato una monarchia costituzionale democratica, con un’economia prospera e istituzioni democratiche simili a quelle del resto dell’Europa occidentale.

Nel 2019 il corpo di Franco è stato riesumato e sepolto in una cripta di famiglia vicino a El Pardo, il palazzo fuori Madrid che era servito come residenza ufficiale per tutto il suo regno.

I destini comuni di Shinzo Abe e di Spencer Perceval

I destini comuni di Shinzo Abe e di Spencer Perceval

Bellingham spara a Perceval

L’assassinio del Premier giapponese Shinzo  Abe ha indotto qualcuno a parlare di una azione diretta dalla longa manus della finanza internazionale, in quanto egli era un convinto keynesiano.

Questo crimine me ne ha fatto tornare in mente uno simile, l’assassinio del primo ministro britannico Spencer Perceval (1762-1812), avvenuto l’11 maggio 1812.

Riportiamo qui sotto un brano preso da Storia delle Banche Centrali di Stephen Mitford Goodson e pubblicata dalla Gingko Edizioni.

Quando il principale azionista della First Bank of the United States, Mayer Amschel Rothschild, venne a sapere delle accese proteste contro il rinnovo dello statuto, andò su tutte le furie e dichiarò che “o l’istanza di rinnovo viene accolta o gli Stati Uniti si troveranno coinvolti in una guerra più che disastrosa.” E poi esclamò: “Darò una lezione a quegli americani insolenti e li riporterò allo stato di colonie”.
Al fine di riportare a galla la sua banca centrale privata, Rothschild cercò di convincere il primo ministro britannico Spencer Perceval a dichiarare guerra agli Stati Uniti.

Nel 1807 Perceval entrò nel governo in qualità di Cancelliere dello Scacchiere. In quel periodo l’Inghilterra era in guerra contro alla Francia e uno dei suoi compiti principali fu quello di raccogliere fondi per finanziare il conflitto. Invece di aumentare le tasse, però, Perceval contrasse svariati prestiti, prima dalla Barings Bank e poi, soprattutto, dai Rothschild. John Charles Herries era il segretario di Perceval, ruolo che ricopriva già da cinque anni. Herries era amico intimo di Nathan Rothschild, alla cui causa fu fedele nei ruoli da lui ricoperti per il governo britannico, ovvero ministro del Tesoro, commissario generale dell’esercito e Cancelliere dello Scacchiere, fino alla sua morte, nel 1858.
Nel frattempo, gli agents provocateurs di Rothschild stavano fomentando il malcontento in Nord America. Per provocare il popolo americano, i britannici cominciarono a intromettersi nei traffici tra Stati Uniti e Francia, con quest’ultima che aveva imposto un blocco continentale proprio contro l’Inghilterra. Dal momento che la marina militare britannica era a corto di marinai, si servì di quelli americani tramite il reclutamento forzato. Inoltre, i britannici rifornirono di armi le tribù indiane, in particolar modo Tecumseh, il capotribù degli Shawnee, al fine di vanificare e contenere l’espansione a ovest dei colonizzatori.

Gli americani, da parte loro, si dimostrarono interessati a conquistare parti del Canada.
Contemporaneamente, Perceval subì sempre più pressioni da parte di Nathan Rothschild affinché dichiarasse guerra agli Stati Uniti. Si rifiutò. L’esercito britannico era già a un punto morto in Spagna e in Portogallo contro le forze armate napoleoniche (con la Guerra Peninsulare del 1808-1814), e Perceval non aveva intenzione di impegnare ancora più soldati e risorse, da finanziare tramite altri prestiti a interesse, al solo scopo di salvare gli interessi bancari in caduta libera dei Rothschild in America.

L’assassino di Perceval si chiamava John Bellingham, nacque attorno al 1769 a St Neots, nel Huntingdonshire. Dal 1800 al 1802 lavorò ad Arcangelo come agente import-export. Tornato in Russia nel 1804, nel novembre di quell’anno fu ingiustamente accusato di non aver onorato un debito di 4.890 rubli, per il quale dovette scontare quattro anni di prigione. Una volta fuori, Bellingham andò a vivere a Liverpool, su Duke Street. Presentò invano un’istanza di risarcimento al governo.
Amareggiato e risentito, fece combriccola con due dissoluti mercanti americani, Thomas Wilson e Elisha
Peck, entrambi smaniosi che i decreti che impedivano alle nazioni neutrali di intrattenere scambi commerciali con la Francia venissero aboliti. Questi decreti erano stati introdotti da Perceval in risposta al blocco continentale  di Napoleone del 1806, che vietava gli scambi con la Gran Bretagna e l’Irlanda. Il dibattito sulla loro proroga era in programma al parlamento proprio quella fatidica sera della sua morte. Ci troviamo quindi di fronte a una convergenza di interessi, un uomo squilibrato e pieno di risentimento, e due avidi mercanti, con dietro il burattinaio Rothschild che tira i fili da dietro le quinte.
Alle 17:15 dell’11 maggio 1812, mentre Perceval faceva il suo ingresso nel vestibolo della Camera dei Comuni,
Bellingham si fece avanti e gli sparò al cuore. Mentre cadeva a terra, Perceval pronunciò le parole “Omicidio… Oh, mio Dio” per poi morire nel giro di qualche minuto. Quattro giorni più tardi, Bellingham fu processato presso la Old Bailey. Il processo durò tre giorni. La richiesta di infermità mentale venne respinta.
Probabilmente la breve durata del processo si spiega con la necessità di impedire che venissero fatte rivelazioni scomode. Come succede in caso di omicidi politici come questo, infatti, la teoria dell’“assassino che agisce da solo” doveva essere difesa a tutti i costi. Il 18 maggio del 1812, quindi, Bellingham fu impiccato. Qualche settimana dopo l’omicidio di Perceval, i decreti che impedivano alle nazioni neutrali di fare affari con la Francia furono revocati.

All’interno della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Henry Clay, un massone, era alla guida di un gruppo di giovani democratici-repubblicani noti come i “Falchi di Guerra”. La dichiarazione di guerra fu decisa il 1° giugno del 1812 con 79 voti a 49, con tutti e 39 i federalisti contrari.
In Senato il voto fu deciso per 19 voti a 13. Dal momento che non si raggiunse l’unanimità, i critici parlano spesso della “guerra di Madison”.

In Inghilterra il successore di Perceval, Lord Robert Liverpool, era un fervido sostenitore del conflitto. Tuttavia, nessuna delle due parti raggiunse i propri scopi, fatta eccezione per Nathan Rothschild, che il 10 aprile del 1816 riuscì ad aprire la Second Bank of the United States. Quando le ostilità cessarono, oltre due anni più tardi, il 24 agosto del 1814, le vittime ammontavano a più di 24.000.
In termini finanziari, la guerra si rivelò particolarmente onerosa per gli Stati Uniti, che accumularono debiti per la cifra esorbitante di 105 milioni di dollari su una popolazione di 8 milioni di abitanti. Questo causò un aumento del debito nazionale del 182%, dai 45 milioni di dollari nel 1812 ai 127 del 1815.
La pace fu sottoscritta a Gand, in Belgio, il 24 dicembre del 1814.

 

Mussolini invase la Grecia per dare una mano a W. Churchill?

Mussolini invase la Grecia per dare una mano a W. Churchill?

 

Il 3 luglio 1940 Mussolini stabilì che il grosso dell’esercito italiano dovesse schierarsi su posizioni che ne garantissero l’impiego contro alla Jugoslavia. Tre giorni dopo ordinò anche che si doveva preparare una offensiva contro alla Grecia, in caso di occupazione delle isole joniche da parte inglese. Questo spiega perché Mussolini non volle occupare una larga area del territorio francese, declinando l’offerta fattagli da Hitler, perché questo avrebbe bloccato almeno 10 divisioni italiane della 70 disponibili.

Il 28 ottobre 1940 l’Italia invase la Grecia, nel peggior periodo dell’anno. La Grecia era un paese retto dal dittatore folo fascista Giovanni Metaxas.  Mussolini non informò i tedeschi, che s’infuriarono. Il motivo addotto da Mussolini fu la sua intenzione di prevenire un’occupazione di quel Paese da parte delle forze britanniche. E del resto, il 12 ottobre 1940, Hitler aveva occupato la Romania, senza informare l’alleato italiano.

La nostra fu una mossa sbagliata e si è spesso cercato il vero motivo dietro a tale folle decisione, che finì per far precipitare le sorti della guerra, sia per gli italiani che per i tedeschi. Gli storici l’hanno spiegata con la gelosia di Mussolini per le conquiste di Hitler e il fatto che egli fosse trattato come un alleato di serie B.

Dunque, quella di Mussolini sarebbe stata solo una reazione nervosa, in risposta all’occupazione della Romania o c’era dell’altro? I generali italiani sapevano che attaccare la Grecia a fine ottobre fosse un madornale errore per via del tempo, inoltre erano a conoscenza dei preparativi militari fatti dai greci, che avrebbero reso difficile sconfiggerla.  Renzo de Felice scriveva anche dei timori nutriti da Mussolini che Hitler avrebbe concesso una onorevole tregua al governo britannico, escludendo l’Italia da tutti i possibili benefici.

Parlandone con Giorgio Carli, infaticabile organizzatore di eventi culturali a San Rocco di Quinzano, dopo la presentazione di un libro sulla Grecia scritto da Ennia Dall’Ora, ho pensato che ci potrebbe essere un’altra spiegazione. Una spiegazione mai prima presa in considerazione dagli storici ma che può essere messa in relazione con il misterioso carteggio segreto di Mussolini, fatto poi sparire dagli inglesi, dopo la sua cattura a Dongo.

Si tratta del Blitz germanico su Londra per indurre la Gran Bretagna alla capitolazione e che si svolse dal 7 settembre 1940 sino al 11 maggio 1941. Il 15 settembre 1940 vi fu il più pesante attacco diurno dei tedeschi.

Chiamarono quelle operazioni di bombardamento Seeschlange (serpente marino) che doveva consistere in un pesante martellamento che avrebbe preceduto uno sbarco anfibio, che era programmato per il 17 ottobre 1941, noto come operazione Seelöwe (leone marino), ma che fu bloccata da Hitler e poi rimandata  indefinitamente, anche se molti sostengono che fu un bluff per mettere pressione sulla Gran Bretagna.

Winston Churchill era a conoscenza di questi piani e si aspettava l’arrivo dei carri armati germanici, contro ai quali avevano ben poco da opporre. Non a caso quando Churchill pronunciò un suo alato discorso in Parlamento, il 4 giugno 1940, noto come “Li combatteremo sulle spiagge” nel sedersi disse: “E con cosa li combatteremo? Con le bottiglie scheggiate delle nostre birre, perché queste sono le armi che possediamo”.

Il momento di affrontarli sulle spiagge si era fatto prossimo e avevano già programmato il trasferimento in Canada dell’oro della banca d’Inghilterra e del Governo .

Certamente esistevano ancora dei canali aperti fra Churchill e Mussolini ed è possibile che in quei momenti disperati Churchill abbia suggerito l’apertura di un secondo fronte, con l’attacco alla Grecia e con l’apertura del fronte balcanico, che avrebbe coinvolto i tedeschi. Questa è solo un’ipotesi, buona come tante altre, ma che potrebbe spiegare, almeno parzialmente, la mossa irragionevole fatta dal Duce. Forse, la presenza di una traccia di queste richieste britanniche stava nella borsa che Mussolini teneva in grembo stando seduto nell’autocarro fermato a Dongo.

 

 

LE ILLUSIONI DI STRESA E IL TRADIMENTO INGLESE

LE ILLUSIONI DI STRESA E IL TRADIMENTO INGLESE

La mattina del 11 aprile 1935, Benito Mussolini sbarcava a Palazzo Borromeo, sull’Isola Bella, saltando giù da un idrovolante che lui stesso aveva pilotato. Lo attendevano i massimi rappresentanti politici di Gran Bretagna e Francia, mentre la Germania di Adolf Hitler non era stata invitata. Le discussioni terminarono tre giorni dopo con la firma di un accordo ritenuto molto importante, che creò quello che fu definito il ‘Fronte di Stresa’. In realtà i fatti successivi annullarono quelle speranze, che pure ebbero una risonanza mondiale e il cui fallimento, provocato dalla codardia della Gran Bretagna, portò diritto alla seconda guerra mondiale.

In Italia non sono mai stati pubblicati libri su questo tema, o dei saggi contenenti un’analisi storica spassionata di quegli effimeri accordi e dei loro tragici sviluppi. Eppure possiamo dire che quei giorni segnarono l’apogeo del prestigio e dell’Italia e di Benito Mussolini, più ancora che a Monaco nel 1938.

Le migliori analisi dedicate a questo intricato argomento sono dovute in Italia a Rosaria Quartararo, una brillante allieva di Renzo De Felice, e in Francia a Léon Noél, con il suo libro “Les Illusions de Stresa. L’Italie abandonée a Hitler” uscito nel 1975. La storiografia inglese è pressoché assente, forse perché non si sanno liberare dei loro complessi di superiorità, rafforzati dalla vittoria nella II Guerra Mondiale che si attribuiscono ma che in realtà andrebbe ascritta all’URSS in primis e agli Stati Uniti in secundis. Forse per questo motivo continuano a vedere nel Benito Mussolini diplomatico solo una sorta di clown.

Eppure quell’accordo fu definito dall’americano Pat Buchanan, nel suo “Churchill, Hitler and the Unnecessary War” come ‘il più importante tentativo fatto in Europa per fermare Adolf Hitler, prima dell’inizio della II Guerra mondiale’ e, addirittura, rincarando la dose, egli sottolinea che fu una follia, pochi mesi successivi, per la Gran Bretagna di aver votato contro l’Italia e applicato sanzioni punitive per l’invasione dell’Etiopia, spingendola nelle braccia di Hitler. La Francia invece accettò obtorto collo la sovranità italiana sull’Etiopia come uno scotto da pagare per mantenere unito il ‘Fronte di Stresa’: una ulteriore dimostrazione della sua importanza.

L’Italia e la Francia desideravano fortemente far fronte comune contro Hitler che, dopo che il 16 marzo 1935, aveva ripristinato la leva obbligatoria e dichiarato di voler creare una flotta aerea e di aumentare il numero di divisioni, stracciando gli accordi sottoscritti a Versailles con le nazioni uscite vincitrici dalla I Guerra Mondiale.

A Stresa Benito Mussolini pose sul tavolo vari argomenti, anche se la necessità di evitare l’Anschluss dell’Austria, che egli presagiva, fu quello centrale. Egli esordì mostrando di conoscere bene la situazione a Vienna, dicendo ai rappresentanti della Gran Bretagna, Ramsay MacDonald e John Simon, e a quelli francesi, Pierre Laval e Pierre-Etienne Flandin, che l’istituzione della leva obbligatoria in Austria avrebbe voluto dire la fine della sua neutralità, dato che i giovani austriaci erano tutti filo-nazisti.

Mussolini non voleva la Germania al Brennero e auspicava che l’Austria restasse una nazione cuscinetto, inoltre desiderava avere un avallo che gli consentisse l’occupazione dell’Etiopia, per vendicare l’onta di Adua del 1896. Non si parlò esplicitamente dell’invasione dell’Etiopia, ma Mussolini fece delle chiarissime allusioni, facendo capire che in cambio di quelle terre egli avrebbe sostenuto le altre potenze europee contro alla Germania nazista. Nessuno eccepì o lo avvertì di non azzardarsi a farlo. Se lo avessero fatto, dubitiamo che Mussolini avrebbe mosso l’esercito e, come ebbe poi a dire lo stesso primo ministro francese, Pierre-Etienne Flandin, se la Gran Bretagna fosse stata chiara non avrebbero inflitto poi una cocente umiliazione a Mussolini, ‘perché i dittatori non accettano umiliazioni’.

Prova della propensione a un compromesso da parte di Mussolini fu il fatto che egli si mostrò disposto ad accettare il piano Hoare-Laval, che prevedeva solo una parziale occupazione italiana dell’Etiopia, prima che una soffiata lo rendesse pubblico, provocando indignazione in tutta Europa. Dunque la Gran Bretagna, il Paese con più colonie al mondo, votò per le sanzioni all’Italia che attaccava l’Etiopia.

Come poi ebbe a dire il sottosegretario permanente al Foreign Office, Vansittart: ‘Con questo fiasco perdemmo l’Abissinia, perdemmo l’Austria, creammo l’Asse, e rendemmo inevitabile la guerra contro la Germania.’

La Gran Bretagna mantenne un comportamento assai ambiguo in quegli anni, credendo di poter addomesticare Hitler, la cui natura sanguinaria e i cui fini Mussolini, invece, conosceva benissimo e, subito dopo Stresa, cedettero alle lusinghe naziste firmando, il 18 giugno 1935, un accordo navale, senza informare Francia e Italia, secondo il quale posero in proporzione diretta Germania e Gran Bretagna per numero e tonnellaggio in navi da guerra, di fatto rinnegando sia gli accordi di Stresa che quelli di Versailles.

Benito Mussolini s’infuriò ma, purtroppo per lui e per l’Italia, si convinse che Hitler non poteva più essere fermato e che, pertanto, la tigre andava cavalcata.