La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La celebre Venere di Willendo è una statuetta di forme femminili alta 11 centimetri, trovata nel 1908 in un sito paleolitico vicino a Willendorf, un villaggio della Bassa Austria. La sua età stimata è di circa 30.000 anni e fu forse usata per scopi magici o medici. Questa è la più antica rappresentazione di un corpo femminile.

In un nuovo studio pubblicato dall’Università di Vienna in collaborazione con il Museo di Storia Naturale di Vienna, i ricercatori hanno applicato la tomografia ad alta risoluzione, trovando che la Venere proviene da una regione del nord Italia. Potrebbe trattarsi della pietra Galina, usata fra l’altro per la statua equestre di Cangrande della Scala.

L’antropologo Gerhard Weber dell’Università di Vienna ha utilizzato la tomografia a microcomputer per analizzare la Venere fino a una risoluzione di 11,5 micrometri. Insieme ad Alexander Lukeneder e Mathias Harzhauser del Museo di Storia Naturale di Vienna, il team si è procurato campioni comparativi dall’Austria e dall’Europa per confrontarli e determinarne geologicamente l’origine.

Lo studio ha scoperto che i dati della tomografia della statuetta avevano sedimenti depositati nelle rocce in diverse densità e dimensioni. In mezzo c’erano sempre piccoli resti di conchiglie e sei grani molto densi e più grandi, la cosiddetta limonite. Quest’ultima spiega le precedentemente misteriose rientranze emisferiche sulla superficie della Venere con lo stesso diametro: “Le limoniti dure sono probabilmente scoppiate quando il creatore di Venere stava scolpendo”, spiega Weber: “Nel caso dell’ombelico della Venere, hanno poi apparentemente fatto di necessità virtù”.

Il team ha anche scoperto che l’oolite della Venere è porosa perché i nuclei dei milioni di globuli (ooides) che la compongono si sono dissolti. Un’analisi più approfondita ha anche identificato un minuscolo residuo di conchiglia, lungo appena 2,5 millimetri, che è stato datato al periodo giurassico. Questo ha escluso tutti gli altri potenziali depositi della roccia del Miocene, molto più tardi, come quelli del vicino Bacino di Vienna.

I calcari nummulitici presentano un colore biancastro-giallastro, con struttura ruvida e grana grossolana. Il nome deriva dai nummuliti fossili (gusci circolari a forma di moneta; dal latino “nummus”=”moneta”), di cui sono ricchi. Due “varianti” dei calcari nummulitici sono il Calcare di Torbole e la Pietra di Avesa (Pietra Galina), posta in parte nel vicino comune di Quinzano. Entrambi i comuni fanno oggi parte del territorio di Verona.

La pietra è ricca in echinodermi e foraminiferi, ed è una calcarenite ad alghe e molluschi ben stratificata, ma anche un calcare di scogliera a coralli. La seconda è una pietra tenera, con struttura ruvida ma finissima, utilizzata nelle costruzioni romaniche cittadine.

Un’analisi sulla granulometria degli altri campioni ha rivelato che i campioni della Venere erano statisticamente indistinguibili dai campioni provenienti da una località del nord Italia vicino al lago di Garda. Questo è notevole perché significa che la Venere (o almeno il suo materiale) ha iniziato un viaggio dal sud delle Alpi al Danubio a nord delle Alpi. Anche se appare difficile sche si sia trasportato un frammento ancora da lavorare, molto più probabile che la figurina sia stata creata nel territorio di Avesa o Quinzano.

Uno dei due possibili percorsi dal sud al nord porterebbe intorno alle Alpi e nella pianura Pannonica ed è stato descritto in simulazioni da altri ricercatori alcuni anni fa. L’altro modo per andare dal lago di Garda alla Wachau sarebbe un passaggio attraverso le Alpi.

La più antica e dettagliata rappresentazione del volto femminile, finora ritrovata, riguarda la Dama di Brassempouy, ricavata da un frammento di avorio di Mammuth e sarebbe vecchia di 25.000 anni, fu scoperta nel 1892 in un piccolo villaggio della Nouvelle-Aquitaine, vicino al confine con la Spagna.
La Dama di Brassempouy
Mario Reading, un interprete di Nostradamus morto nel 2017, potrebbe aver previsto il futuro della monarchia britannica

Mario Reading, un interprete di Nostradamus morto nel 2017, potrebbe aver previsto il futuro della monarchia britannica

Mario Reading

Nostradamus ‘predisse’ che Re Carlo avrebbe abdicato per un nuovo monarca misterioso e inaspettato’. Una lettura popolare delle predizioni di Nostradamus sull’ascesa al trono di “un uomo che non si sarebbe mai aspettato di diventare Re”, ha fatto emergere un nome a sorpresa per il futuro monarca della Gran Bretagna.

Un importante esperto di Michel de Nostradame sostenne che l’astrologo francese del XVI secolo predisse che il Re Carlo III avrebbe abdicato per un monarca misterioso. Il libro di Mario Reading uscito nel 2006 reinterpretava le presunte letture profetiche di 450 anni fa per il 21° secolo, con un passaggio che ha una potenziale rilevanza per la Famiglia Reale britannica.

In ‘Nostradamus: The Complete Prophecies for the Future’, Reading suggeriva che il persistente turbamento dell’opinione pubblica causato dal divorzio di Carlo dalla Principessa Diana avrebbe messo a rischio il suo futuro regno.

In modo inquietante, ha persino previsto correttamente l’anno della morte della Regina Elisabetta II, prima di suggerire che ci sarebbero stati dei problemi per il nuovo Re, dicendo: “La premessa è che la Regina Elisabetta II morirà, intorno al 2022, all’età di circa 96 anni, cinque anni in meno rispetto alla durata della vita di sua madre”.
“Il Principe Carlo avrà 74 anni nel 2022, quando salirà al trono, ma il risentimento nei suoi confronti da parte di una certa parte della popolazione britannica, dopo il divorzio da Diana, Principessa del Galles, persiste ancora”.

Sebbene in un primo momento l’autore interpretò questo come un’affermazione che la corona avrebbe saltato la sua testa per arrivare su quella di William, un anno dopo l’autore modificò questa affermazione, in una versione rivista del suo libro.

L’autore scrisse che questo potrebbe, per ragioni misteriose che non gli sono ancora chiare, significare che l’attuale Duca di Sussex prenderà il suo posto, chiedendo se “il Principe Harry, per difetto, diventerà Re al suo posto? Questo lo renderebbe Re Enrico IX, a soli 38 anni”. Il libro di Mario Reading ha registrato un boom di vendite dopo la morte della Regina Elisabetta nel 2022 ed è tornato in cima alla classifica dei libri tascabili nelle settimane successive.

Lo scorso 24 febbraio abbiamo visto Carlo III commuoversi di fronte ai 7mila biglietti di auguri per una pronta guarigione arrivati a Buckingham Palace. In un video condiviso sui profili social della royal family il sovrano ha mostrato una selezione di lettere in cui molte persone “hanno condiviso la loro esperienza con il tumore”, come ha scritto il Palazzo e incoraggiato Sua Maestà a resistere e a lottare. Carlo ha dichiarato che tutti questi messaggi sono “il più grande incoraggiamento” per lui. A squarciare il velo di speranza di questo filmato, però, sono arrivate delle indiscrezioni secondo cui la malattia del Re sarebbe più seria di quanto pensiamo.

Buckingham Palace starebbe facendo l’impossibile per far credere che la malattia di Carlo sia sotto controllo e che presto anche questa tempesta passerà. Ma secondo l’esperto Tom Quinn la realtà sarebbe diversa e il Re starebbe già preparando la successione in favore del principe di Galles. Al Mirror l’autore ha dichiarato: “Carlo è consapevole del fatto che, come futuro Re, William è al centro dei piani per la successione che si stanno preparando proprio ora. I funzionari avevano ipotizzato che Carlo sarebbe rimasto in salute almeno [fino] a metà dei suoi ottanta anni prima che fosse necessario intraprendere la pianificazione della successione, ma in realtà sono iniziati ora e forse questo indica che il cancro di Carlo è più pericoloso di ciò che ci hanno indotto a pensare”.
L’impressione è che Tom Quinn sia quasi una voce fuori dal coro, perché le fonti di Palazzo riportano un’altra versione dei fatti, secondo cui Carlo III starebbe semplicemente delegando al primogenito gli appuntamenti pubblici a cui non può presenziare ora che sta seguendo la terapia contro il tumore. Una “reggenza soft” che non prevede l’assunzione di poteri da parte di William.

Da un lato, se anche vi fossero dei piani per l’ascesa al trono del principe William, cosa che per ora è fortemente in dubbio, forse nessuno avvertirebbe Harry per evitare che lo sappiano i giornali di tutto il globo. Dall’altro lato, però, di fatto il duca non ha una posizione rilevante nella linea dinastica. Comunque sia una fonte ha spiegato a Page Six: “Faccio fatica a credere che qualora [il Re] chiedesse aiuto al [duca] questi direbbe di no. Penso che proverebbe. Ma non penso sia qualcosa che Harry chiederebbe di fare spontaneamente”.

Peccato che Mario Reading non sia più fra noi, per spiegarci meglio le parole di Nostradamus.

 

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

 

Il Conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) fu Ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto di Savoia dal 1835 al 1847 ma fu poi cancellato dai gloriosi annali della storia risorgimentale e relegato in un angolino oscuro. Fu definito un reazionario, bigotto, contrario alla storia e un ottuso anti-Cavour.

La Gingko edizioni, una piccola casa editrice di Verona, ha ripubblicato un suo libro, intitolato “Questioni di Stato” uscito nel 1854, arricchita da una introduzione di Alessandre De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al ministero degli Esteri. Questo libro di Solaro della Margarita uscì al tempo dell’avventura in Crimea, con Francia e Gran Bretagna e da lui fortemente avversata.

Solaro, in 130 pagine e cinque punti, riassume ciò che avrebbero dovuti essere i capisaldi dello Stato Sabaudo, perché potesse continuare a esistere. Egli vide con chiarezza che la partita giocata da Cavour e dagli “italianissimi” (come sarcasticamente chiamava i patrioti italiani che volevano subito la guerra) fosse una partita assai azzardata. Lo stato dell’esercito e le finanze del Regno di Sardegna, a suo giudizio, precludevano uno scontro con una super potenza come l’Austro-Ungheria. Egli favoriva le vie diplomatiche, anche perché per sperare in un successo sul campo di battaglia avrebbe reso indispensabile l’intervento di una potenza straniera, come la Francia, che avrebbe poi inevitabilmente avanzato delle richieste territoriali e controllato la politica sarda.

Solaro fu licenziato dal suo Re dopo che decise di rompere gli indugi e passò alla guerra guadando il fiume Ticino. La follia delle decisioni prese da Carlo Alberto, privato del suo saggio Ministro degli Esteri, sono ormai a tutti manifeste. Basti guardare alla disfatta di Novara, inevitabile dopo che il Sovrano decise di affidare il proprio esercito a un mediocre generale polacco, più versato alla cartografia che nella guerra, inviso a tutti gli altri suoi generali, che neppure riuscivano a pronunciare il suo nome.

Alessandro De Pedys inquadra bene il personaggio e l’epoca: “Solaro guiderà la politica estera del Regno di Sardegna per quasi 13 anni, senza mai rinunciare ad agire sulla base delle sue convinzioni, spesso incurante delle conseguenze (i cattivi rapporti con la Spagna, ad esempio, avranno un costo economico rilevante per il Piemonte); il pensiero del monarca invece evolverà, come si è detto, e questa progressiva divergenza porterà Carlo Alberto alla decisione accettare le dimissioni del suo Ministro nel 1847. Tra i principali motivi di dissidio vi saranno l’ostilità del Re nei confronti dell’Austria e la consapevolezza del ruolo che la dinastia avrebbe potuto giocare nell’unificare almeno parte della penisola italiana, soddisfacendo in tal modo le secolari mire dei Savoia sulla Lombardia. Già nel 1832, dopo un solo anno di regno, Carlo Alberto scriveva nel suo diario: “De tous les côtés de l’Italie il nous revient que la haine contre les Autrichiens paraît se centupler et que les voeux de tous les honnêtes gens nous appellent; mais le temps de nous montrer n’est pas encore venu”.

L’editore ha inserito all’inizio del testo una celeberrima riflessione di Fëdor Dostoevskji, del 1877 e tratta dal suo Diario. Il grande scrittore russo pare della stessa idea del Solaro, espressa nelle “Questioni di Stato”.

Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della Nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!

 

 

 

I cinesi furono i primi a volare. Ce lo dice Marco Polo

I cinesi furono i primi a volare. Ce lo dice Marco Polo

 

Il carnevale di Venezia di quest’anno è stato intitolato a Marco Polo (1254-1324), forse il suo cittadino più celebre. Eppure, a dispetto della sua celebrità, esistono ancora molti aspetti del suo “Il Milione” che restano poco conosciuti. Per esempio, il fatto che nel suo libro troviamo la prima credibile descrizione del volo umano, al quale il grande viaggiatore deve avere assistito durante la sua permanenza in Cina.
La leggenda greca di Icaro è solo un mito dal punto di vista ingegneristico: chiaramente con cera e piume non si può arrivare lontani.
Leonardo Da Vinci lasciò vari disegni di costruzione di dispositivi volanti e, secondo Girolamo Cardano, che lo incontrò di persona, nel suo “De Subtilitate” dice che provò ma non riuscì a volare, quando ancora viveva a Milano. Poi, forse, ritentò a Peretola, vicino a Firenze. Il pilota, in entrambi i casi, potrebbe essere stato Tommaso Masini, soprannominato Zoroastro, nativo di Peretola, anche se non esistono prove al riguardo; comunque, gli abitanti di Peretola hanno posto una lapide commemorativa di questo primo “volo umano”.
Ciò che pare certo è che i cinesi volarono molto prima dell’epoca di Leonardo e abbiamo un testimone straordinario che lo attesta: Marco Polo, appunto. In Cina, fin dal III secolo a.C. venivano costruiti aquiloni giganti, che erano in grado di sollevare gli uomini da terra. Joseph Needham, nella sua opera monumentale “Scienza e civilizzazione in Cina” (Cambridge University Press, 1954, vol. IV, pagg. 576-80) disse: “Esistono prove schiaccianti che dimostrano che i cinesi sono stati i primi a portare un uomo in volo”.
Prima di tutto spieghiamo perché così poche persone, anche cinesi, conoscono la descrizione del volo umano fatta di Marco Polo.
Tornato dalla Cina, Marco Polo dettò le sue memorie, come prigioniero dei genovesi, a Rustichello da Pisa che le annotò in una sorta di Lingua d’oil. Queste ebbero un grande successo e vennero poi copiate e fatte circolare. Ma quando la prima edizione de “Il Milione” di Marco Polo venne stampata, nel 1496, l’editore dovette decidere quale manoscritto fosse attendibile e quale no. Il punto relativo agli uomini che volano in Cina fu omesso, per ragioni sconosciute.
Questo passaggio fu poi inserito per la prima volta nel libro “Marco Polo e la descrizione del mondo” di Moule e Palliot, vol. I, 1938. pp. 356 e seguenti. Questa edizione è oggi considerata la traduzione più completa e più autorevole del libro di Marco Polo e include anche un manoscritto che fu trovato da Sir Percival David (1892-1964) nella Cattedrale di Toledo, in Spagna.
Quel manoscritto era una copia latina del 1795, basata su un manoscritto risalente al 1400. Arthur Christopher Moule lo trascrisse, completo del testo latino e fu pubblicato nel 1935, come combinazione di diciassette versioni diverse dei manoscritti di Marco Polo in un unico documento e mise in corsivo tutte le parole che non si trovano nelle altre versioni. Un risultato di ricostruzione davvero straordinario.
Ma ecco il passaggio degli uomini volanti cinesi come Marco Polo li deve aver visti in Cina:

“E quindi vi diremo come, quando una nave deve partire per un viaggio, essi provano se i suoi affari andranno bene o male. I marinai creeranno una grata, e ad ogni angolo e lato di questa struttura sarà legata una corda, in modo che ci siano otto corde, e tutte saranno fissate all’altra estremità, da una lunga fune. Poi troveranno un pazzo o un ubriacone e lo legheranno alla piattaforma, poiché nessuno sano di mente o con la testa a posto si esporrebbe a questo pericolo. Questo viene fatto quando c’è un forte vento. Allora la struttura viene posizionata di fronte al vento, il vento la solleva e la porta in cielo, mentre gli uomini la tengono con la lunga corda. E se, mentre è in aria, la piattaforma s’inclina verso la direzione del vento, tirano un po’ la corda verso di loro, in modo che si rimetta dritta, dopodiché lasciano uscire un po’ di corda e la piattaforma sale più in alto. E se si inclina di nuovo, tirano ancora una volta la fune fino a quando il telaio è in posizione verticale e sale, e poi cedono di nuovo, in modo che si alza così in alto da non poter essere vista, se solo la corda fosse abbastanza lunga da lasciarla salire.
Il volo viene interpretato in questo modo: se la piattaforma sale dritta, raggiungendo il cielo, si dice che la nave per la quale è stata fatta la prova avrà un viaggio rapido e prospero, per cui tutti i mercanti concorrono per farla partire. Ma se la piattaforma non è riuscita a salire, nessun mercante sarà disposto a finanziare quella nave per la quale è stata fatta la prova, perché dicono che non potrebbe finire il suo viaggio e finirebbe oppressa da molti mali. E così quella nave rimane in porto per quella stagione”.

Dunque, furono i cinesi i primi a volare, utilizzando degli aquiloni, forse treni di aquiloni, o come li chiamano oggi, dei “power-kites”.

 

Angelo Paratico

 

Le Gallerie Nazionali di Scozia festeggiano il centenario di Edoardo Paolozzi

Le Gallerie Nazionali di Scozia festeggiano il centenario di Edoardo Paolozzi

 

Il 10 giugno 1940, scoppiò una rivolta a Edimburgo, quando una folla di 2.000 persone si riversò nelle strade, decisa a vendicarsi. I loro obiettivi erano barbieri, gastronomie e gelaterie italiane; qualsiasi cosa o persona italiana. Mussolini era appena entrato in guerra e la folla sentiva odore di sangue. La polizia alla fine sedò la violenza e gli abitanti più comprensivi della città aiutarono a spazzare i vetri rotti e a pulire il vino versato. Ma quasi la metà dei 400 italo-scozzesi della città furono radunati in base all’ordine di Winston Churchill di ‘metteyegli un cappio al collo’ e inviati nei campi di internamento. Tra loro c’era il sedicenne Edoardo Paolozzi, che fu rinchiuso nella prigione Saughton di Edimburgo.

Poteva andare peggio. Il padre, il nonno e lo zio di Paolozzi furono inviati in Canada sulla SS Arandora Star. La nave salpò senza l’identificazione civile della Croce Rossa e il 2 luglio 1940 fu silurata al largo della costa di Donegal da un U-Boat tedesco. Più di 800 dei passeggeri italiani, tedeschi ed ebrei a bordo annegarono, compresi i tre uomini di Paolozzi. I sopravvissuti riferirono che i soldati britannici spararono alle scialuppe di salvataggio per impedire la fuga dei prigionieri. Il giovane Paolozzi fu arruolato nel Corpo dei Pionieri prima di fingere la schizofrenia per ottenere il suo congedo. Dopo un periodo in un ospedale psichiatrico, nel 1944 ottenne un posto alla Slade School of Art e iniziò una carriera sorprendente che lo avrebbe visto guidare la rivoluzione della pop-art britannica e diventare uno degli artisti pubblici preferiti del Paese.

In occasione del centenario della sua nascita, le National Galleries of Scotland celebrano Paolozzi nella sua città natale con una mostra di 60 opere che tracciano la sua evoluzione artistica e celebrano il suo impatto culturale. Uscito dal trauma dell’esperienza del tempo di guerra e entrato nel mondo oscuro dell’austerità, il giovane Paolozzi fu sedotto dal glamour in technicolor dell’America, che entrava nella coscienza europea attraverso le riviste patinate che lui tagliava in collage. Per la prima volta mostrò queste immagini trovate sotto forma di diapositive nella sua conferenza Bunk! del 1952 all’Istituto d’Arte Contemporanea. In seguito si sono evolute in serigrafie. Si trattava di un modo moderno di vedere, informato dal bombardamento pittorico della TV, del cinema e del fotogiornalismo. Per Paolozzi, la rivista americana ‘rappresentava un catalogo di una società eclettica, abbondante e generosa… una forma d’arte più sottile e appagante delle scelte ortodosse della Tate Gallery o della Royal Academy’.

 

Una parte dell’Oro di Dongo si trova nei forzieri della Banca d’Italia, perché non viene inventariato?

Una parte dell’Oro di Dongo si trova nei forzieri della Banca d’Italia, perché non viene inventariato?

Giuseppe Prezzolini scrisse che Adolf Hitler terminò la propria esistenza in un crepuscolo wagneriano, mentre Benito Mussolini morì accoltellato in una rissa all’osteria. Non conosciamo i suoi intenti estremi, né i motivi del suo illogico vagare sulla riva occidentale del lago di Como. Chi sostiene che stava tentando la fuga in Svizzera dimostra di non conoscere bene la geografia lariana e neppure i fatti. La città di Como tocca la frontiera svizzera e non c’era nessun bisogno per lui di puntare verso l’alto lago per arrivarci. E, del resto, se la sua salvezza fosse stata il suo unico fine, gli sarebbe bastato radunare qualche migliaio dei suoi fedelissimi a Milano e poi attendere tranquillamente l’arrivo degli Alleati.  Perché non lo fece? Non lo sappiamo.

L’Oro di Dongo

Su questi argomenti si pensa già di sapere tutto, in realtà sappiamo troppo e, proprio a causa di ciò, la
confusione è totale. Di tanto in tanto si accenna anche al “oro di Dongo” ma pochi sanno che una parte di questo tesoro si trova in un forziere della Banca d’Italia e che solo in parte è stato aperto e inventariato.
Se ci fossero dei preziosi tolti agli ebrei, questi potrebbero essere restituiti ai legittimi proprietari.
Possibile che nessuno alla Banca d’Italia se ne possa prendere cura, dopo 80 anni?

La pista inglese

Sandro Pertini venne intervistato negli anni Settanta da Gianni Bisiach per una serie televisiva intitolata
“Le grandi battaglie”. Quel documentario è stato mandato in onda varie volte su Rai1. Il futuro Presidente della Repubblica dichiarava: “…invece nella borsa che Mussolini teneva con sé con tanta cura si dice che ci fossero lettere di Churchill, che Churchill aveva scritto a Mussolini prima della guerra e durante la guerra, questa è la cosa grave. Ora io credo che questo corrisponda a verità, perché poi furono inviati dal governo inglese emissari qui in Italia, penso direttamente da Churchill, per venirne in possesso di questa borsa. Anche io fui avvicinato da un uomo del comando inglese che mi chiese se per caso avevo notizia di questa borsa e di quello che conteneva. Io risposi di no perché non venni mai in possesso di questa borsa”.
I libri relativi alle ultime ore di Mussolini sono moltissimi ed è oramai difficile districarsi in quella selva
piena di mezze verità e di menzogne. Ma, forse, l’unico strumento che può essere usato resta il rasoio di
Occam. Pare che anche Renzo De Felice avesse una certa idea su come fossero davvero andate le
cose. Basti citare un’intervista che il grande storico del fascismo concesse al Corriere della Sera, il 19
novembre 1995, per capire come la pensava. Quel pezzo, firmato da Pierluigi Panza, era intitolato: “I
servizi inglesi dietro alla morte del duce.” De Felice dichiarò che: “La documentazione in mio possesso
porta tutta a una conclusione: Benito Mussolini fu ucciso da un gruppo di partigiani milanesi su
sollecitazione dei servizi segreti inglesi. C’era un interesse a far sì che il capo del fascismo non arrivasse
a un processo. Ci fu il suggerimento inglese: ‘Fatelo fuori!’. In gioco c’era l’interesse nazionale, legato
alle esplosive compromissioni presenti nel carteggio che il premier britannico Churchill avrebbe
scambiato con Mussolini prima e durante la guerra”.

I servizi segreti inglesi

Il SOE (Special Operations Executive) fu una sezione speciale dei servizi di intelligence inglese, con
decine di agenti attivi nell’Italia settentrionale, che operarono protetti dalle formazioni partigiane. Fu un servizio segreto smantellato alla fine della Seconda guerra mondiale, ma talmente segreto che, persino i comuni cittadini britannici ne ignorarono l’esistenza sino ai primi anni Sessanta.
Lo scrittore Mattew Cobb, che ha dedicato un libro agli agenti del SOE, dopo aver frugato fra ciò che
resta dei loro archivi, a Kew Garden, manifestava la propria frustrazione in un articolo uscito il 13 marzo 2009 sul Times, notando che: “Ripuliture, convenienti sparizioni e strani incendi hanno lasciato poco per l’indagine storica e un accordo con i guardiani di quelle memorie è ancora necessario per poterle consultare”.

Verso i primi anni Sessanta cominciarono ad apparire delle biografie di ex agenti del SOE, celebre quella di Manfred Czernin, direttamente coinvolto nella guerra partigiana in Italia e, solo allora, il primo ministro britannico Harold MacMillan, autorizzò la redazione d’una storia ufficiale di quel corpo, attingendo a ciò che ne restava agli atti. La scrisse un professore di storia di Manchester, tale M.R.D Foot e uscì nel 1966 con il titolo “SOE in France” al quale, nel 1984, fece seguito: “SOE. The Special Operations Executive, 1940-1946”.

 

Prove della spregiudicatezza di Winston Churchill

Winston Churchill confidò a Stalin che la storia l’avrebbe trattato bene, perché intendeva scriverla.
Mantenne la sua promessa, ma il piedistallo di granito che si pose sotto ai piedi viene progressivamente
sgretolato dalla storiografia moderna. Più che le sue decantate virtù, i suoi più acuti biografi tendono a
metterne in risalto gli errori e l’infantilismo; le sue continue interferenze in campo militare, una materia
che non conosceva e che provocò disastri e carneficine; la sua feroce indifferenza verso le sofferenze
umane e la propensione alla menzogna. Parlando di disonestà intellettuale, basti citare il fatto che nel
1953 ebbe il premio Nobel per la Letteratura grazie ai sei volumi della sua “Storia della Seconda Guerra
Mondiale” che furono un grande successo editoriale e che sono ancora in stampa. Ma quei libri non li
scrisse lui, come il professor David Raynolds ha brillantemente dimostrato nel suo: In Command of
History. Churchill fighting and writing the Second World War, Londra, 2004. Quei sei volumi vennero redatti da un gruppo di storici che Churchill pagò con un tozzo di pane, ma che ebbero accesso ai
documenti segreti che egli aveva sottratto, senza permesso, all’archivio di Stato. Churchill si limitò a
supervisionare il loro lavoro.
Gli esempi della sua disinvoltura a livello diplomatico non mancano. Ma ci limiteremo a citarne due,
perché hanno un valore paradigmatico. Il 18 giugno 1940 Churchill pronunciava in Parlamento uno dei
suoi più famosi discorsi, quello in cui manifestava la risoluzione della Nazione a combattere sino alla fine. Eppure, poche ore prima di pronunciare quelle alate parole, Edward Halifax, ministro nel suo governo e il suo vice, Richard A. Butler, discutevano i termini d’una pace separata con Hitler. Ne parlarono con un ministro svedese che si trovava a Londra, Bjorn Prytz e che, da quanto poi raccontarono, avrebbero incontrato casualmente mentre passeggiava in St. James Park. Successivamente tentarono di bloccare la pubblicazione delle note prese dallo svedese e, ulteriore bizzarria, le minute riguardanti il punto 5 dell’agenda d’una riunione del concilio di guerra, tenuto proprio nel pomeriggio di quel 18 giugno 1940, sono ancora coperte da segreto di Stato. Alcuni storici pensano che quel punto numero 5 riguardi proprio le condizioni di pace da offrire alla Germania.
Il secondo esempio riguarda una missione segreta compiuta a Londra, nel mese di ottobre del 1940, da
Louis Rougier, un filosofo che viene considerato uno dei padri del neoliberalismo. Vi era stato inviato dal maresciallo Petain e con il primo ministro britannico stilò una sorta di accordo che prevedeva, fra l’altro, che il governo di Vichy, al momento opportuno, avrebbe combattuto contro alle forze dell’Asse. Il Foreign Office poi negò tutto, sostenendo che mai, alle spalle di Charles de Gaulle, si erano cercati accordi con il governo collaborazionista di Vichy. Fu allora che il diligente professor Rougier, che si era tenuto una copia fotostatica di tutti i telegrammi, delle lettere e delle minute, fece stampare in Canada (in Francia nessuno lo volle pubblicare) un libro in cui stavano in appendice quei documenti, fra cui il famoso accordo, con le correzioni autografe apportate da Churchill. Il suo libro è ancora rintracciabile nelle librerie antiquarie e ne abbiamo una copia, qui davanti a noi. Louis Rougier “Les Accords Pétain
Churchill. Historie d’une mission segrète” Beauchemin, 1945. Lo stesso Petain, durante il suo processo,
ammise che tale accordo era esistito. Messo di fronte all’evidenza, il Foreign Office ignorò tutta la
faccenda e successivamente, nonostante che le credenziali di Rougier fossero impeccabili, riuscirono a
discreditarlo e a fargli perdere il suo posto di docente universitario.

La necessità di cercare negli archivi britannici

Perché, dunque, a distanza di tanti anni la Perfida Albione insiste a mantenere il coperchio sopra a
queste vecchie storie? Pensiamo che lo faccia essenzialmente per due motivi. Per celare il fatto che le
due guerre mondiali alle quali parteciparono nel secolo scorso non le combatterono solo per difendere la Patria dall’invasione germanica, come la maggioranza dei cittadini britannici crede, bensì per regolare gli eventi in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Gli stessi motivi che li avevano indotti a contrastare Napoleone. A un livello più minuto, la segretezza serve per proteggere la reputazione degli uomini e delle donne che vennero direttamente coinvolti in quegli eventi. Pochi sono ancora vivi, ma i loro successori politici ancora siedono in Parlamento e gli interessi economici in gioco sono enormi.

 

Angelo Paratico

Un bergamasco nella famiglia reale inglese

Un bergamasco nella famiglia reale inglese


Edo Mozzi Mapelli (nato nel 1983) è nato e ha studiato nel Regno Unito ed è il marito di Beatrice di York. È un milionario e un promotore immobiliare. Ha un figlio di quattro anni, “Wolfie”.
La madre del bambino è la designer e architetto cinese-americana Dara Huang. Mozzi e Huang si sono lasciati negli anni successivi alla nascita del figlio, ma sembrano mantenere un buon rapporto. La madre di Edo è Nicole Burrows, divorziata dal padre.
La famiglia Mozzi Mapelli appartiene alla piccola nobiltà bergamasca e la loro licenza reale risale al
1919. Ma se in Italia ci fosse ancora la monarchia, potrebbero essere chiamati conti.
Il loro palazzo, Villa Mozzi Mapelli, si trova a Ponte San Pietro. È una delle ville più imponenti della provincia di Bergamo. Fu ampliata nella seconda metà del XVIII secolo con l’attuale facciata neoclassica.
Fu la residenza dei conti Mozzi e poi, dopo l’estinzione della famiglia, all’inizio dell’Ottocento, divenne Villa Mapelli.

Il fortunato sposo è per metà italiano e per metà inglese. Suo padre, Alex (1951), è stato un campione olimpico di sci con la squadra inglese nel 1972 e vive in Provenza, dove si è risposato con Ebba Margaretha Antonie von Eckermann.

Il loro matrimonio era stato rimandato per via del Covid ed era stato di un più basso profilo, rispetto a quello della sorella Eugenie.

 

I libri di Napoleone

I libri di Napoleone

Kindle di Napoleone

 

Durante la sua prima campagna in Germania Napoleone vide un uomo alto, con il cappello in mano, fuori dalla tenda dove tenevano un consiglio di guerra. Erano nei pressi di Weimar, Napoleone gli andò incontro, ed esclamò: “Ecco un uomo!”. Lo aveva riconosciuto: era Wolfang Goethe, l’autore del best seller “I dolori del giovane Werther”.

Napoleone era un grande lettore di libri di ogni genere, ed ebbe a dire che avrebbe scambiato le sue più splendide vittorie per un libro da lui scritto, che avesse lasciato il segno nel mondo delle lettere. Alla fine ci riuscì comunque, una sera, a Sant’Elena, guardando il sole che tramontava sull’Oceano disse con un sospiro: “Ah, che grande romanzo è stata la mia vita”.

“Molti biografi di Napoleone hanno menzionato incidentalmente che era solito portare con sé un gran numero di libri preferiti, ovunque egli andasse, sia in viaggio che durante le campagne militari”. Si legge in un articolo del Sacramento Daily Union del 1885 pubblicato da Austin Kleon, “ma non è generalmente noto che egli fece diversi progetti per la costruzione di biblioteche portatili che avrebbero dovuto far parte del suo bagaglio”. La fonte principale dell’articolo, un bibliotecario del Louvre, figlio di uno dei bibliotecari di Napoleone, ricorda dai racconti del padre che “per molto tempo Napoleone aveva l’abitudine di portare con sé i libri che gli servivano in diverse scatole che contenevano circa sessanta volumi ciascuna”, ogni scatola, inizialmente, era fatta di mogano e successivamente di quercia, più solida e poi rivestita di pelle. “L’interno era foderato di pelle verde o di velluto e i libri erano rilegati in marocchino, con i titoli d’oro”, una pelle ancora più morbida e spesso utilizzata per la rilegatura.

Per utilizzare questa prima biblioteca itinerante, Napoleone fece compilare ai suoi assistenti “un catalogo per ogni cassa, con un numero corrispondente su ogni volume, in modo che non ci fosse mai un attimo di ritardo nello scegliere il libro desiderato”. Questo sistema funzionò abbastanza bene per un po’, ma alla fine “Napoleone si accorse che molti libri che voleva consultare non erano inclusi nella collezione, per ovvie ragioni di spazio. Così, l’8 luglio 1803, inviò al suo bibliotecario questi ordini:

L’Imperatore desidera che tu costituisca una biblioteca itinerante di mille volumi in piccolo formato, ovvero in 12mo, stampati in bei caratteri. È intenzione di Sua Maestà far stampare queste opere per il suo uso personale e, per risparmiare spazio, non ci devono essere margini. Dovrebbero contenere dalle cinquecento alle seicento pagine ciascuno ed essere rilegate con copertine il più possibile flessibili. Dovrebbero esserci quaranta opere sulla religione, quaranta opere drammatiche, quaranta volumi di poesia epica e sessanta di altre poesie, cento romanzi e sessanta volumi di storia, il resto saranno memorie storiche per ogni periodo”.

Insomma, non solo Napoleone possedeva una biblioteca itinerante, ma quando questa si rivelò troppo ingombrante per le sue numerose e variegate esigenze letterarie, fece realizzare una serie di custodie per libri, ancora più portatili.

Questo prefigurava in modo molto analogico il concetto dell’era digitale di ricreare i libri in un altro formato appositamente per la compattezza e convenienza – il tipo di compattezza e convenienza che oggi è sempre più disponibile per tutti noi (pensiamo a Kindle) e che Napoleone non avrebbe mai potuto immaginare, né tanto meno richiedere.

Angelo Paratico

Per fortuna Roma non si è aggiudicata EXPO 2030. Un mio vecchio articolo del 2015.

Per fortuna Roma non si è aggiudicata EXPO 2030. Un mio vecchio articolo del 2015.

 

Resti di Expo Hannover 2000, nel 2013.

 

Un mio vecchio articolo scritto nel 2015, prima dell’inizio di Expo a Milano. Può essere di consolazione per la mancata assegnazione dell’edizione del 2030 a Roma. Il pacco se lo prenderà Riad…

Spero di sbagliarmi e non vorrei passare per essere un gufo, ma è evidente che l’Expo si rivelerà un insuccesso, sia in termini di visitatori che in termini d’affari e d’immagine. L’invasione di turisti cinesi non si materializzerà perché il lavoro di canalizzazione di questo particolare turismo non è stato fatto in maniera organica da parte della Ambasciata d’Italia a Pechino e da tutti i nostri consolati sparsi per la Cina, nonché dagli uffici di turismo, dall’ICE, dalla Rai che ha creato un patetico website e via dicendo.

E’ stato tutto un “fai da te” disordinato, senza una regia centralizzata, senza un controllo rigoroso per contenere i costi e la corruzione; mi dicono che manca il personale che sappia dare indicazioni in inglese, molti degli obbiettivi ecologici iniziali sono stati accantonati e la cementificazione ha distrutto  terreno agricolo contraddicendo l’idea di base della esposizione.

“Facile per te parlare, ora!” dirà qualcuno, eppure questo lo avevo già scritto in un articolo uscito sul Secolo d’Italia pubblicato mercoledì 12 Dicembre 2007 a pag. 9 e che s’intitolava “Milano copi Londra, non Shanghai”.

Iniziavo lamentando che il sindaco di Milano, Letizia Moratti, non avesse voluto incontrare il Dalai Lama in visita a Milano, perché temeva l’ostilità cinese nell’assegnazione dell’Expo a Milano, e poi continuavo notando:

 

“Crediamo, però, che le preoccupazioni della Moratti siano eccessive: la Cina non c’entra nulla. La decisione di assegnare l’Expo verrà presa da un ente inter-governativo francese, chiamato Bureau International des Expositions (BIE), una sorta di fossile precedente la Prima guerra mondiale, che ha la funzione di regolare la cadenza di certe manifestazioni espositive internazionali. L’Italia ne fa parte, pagando ogni anno la propria quota associativa.

A differenza di quanto accade per giochi olimpici o per i mondiali di calcio, il nome World Expo non è brevettato e ogni Paese, in teoria, potrebbe usarlo. Infatti nel 1964 gli Stati Uniti organizzarono una propria World Expo, a New York, senza richiedere la benedizione di Parigi. E non solo, a partire dal 2001, dopo che per due anni il Congresso aveva rifiutato di ratificare il pagamento dei contributi annuali alla BIE, il segretario di Stato Colin Powell sanzionò l’uscita definitiva del proprio Paese da questa pseudo organizzazione.

L’edizione del 2000 fu tenuta ad Hannover, in Germania e fu un fiasco clamoroso: arrivò a far notizia soprattutto per il fatto che la municipalità tedesca si ritrovò con un buco da 1 miliardo di dollari: avevano preventivato 40 milioni di spettatori, ma se ne presentarono soltanto 18 milioni. L’edizione del 2005 si svolse ad Aichi, in Giappone, non riuscite a trovarla sul mappamondo? Neppure noi… Quella del 2008 si terrà a Saragozza in Spagna. L’edizione del 2010, invece, è stata data a Shanghai. E sapete chi erano gli altri illustri concorrenti a quell’ambito traguardo? Yeosu, nella Corea del Sud e Queretaro in Messico. E, anche qui, comprendiamo tutte le difficoltà del lettore in materia di geografia. Yeosu, non doma, tornò all’assalto aggiudicandosi l’edizione speciale del 2012, battendo sul filo di lana Wroclaw e Tangeri. Non ne avete sentito parlare? Neppure noi. Ora, noi capiamo i motivi dell’interesse manifestato da Shanghai nell’accaparrarsi questa esibizione, un po’ meno quelli di Milano.

Questo genere di manifestazioni sono le tenaglie che usa il partito comunista cinese per rafforzare la propria presa sul potere: servono solo per fini propagandistici. Non a caso, già da qualche anno, ogni capo di Stato che passa per Shanghai, vien portato a vedere il progresso dei lavori per l’Expo 2010 e gli vengono promessi contratti per partecipare alla realizzazione degli impianti e per gli sviluppi successivi. Vedendo tutto quel fervore edilizio, alcuni statisti tornano a casa con l’idea che si tratti di qualche cosa di molto importante, pur non capendo bene di che si tratti. A questa regola non era sfuggito neppure Romano Prodi quando, nel settembre 2006, aveva visitato i padiglioni che stanno sorgendo lungo il fiume Huangpu e che, una volta completati, accoglieranno quei 70 milioni di visitatori che hanno già messo in preventivo.  Sappiamo che i milioni per i cinesi non sono assolutamente un problema, ma i soldi che non entreranno in cassa invece lo sono. E, infatti, le previsioni per la fiera di Shanghai parlano già di una perdita netta di circa 3 miliardi di dollari, ma con il 40 percento coperto dal governo e il resto da banche e sponsor privati, gli organizzatori possono dormire sonni tranquilli.

Questo genere di circhi hanno fatto il loro tempo, oggi non servono più a mostrare ciò che un Paese produce, perché per saperlo basta fare una ricerca in internet. Gli operatori di ciascun settore non ne hanno bisogno, mentre ai turisti non interessa girare per questi caravanserragli: per questo motivo votano con i propri piedi, disertandole. Questo può spiegare perché il numero dei visitatori è sempre al di sotto delle aspettative degli organizzatori e spiega perché, alla fine, il bilancio va scritto con l’inchiostro rosso e non con quello nero. Crediamo che Milano non ne abbia bisogno e che dovrebbe, piuttosto, prendere esempio da città come Londra e New York, non da Shanghai e da Yeosu. Il sindaco dovrebbe agevolare una trasformazione di Milano da centro industriale a centro per i servizi avanzati, impegnandosi a far funzionare bene i mezzi di trasporto, snellire la burocrazia, abbassare le tasse e pagare meglio chi lavora. Milano va sviluppata in senso culturale, artistico e dello stile di vita. Non servono più queste grandi fiere, nate nell’Ottocento per vellicare l’orgoglio nazionalistico del popolo: è meglio investire in risorse per rendere pulite e sicure le strade. Milano ha bisogno di essere guidata da un sindaco visionario, aperto alle nuove istanze civili che scuotono il mondo”.

Questo è quanto scrivevo e che ancor oggi sottoscrivo. Uno dei maggiori problemi causati dall’Expo sarà l’utilizzo dei padiglioni a fine fiera, basta vedere cosa è successo a Saragozza e Hannover, dove si osservano dei paesaggi desolanti, dei veri e propri monumenti alla follia dei paesi ricchi che hanno soldi da buttare.

Ripetiamolo: non è più il tempo per questi circhi, oggi si viaggia, si comunica velocemente ed esistono una miriade di fiere specialistiche in tutto il mondo. Non serve a nulla concentrare in un posto dei capannoni dove si raccoglie di tutto e perciò nulla di preciso e sarebbe ora di smetterla con queste esposizioni che servono solo ad alimentare la vanità di uomini politici, di architetti e di sedicenti esperti di alimentazione.

Concludo con la speranza di aver scritto una gran quantità di fesserie, e che l’Expo 2015 si rivelerà un successo memorabile, che chiuderà in positivo, che rilancerà la nostra economia e che i capannoni si trasformeranno in centri di aggregazione sociale e culturale.

Angelo Paratico