Esclusivo: il nostro Michael Santi si candida per un posto al vertice della Banca Centrale Svizzera

Esclusivo: il nostro Michael Santi si candida per un posto al vertice della Banca Centrale Svizzera

Un articolo su Blick (il quotidiano franco- tedesco con la più alta circolazione in Svizzera) lancia, a sorpresa, la candidatura di Michael Santi per il prestigioso posto di membro del consiglio e presidente della BNS Banca Centrale Svizzera.

articolo di Christian Rappaz per il settimanale svizzero BLICK

Micheal Santi è un economista franco-svizzero, temuto e rispettato negli ambienti finanziari per la sua battaglia contro gli eccessi speculativi, ora pensa di aver le carte inr egola per di succedere a Thomas Jordan, che lascerà la guida della Banca Nazionale Svizzera (BNS) il 30 settembre 2024. In un’intervista esclusiva con il Blick, dice cosa intende fare in merito. Per lui è indispensabile che la BNS “sia il grande difensore del risparmio privato e uno scudo della neutralità”.

Il franco svizzero potrebbe continuare a perdere terreno rispetto all’euro. Thomas Jordan progettava di dimettersi dalla BNS da oltre due anni, e avrebbe dovuto farlo. Il franco svizzero si avvia verso il peggior trimestre degli ultimi 21 anni rispetto all’euro

Se la sua candidatura dovesse essere accettata dal Consiglio Federale, l’uomo che vuole abolire la banconota da 1.000 franchi per combattere gli abusi e con l’obiettivo di distribuirne una parte dei profitti ai Cantoni e di creare un fondo sovrano la cui missione sarà quello di sostenere iniziative sociali per la popolazione.

Chi è lei, Michel Santi?
Sono nato il 17 aprile 1963 a Beirut, in Libano, da madre libanese cristiana ortodossa e padre francese, diplomatico presso il Ministero degli Affari Esteri. Poiché mio padre era uno specialista dei Paesi arabi, abbiamo vissuto in diversi Paesi del Vicino e Medio Oriente.

Quando è arrivato in Svizzera?
Nel 1983. Per la precisione a Ginevra, dove all’età di 22 anni ho iniziato a lavorare nel settore bancario dopo aver lasciato la scuola di medicina alla fine del terzo anno. In seguito, ho lavorato anche come gestore di fondi. Nel 2017 ho conseguito un Master 2 in Diritto bancario e finanziario presso l’Università di Nizza. Prima di allora, ho lavorato come consulente indipendente per banche centrali e fondi sovrani. Non posso fare i nomi, perché gli incarichi erano riservati. Sono diventata cittadino svizzera nel 1997.

Quali sono state le sue esperienze più memorabili?
Fino all’età di 19 anni, ho vissuto in Paesi del Medio Oriente, dove ho imparato moltissimo. Grazie al contatto con altre religioni, ho acquisito uno spirito di adattamento e un senso di negoziazione improntato al rispetto per gli altri. Allo stesso tempo, sono rimasto impressionato dalla Finanza Islamica (IF), che ha molto da offrire al nostro modello occidentale, perché eviterebbe molti abusi speculativi.

In che modo, in termini concreti?
Per farla breve, l’IF mette al bando la leva finanziaria responsabile di tutti i nostri fallimenti. Più recentemente, in Libano, ho potuto osservare le conseguenze devastanti per la popolazione e per il sistema bancario, un tempo orgoglio del Paese, degli eccessi della sua banca centrale e del suo capo, che per anni è stato considerato il salvatore della nazione ma che, in realtà, si destreggiava in quella che lui chiamava “ingegneria finanziaria”, che equivaleva a giocare con le risorse del Paese.

E i suoi più grandi successi?
Credo che i miei più grandi successi siano i miei libri. Già nel 2008 e durante la crisi finanziaria, sono stato uno dei primi a sostenere la necessità di dare priorità assoluta all’economia reale a scapito dell’economia virtuale, che ha un innegabile effetto dannoso. Sono anche un discepolo del grande economista britannico Keynes, il cui lavoro può essere riassunto in una parola: umanesimo. Condanno fino in fondo gli errori dell’attuale sistema finanziario, che condiziona letteralmente le nostre vite, intrappola i più vulnerabili e mette a dura prova le casse pubbliche.

Lei è un candidato a sorpresa alla successione di Thomas Jordan. Cosa l’ha spinta a partecipare a questa corsa, che in linea di principio è aperta solo agli addetti ai lavori?

All’inizio dello scorso anno, l’editore Favre mi ha chiesto di scrivere un libro sulle gigantesche perdite della BNS nel 2022, che, ricordo, ammontavano a 132 miliardi di franchi svizzeri.

La cosa l’ha stuzzicata?
Dopo molte ricerche, mi sono reso conto che questo deficit abissale fosse il risultato diretto della perdita di controllo da parte della banca centrale, che di fatto si era trasformata in uno dei più grandi hedge fund del mondo. Ho scritto un libro al riguardo, con argomentazioni dettagliate, che non è stato criticato in alcun modo dalla BNS. Sono finiti i tempi in cui la BNS era composta da poche persone che sedevano in una torre d’avorio e si accontentavano di tenere conferenze stampa ai giornalisti che si lavavano le mani quando la loro banca perdeva 132 miliardi e giravano la testa quando i Cantoni venivano privati delle loro indennità.

Non appartenere all’élite sarà senza dubbio un handicap insormontabile…

Forse. Ma sono orgoglioso dei molti libri che ho scritto, che danno un’idea del mio stato d’animo. Faccio parte del sistema, ma non esito a denunciarne gli eccessi. Semplicemente perché non ne sono più dipendente. La mia ambizione, in linea con le tesi che difendo, è quella di essere un grande servitore del popolo svizzero e non dello Stato.

E questo significa?

La Banca nazionale ha ora un ruolo diverso da svolgere. Oltre a monitorare il valore del franco svizzero e ad attivare la leva dei tassi d’interesse, che gli esperti o sanno non farà miracoli, deve mettersi senza ulteriori indugi al servizio della popolazione e delle imprese.

A 61 anni, lei vuole succedere a un Presidente che ha la sua stessa età, ma che ha trascorso dodici anni alla guida della BNS. Qual è la sua motivazione di fondo? Far ripartire l’economia?

Niente affatto. Non mi candido solo per fare rumore o attirare l’attenzione su di me, ma per provocare un dibattito di idee. In un mondo sempre più radicalizzato, la Banca centrale non deve esitare a scendere in campo, come si dice, per proteggere gli interessi vitali del Paese. E mi creda, prima o poi questi interessi saranno minacciati, perché tutti saranno a corto di denaro e di risorse, il che porterà a guerre multiple e costose. La Banca nazionale deve essere il grande difensore e scudo della neutralità, perché la ricca Svizzera sarà inevitabilmente presa di mira prima di quanto noi svizzeri, abituati a un certo atteggiamento spensierato, pensiamo. I politici in genere non capiscono molto di economia e ancor meno di finanza.

C’è un modello che la ispira?
Sì, quello del visionario Mario Draghi che, vedendo che i politici europei non erano in grado di salvare l’euro, ha attraversato il Rubicone nel 2012. Naturalmente, si è scontrato con l’ira dei Paesi del Nord impauriti ma, alla fine, ha usato il potere d’urto della Banca Centrale Europea per sottomettere i mercati.

Si può davvero essere un buon presidente di banca centrale quando si dipende dai politici?
Assolutamente sì. Poiché sono convinto che l’economia debba essere subordinata alla politica, sono favorevole alla politicizzazione di questa funzione. In primo luogo, perché i politici in genere non capiscono molto di economia e ancor meno di finanza. Torno all’esempio di Mario Draghi, che è stato il primo a politicizzare il ruolo di presidente della banca centrale per guidare i politici che non capivano nulla della crisi e negavano le minacce all’euro. D’altra parte, in un’epoca di instabilità, la banca centrale deve esercitare tutto il suo peso sulla governance economica di un Paese.

E lei pensa di essere l’uomo giusto per questo lavoro?
Oggi il denaro è diventato un’arma. Ecco perché dobbiamo politicizzare questa funzione. In modo da avere un combattente preparato a combattere in questa arena di guerra economica globale. Le incertezze e le tempeste che arriveranno saranno di vario grado, ed è fondamentale, sia per la solidità del nostro sistema che per guadagnarne il rispetto, che il suo banchiere centrale combatta ad armi pari. In altre parole, non solo con la forza tradizionale della sua istituzione, ma anche con l’autorità che emanerà. Trovo spiacevole che sia stata estromessa l’unica donna che abbia mai fatto parte del Comitato esecutivo della Banca nazionale, Andrea Maechler.

I tre membri della Direzione generale della BNS sono nominati dal Consiglio federale. Quali sono tre buone ragioni per cui il Consiglio federale dovrebbe approvare la sua nomina?

Non dimentichiamo mai che BNS = CHF = stabilità dei prezzi = sostegno al popolo svizzero = responsabilità. Gli altri due motivi derivano da questo. Voglio stabilire un’etica di responsabilità nei confronti della popolazione all’interno della BNS. Può sembrare populista, ma è giusto che nel Paese più democratico del mondo, la sua banca centrale si crogioli in uno splendido isolamento?

Nel suo ultimo libro, intitolato “Tutti gli errori della Banca Centrale Svizzera” lei critica la BNS per le sue operazioni opache e le sue politiche finanziarie sbagliate. Pensa che questo sia il modo migliore per diventarne direttore?

Non sono io che conto, ma le posizioni che assumo e gli argomenti che espongo.

Lei è stato il miglior nemico della BNS per diversi anni. Thomas Jordan e il suo Comitato esecutivo hanno fatto un lavoro così cattivo nell’ultimo decennio?

No, no, non sono un nemico. Non posso essere il nemico della banca centrale del proprio Paese. Sto solo cercando di gettare una luce diversa: quella di un uomo con un’esperienza professionale e umana internazionale. Quella di un uomo con una cultura ispirata alla diversità. Quella di un uomo che ha praticato il sistema da ogni angolazione e che ne ha preso le distanze. Quella di un intellettuale che ha cercato di spiegare le varie e ripetute crisi subite dal nostro mondo negli ultimi 25 anni. E infine, quella di un uomo con i piedi ben saldi a terra, lontano dai circoli chiusi e in contatto quotidiano con le ‘persone reali’.

Non ha risposto alla mia domanda. Thomas Jordan e il suo consiglio di amministrazione hanno fatto un lavoro così scadente?

Per quanto riguarda il loro curriculum, le ricordo le vendite da panico di grandi pacchetti di azioni al ribasso del mercato nel 2022. Gran parte del loro portafoglio era costituito da azioni quotate nell’indice statunitense Nasdaq, e queste vendite hanno avuto luogo al culmine del crollo del mercato. Da quel minimo, il Nasdaq ha recuperato il 60%. Lo stesso vale per l’oro, come dico nel mio libro. La vendita prematura di una parte sostanziale dello stock a 350 dollari l’oncia, ordinata dal predecessore del signor Jordan, lascia la Svizzera con un deficit di 67 miliardi di dollari, calcolato sulla base del prezzo di febbraio 2023. Vi lascio fare la regola del tre con il prezzo attuale di 2300 dollari l’oncia. Il senso del tempismo della BNS mi lascia stupefatto.

Stefan Gerlach, membro dell’Osservatorio della BNS ed ex vice governatore della Banca d’Irlanda, ritiene che Thomas Jordan sia diventato troppo potente. È d’accordo?

Se fosse così, non si sarebbe dimesso. Al contrario, credo che sia logorato dalle crisi che ha dovuto affrontare negli ultimi anni. Franco svizzero, Covid, Crédit Suisse, perdite monumentali, ecc. Penso anche che senta che le tempeste che verranno saranno formidabilmente complesse e che potrebbe non avere più l’energia sufficiente per gestirle.

Il presidente dell’Osservatorio, Yvan Lengwiler, che è succeduto a Jean Studer di Neuchâtel, ha ventilato l’idea di una presidenza a rotazione alla guida della BNS. Sul modello del Consiglio federale. Pensa che sia una buona idea?

No, diminuirebbe l’autorità della BNS in un mondo in cui la Svizzera ha bisogno di affermarsi più che mai.

La BNS è probabilmente l’unica banca centrale al mondo con solo tre persone al timone. Non è un po’ inverosimile?
Solo un esempio a sostegno della sua domanda. L’Islanda, con una popolazione di 375.000 abitanti, ha quattro membri alla guida della sua banca centrale. Allo stesso modo, con una popolazione di 8.800.000 abitanti, in teoria dovrebbero esserci non meno di 93 persone nel Consiglio di amministrazione della BNS… eppure ce ne sono solo 3! Questa situazione è inaccettabile per un Paese come la Svizzera. Inoltre, nessuno sa cosa viene detto tra i tre membri in questione, che non sono obbligati a riferirlo, nemmeno al Consiglio federale. Ho partecipato personalmente a commissioni della Federal Reserve degli Stati Uniti, dove decine di membri del personale partecipavano insieme ai governatori.

Ammettiamo che lei sarà nominato capo della Banca Centrale il 1° ottobre. Qual è la sua prima azione e la sua prima decisione?
Innanzitutto, dato che dal 2021 la Banca nazionale non ha distribuito nulla ai Cantoni e che tra il 2012 e il 2021 ha distribuito loro solo 26 miliardi di franchi dei suoi 172 miliardi di franchi di utili, sto riequilibrando il bilancio e noto che la vendita oggi del nostro saldo in oro – 1.040 tonnellate – porterebbe 73 miliardi di franchi. Inoltre, venderò gradualmente tutte le posizioni speculative che la Banca nazionale detiene sul mercato azionario, approfittando degli attuali livelli irragionevoli.

E poi?

In secondo luogo, terrò in custodia tutte le somme ricevute. Ne distribuirò una parte ai Cantoni e, per la maggior parte, spingerò per la creazione di un fondo sovrano svizzero, la cui missione sarà quella di effettuare investimenti a lungo termine per i cittadini svizzeri e nel loro interesse. La Svizzera è forte, ma non può essere forte e rispettata mantenendo la sua banconota da 1.000 franchi, che incoraggia ogni tipo di abuso e penalizza la sua politica monetaria.

Sta insinuando che questa sarebbe una soluzione per finanziare la 13esima pensione AVS, ad esempio?

Consentire ai nostri anziani di vivere in modo dignitoso è uno dei modi migliori per investire nelle persone. Ecco perché sono in linea con i risultati del voto dello scorso marzo sia sull’età pensionabile che sulla tredicesima pensione. Credo che investire nelle nostre persone sia il miglior investimento che la Banca nazionale possa fare. In terzo luogo, propongo di abolire la banconota da 1.000 franchi. La Svizzera è un Paese forte, ma non può essere forte e rispettata mantenendo questo taglio, che incoraggia ogni tipo di abuso e penalizza la sua politica monetaria. È ora che il nostro Paese lasci il mondo dei dinosauri.

Michel Santi come capo della BNS avrebbe salvato il Credit Suisse?

No. Ma non avrei agito in modo così conservatore prima. Ho nostalgia di un tempo in cui passeggiavo per Ginevra e Zurigo e mi meravigliavo del numero di banche presenti nelle strade. A mio avviso, è fondamentale per il Paese, per i suoi consumatori e per i risparmiatori che ci sia un gran numero di banche in Svizzera. Sono fermamente contrario al principio “too-big-to-fail”, perché a pagare sono sempre i risparmiatori. Keynes parlava di socializzare le perdite e privatizzare i profitti. È inaccettabile procedere con un tale salvataggio senza spiegarlo ai cittadini e senza consultarli. E non mi dica, come al solito, che dobbiamo agire in fretta…

Quali azioni proporrebbe per indebolire il franco svizzero e allentare la morsa sulla nostra industria di esportazione?

Abbassare immediatamente i tassi di interesse per indebolire il CHF e ampliare il differenziale con l’euro. È stato un errore aumentare i tassi di interesse e allinearci semplicemente alla Banca Centrale Europea. L’Europa e la Svizzera stanno combattendo la stessa battaglia contro le loro classi medie.

Quale ruolo può svolgere la Banca nazionale per rafforzare il potere d’acquisto degli svizzeri o, quanto meno, per arrestarne l’erosione?
Attraverso la creazione di un fondo sovrano, uno dei cui compiti sarebbe quello di sostenere le iniziative sociali. Oppure attraverso distribuzioni contrattuali regolari (da definire) ai Cantoni, che dovranno trasferirle ai loro residenti. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stampano denaro e accumulano debiti, mentre la Svizzera si contorce e si affama per non aumentare il proprio debito. Non dovremmo creare denaro su larga scala e iniettarlo nella nostra economia? Spesso dico che l’austerità è la lotta di classe dei tempi moderni, perché è assurdo e controproducente gestire un bilancio statale come un bilancio privato.

La nostra politica dei piccoli passi è ancora in sintonia con i tempi?

Questi sono tempi di grandi decisioni. La più fondamentale sarà quella di proteggerci in un mondo sempre più brutale.

Cosa risponde a coloro che dicono che non ha alcuna possibilità di ottenere il lavoro?

Questa è la loro opinione, e personalmente apprezzo la mia fortuna di vivere in un Paese in cui posso candidarmi pubblicamente. Aggiungo che il mio profilo, la mia carriera e le mie proposte per la Banca nazionale meritano di essere prese in considerazione e, perché no, discusse.

Jerome Powell, capo della Federal Reserve degli Stati Uniti, ha dichiarato che la sua istituzione non si occupa di cambiamenti climatici. Cosa ne pensa?
Si sta attenendo al suo mandato e si sta preparando per una presidenza sotto Donald Trump e i suoi compari negazionisti del cambiamento climatico.

 

Ernest Hemingway fu una spia sovietica

Ernest Hemingway fu una spia sovietica

Hemingway in Cina

 

Nicholas Raynolds, storico, ex ufficiale dell’esercito americano e poi dirigente della CIA, ha da poco pubblicato con HarperCollins un avvincente ed equilibrato libro, intitolato: “Ernest Hemingway’s secret adventures, 1936-1961. Writer, Sailor, Soldier, Spy”.

La sua ricerca su Hemingway iniziò alcuni anni fa, dopo aver letto che nell’ agosto 1944, in compagnia di un colonello del OSS aveva liberato il bar del Ritz di Parigi. Si chiese che stesse facendo in tale compagnia, e si chiese se anche lui avesse collaborato con i servizi segreti statunitensi. Incuriosito, prese a indagare in vari archivi e a leggere le memorie di persone che lo avevano conosciuto, finché, a un certo punto, scoprì che non aveva lavorato solo come spia americana ma anche per il “Commissariato per gli affari interni sovietico” il temutissimo NKVD, predecessore del KGB. Le conferme di questo fatto cominciarono a filtrare anche da frammenti di rapporti resi pubblici in Russia, dopo la caduta del muro di Berlino e dalle memorie di alcuni celebri transfughi, come Alexander Vassiliev e Alexander Orlov.
Queste rivelazioni colpirono l’autore come una “gomitata nello stomaco” ma poi lo spinsero a indagare, per cercare di capire per quale motivo Hemingway lo aveva fatto, dato che egli rimase sino alla fine della sua vita un anarcoide, un patriota che non ebbe mai bisogno di soldi.

Nel 1934, il comune di Key West in Florida dichiarò bancarotta e il governo federale fu costretto a intervenire. Hemingway vi risiedeva con la sua seconda moglie e lanciò un pesante attacco politico al presidente Roosevelt per certe sue decisioni, a suo dire, contrarie all’interesse di categorie più umili, che ancora non si erano risollevate dalla grande depressione del ‘29. Queste sue prese di posizione furono apprezzate dal partito comunista americano e dal suo giornale “New Masses” che vi diede ampio risalto.
Allo stesso tempo in Unione Sovietica vennero tradotti e stampati certi suoi saggi e il suo traduttore russo, Ivan Kashkin, iniziò con lui una fitta corrispondenza, che continuò per molti anni. Questo fatto, in un Paese in preda alla fobia anti-americana, non può esser visto come casuale e di sola pertinenza letteraria.
In quegli anni, Hemingway aveva sviluppato una forte intolleranza nei confronti del fascismo e del nazismo, che poi si radicalizzò con la guerra civile spagnola. Odiava Mussolini e Hitler, ma a ben guardare, per visione del mondo e aspirazioni era simile a loro: possedeva un carattere autoritario e forcaiolo, da macho intollerante, bellicoso e nutriva simili aspirazioni catartiche a livello mondiale.

Andò in Spagna nel 1937, dove già dalla fine dell’anno precedente Stalin inviava meno combattenti di Hitler e Mussolini, ma più istruttori e più uomini dei servizi segreti, per sostenere le forze repubblicane che combattevano Franco. Oggi sappiamo che lo fece per distogliere l’attenzione dalle feroci purghe che stava conducendo in Russia e per rafforzare il fronte comunista internazionale.
Hemingway in Spagna incontrò Alexander Orlov, il capo del NKVD e superiore di Palmiro Togliatti, Aldo Lampredi, Luigi Longo. I gendarmi sovietici si occupavano più che altro di condurre purghe interne – a quel tempo erano ossessionati dai trotzkisti – conducendo interrogazioni, torture e poi facevano sparire le loro vittime. Almeno una delle loro basi in Spagna era stata attrezzata con un crematorio sul retro, per far sparire i cadaveri. Ma anche i franchisti da parte loro si macchiarono di orrendi crimini, come sempre accade durante le guerre civili.
L’esperienza spagnola fu per molte persone traumatizzante e lo fu anche per Ernest Hemingway, che vi radicalizzò le sue opinioni. Nel frattempo si era messo con la donna che sarà la sua terza moglie, l’affascinante bionda Martha Gellhorn.
I sovietici, intuendo l’importanza di un autore come lui, gli affiancarono una loro spia, l’olandese con talenti artistici, Joris Ivens, membro del Comintern e, successivamente, il tedesco Gustav Regler. Similmente si comportarono con Arthur Koestler e John Dos Passos, ma con questi due autori Hemingway romperà i rapporti, perché criticarono i comunisti che secondo lui, nonostante i loro crimini, erano gli unici a combattere il nemico.
Tornato temporaneamente negli Stati Uniti, Hemingway tenne una conferenza a New York molto favorevole all’azione sovietica in Spagna, stigmatizzando l’inerzia delle democrazie occidentali. Piacque a Orlov e sappiamo che a partire da quel momento gli venne data carta bianca da parte russa. Orlov lo rivide il 7 novembre 1938, anniversario della rivoluzione russa e della difesa di Madrid, ma già cominciava a dubitare dell’efficacia del supporto concesso a quel genere di intellettuali e anni dopo scriverà nelle sue memorie un giudizio molto tranchant: “Hemingway e i tipi come lui erano i principali motivatori di quella guerra, nel senso che influenzavano l’opinione pubblica verso la causa repubblicana…e questo prolungò inutilmente il conflitto.”
L’esperienza spagnola si concluse con il suo crollo psicofisico. Parlando a Randolfo Pacciardi, l’eroico comandante delle brigate Garibaldi e gran maestro della massoneria, il quale si preparava a partire, senza aver più una patria, un lavoro e una casa, tornato in camera scoppiò in lacrime come un bambino, come ricorda Martha Gellhorn nelle sue memorie.

Nel 1940 Ernest Hemingway incontrò varie volte il capo del NKVD per gli Stati Uniti, Jacob Golos e una traccia della disponibilità di Hemingway a collaborare è emersa recentemente dagli archivi di Mosca, tant’è che gli venne assegnato uno pseudonimo da usarsi in tutte le comunicazioni che lo riguardavano. Era diventato l’agente Argo.
Golos era entusiasta di lui e raccomandò Mosca di fissare un incontro in estremo Oriente perché egli stava per partire per un lungo viaggio da quelle parti. Hemingway diede a Golos dei francobolli cubani, dicendogli di darne uno quando un loro agente segreto voleva farsi riconoscere dopo averlo contattato.
I dettagli di quanto si dissero non li conosciamo e non sappiamo fin dove si spinse Hemingway con la sua disponibilità, ma il patto fra Stalin e Hitler e la successiva invasione della piccola Finlandia non mutarono la sua visione positiva nei loro confronti.
All’inizio del 1941, Hemingway e la Gellhorn partirono per la Cina dove incontreranno Chou Enlai e Chang Kaishek. Visitarono prima la base di Pearl Harbour e Hemingway, profeticamente, scrisse che era una follia tenere aerei e navi così concentrati ed esposti a un attacco improvviso. Un’altra intuizione notevole riguarda la colonia britannica di Hong Kong e del clima di spensieratezza che vi regnava, nonostante la guerra combattuta dai giapponesi oltre il confine: egli profetizzò che i britannici avrebbero fatto la fine di topi in trappola.

Ritornato nella sua casa di Cuba e stanco della Gellhorn, convinse l’ambasciatore americano all’Avana di fargli condurre una sorta di guerra segreta a inesistenti spie naziste sull’isola e poi di andare a caccia di fantomatici sottomarini a bordo del suo peschereccio, il Pilar.
Nel 1943 ritornò in Europa, partecipando al D-Day in Normandia e poi avanzò verso Parigi, come combattente e inviato speciale – si mise a capo di una banda di partigiani comunisti – mostrando un coraggio suicida ed effettivamente fu fra i primi a entrare a Parigi, prendendo poi parte alla grande battaglia nelle Ardenne, alla fine del 1944.
Nell’aprile del 1945 tornò negli Stati Uniti in compagnia della sua quarta moglie, Mary Welsh, stabilendosi nella sua casa di Cuba.
Il 5 marzo 1946 Winston Churchill a Fulton pronunciò il suo famoso discorso con il quale ebbe ufficialmente inizio la Guerra Fredda, ma il commento di Hemingway fu che “Churchill non Stalin è un pericolo alla pace nel mondo.”
Seguì la rivoluzione di Castro e il maccartismo, poi il Nobel nel 1954 per il suo “Il vecchio e il mare” ma a 61 anni, nel 1960, Hemingway era un relitto umano: aveva subito moltissimi incidenti – in Uganda era passato attraverso due incidenti aerei nello stesso giorno – ferimenti, rotture, concussioni, esagerava con l’alcool ma, soprattutto, era fortemente depresso e soffriva di attacchi di paranoia, a tal punto da dover essere sottoposto a elettroshock.
In particolare vedeva agenti della FBI ovunque, pensava che lo spiassero, lo pedinassero ovunque andava, che fossero nascosti nel bagno di casa sua per registrare le sue conversazioni, che tenessero il suo telefono sotto controllo.
Tentò più volte di suicidarsi, in Wyoming lo bloccarono mentre in aeroporto stava per buttarsi contro l’elica d’un aereo. Ma il 2 luglio 1961 ci riuscì, sparandosi nel petto con il suo fucile da caccia.

Nel 1980 venne resa pubblica la pratica del FBI riguardante Ernest Hemingway e questo parve dimostrare che, in effetti, lo scrittore aveva avuto ragione a temere l’FBI. In realtà uno studio attento di quelle carte dimostra l’esatto contrario. Non fu mai pedinato, né intercettato, e l’interesse nei suoi riguardi fu determinato soltanto dal suo voler intercettare spie tedesche a Cuba durante la guerra: l’FBI voleva capire chi era e soprattutto esser certa che non avrebbe combinato dei guai, imbarazzandoli.
Non seppero mai dei suoi contatti con il NKVD ma, forse, questi suoi sensi di colpa e tardivi timori furono l’origine della sua paranoia. Temeva che loro sapessero e pensava che la sua reputazione di patriota, di americano tutto d’un pezzo, ne sarebbe uscita indelebilmente macchiata.

Angelo Paratico

Gerolamo Cardano e William Shakespeare

Gerolamo Cardano e William Shakespeare

Un grande attore come Tino Carraro (1910 – 1995) mi fece innamorare della Tempesta di William Shakespeare; era il 1977 e interpretava Prospero al Teatro Lirico di Via Larga a Milano. La regia minimalista era firmata da Giorgio Streheler. Ricordo la grande emozione provata quando Carraro recitò il monologo d’addio al suo mondo incantato. In molti hanno letto in questo finale la diretta voce di William Shakespeare che si congeda dagli spettatori e ripone per sempre la propria bacchetta magica. A quel tempo mi interessavo di Girolamo Cardano (1501 – 1576?) e notai delle similitudini fra i due personaggi. La curiosità aumentò quando scoprii che un’opera perduta di Shakespeare era intitolata ‘Cardenio’ anche se pare che quel curioso nome sia da collegarsi al Don Chisciotte di Cervantes.
La Tempesta fu presumibilmente scritta nel 1610 – 11 ma in passato non ebbe quel grande successo di cui ormai gode. Fu solo a partire dall’ottocento, con il movimento romantico, che crebbe in popolarità e oggi, assieme a ‘Giulietta e Romeo’, ‘Amleto’ e al ‘Sogno di una notte di mezza estate’, è una delle opere di Shakespeare più amate e rappresentate, senza contare gli adattamenti cinematografici e operistici.
Il personaggio principale della commedia, Prospero, Duca di Milano, è un uomo giusto e studioso, tradito dal fratello che in combutta con Alonso, re di Napoli, lo esiliano su di un’isola. Prospero non è interessato ai maneggi politici ma ai libri, soprattutto a quelli di magia. Dopo essersi vendicato, sfruttando le sue arti magiche, Prospero si ritira, offrendo un futuro radioso alla sua amatissima figlia, Miranda.
In questa commedia entrano in gioco vari elementi, molti libri, storie e racconti, magistralmente uniti e adattati in un nuovo canovaccio. Sono palesi i riferimenti a il ‘Naufragio’ opera di Erasmo da Rotterdam, del 1525. In evidenza anche il ‘De Orbe Novo’ di Pietro Martire d’Anghiera e le ‘Metamorfosi’ d’Ovidio, dal quale Shakespeare trae il discorso di rinuncia di Medea, recitato da Prospero. Forte vi è anche l’influenza di Montaigne. Questo è certamente dovuto al fatto che l’editore, o per meglio dire l’arrangiatore occulto delle opere di Shakespeare, fu sicuramente John Florio, il primo traduttore degli ‘Essays’ di Montaigne dal francese all’inglese. La raccolta delle commedie di Shakespeare venne stampata in un’edizione in folio nel 1623 con il titolo di ‘Mr William Shakespeare Comedies, Histories & Tragedies’ e, trattandosi di una impresa molto costosa, gli editori John Heminges e Henry Condell cercarono un letterato capace di correggere e arrangiare quelli che dovevano essere solo dei confusi e sgrammaticati spartiti. Per quanto riguarda la Gran Bretagna quello fu l’evento editoriale del secolo e certamente una fatica d’Ercole per John Florio. Ne vennero stampate 800 copie e oggi se ne conservano 233. L’ultima è stata scoperta la scorsa settimana a St. Omer, nel nord della Francia. E’ un libro preziosissimo: l’ultima copia battuta da Christie’s nel 2006 fu aggiudicata per 6,8 milioni di dollari e per avere quest’ultima – se verrà messa in vendita – si dovranno sborsare più di 20 milioni di dollari.

Il padre di John Florio si chiamava Michelangelo e fu un intellettuale, scrittore e avventuriero fiorentino. Ebreo, divenne monaco cattolico e poi predicatore protestante colmo di zelo. Finì in galera a Roma ma riuscì a riparare a Venezia e poi in Inghilterra, dove si fece apprezzare. Con l’ascesa al trono di Mary Tudor fu costretto a darsi alla fuga, finendo in Svizzera, dove morì nel 1567. Suo figlio John ritornò in Inghilterra, conobbe Giordano Bruno e si distinse nel mondo letterario inglese e vi morì, in abietta povertà, nel 1625
Girolamo Cardano, matematico, astrologo, medico e filosofo era e resta più celebre in Gran Bretagna che in Italia. La sua fama è dovuta al fatto che nel 1552 venne convocato a Edimburgo dall’Arcivescovo di Sant’Andrea, John Hamilton (1512 – 1571), che soffriva d’asma. Sulla via del ritorno fece sosta a Londra, ospite di John Checke, il dotto tutore del re. Le voci della straordinaria guarigione dell’alto prelato lo avevano preceduto e Cheke gli fissò un’udienza con il giovane re Edoardo VI (1537-1553). I due si parlarono usando il greco, il latino e l’italiano, discutendo di astronomia e di storia. La pubblicazione da parte di Cardano, nel 1545, della ‘Artis Magnae’ una pietra miliare nella storia dell’algebra e del ‘De Subtilitate’ nel 1550, la prima enciclopedia tascabile, usciti entrambi a Norimberga presso Johannes Petreius – editore anche di Copernico, Erasmo e Stifel – avevano fatto di Cardano lo scienziato più celebre al mondo. Il giovane monarca appariva già infetto dalla tubercolosi che l’anno successivo lo uccise ma alla sua corte, dietro alle quinte, si muovevano potenti personaggi che preparavano la successione. Venne chiesto a Cardano di presentare un oroscopo del giovane ed egli pronosticò una vita lunga e piena di successi, anche se ricevette pressioni contrarie.
Girolamo Cardano passò come una cometa nel cielo di Londra, rischiarandoli e le notizie delle sue disavventure personali e poi della morte raggiunsero la capitale inglese, aumentando l’alone di mistero che lo circondava. La persecuzione subita dalla Chiesa cattolica lo trasformò in una figura eroica, un po’ come Galileo dopo che incontrò John Milton, il quale lo descrisse come un prigioniero dei preti che lo guardavano a vista.
John Florio, non solo Shakespeare, conoscevano Girolamo Cardano e i suoi libri. Alcuni finirono all’Indice ma altri vennero ristampati nei primi decenni del Seicento, soprattutto in Francia. La sua ‘Opera Omnia’ in 10 volumi in folio uscì proprio a Lione nel 1663.
Una prova della sua perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione in inglese del suo ‘De Consolatione’ uscì nel 1576 sotto al titolo di ‘Cardanus Comforte’ ed è proprio questo il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo monologo ‘Essere o non essere?’.
Un altro sintomo della sua celebrità è il fatto che la più completa e rigorosa biografia mai scritta su di lui la si deve a Thomas Morley. Uscì in due volumi nel 1854 a Londra e, incredibilmente, non è mai stata tradotta e pubblicata in Italia, dove ci siamo sempre accontentati di biografie dozzinali e incomplete.
Ecco quali sono i punti di contatto fra Cardano e Prospero, a parte la loro ‘milanesitudine’. Sia Cardano che Prospero hanno uno spirititello al proprio servizio. Cardano racconta nella sua autobiografia di averlo ereditato dal padre, Fazio Cardano e spesso udiva grugniti dietro di sé e puzza di zolfo. Entrambi sono esperti di magia e di astrologia. Entrambi vengono gettati in prigione e poi costretti all’esilio. Sia Prospero che Cardano sono amanti dei libri ma alla fine rinunciano a quelli che trattano di magia e di astrologia. Vengono ambedue traditi da persone delle quali si erano fidati. Il primogenito di Girolamo Cardano, Giambattista, venne attanagliato e decapitato a Milano nel 1560 su ordine del senato milanese, dopo che, sotto tortura, aveva confessato di aver avvelenato la moglie e i suoceri. Cardano tentò disperatamente di salvarlo ma non ci riuscì e quasi impazzì per il dolore. Riuscì a dimenticarlo solo tenendo uno smeraldo sotto alla propria lingua.
Il secondogenito di Cardano, Aldo, divenne un delinquente e tentò più volte di rubare e assaltare il padre. Gli restava una figlia soltanto, proprio come Prospero, che ebbe nome Clara. Solo un’analisi della sterminata produzione cardanica e il possibile rinvenimento di battute e concetti presenti nella Tempesta – ricerca che non è ancora stata intrapresa – potrebbe portare a scoprire altri punti di contatto fra i due.

Angelo Paratico

Quel gran simpaticone dell’Orso bruno e quel che non vi dicono sul suo conto

Quel gran simpaticone dell’Orso bruno e quel che non vi dicono sul suo conto

 

In Trentino gli orsi, una volta estinti, sono stati reintrodotti grazie al progetto “Life Ursus” promosso dal Parco Naturale Adamello Brenta, in collaborazione con la Provincia di Trento e l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, co-finanziato dall’Unione Europea.

E, proprio in trentino, un orso bruno (Ursus arctos) ha attaccato un ragazzo, uccidendolo. Una volta reintrodotto fra i monti e le valli del trentino si è riprodotto oltre misura. Ogni tentativo di ridurne il numero con abbattimenti mirati si è scontrato con le proteste degli animalisti, che tendono a vederlo come un grosso peluche da salotto, attribuendogli istinti e sentimenti quasi-umani.

Durante gli infiniti dibattiti televisivi, spesso presente l’On. Brambilla e altri amanti del mondo animale, non si è mai detto una cosa che è in realtà scontata. Ovvero che l’Orso è essenzialmente un carnivoro. E, anche se si adatta a mangiare erbe e frutta, la sua dentatura rivela chiaramente cos’è e cosa deve fare per continuare a vivere. Deve ammazzare un gran numero di altri animali, non simpatici come lui, e poi cibarsene. Lepri, caprioli, scoiattoli, cervi, pecore, vacche, cinghiali, gatti e cani randagi.

Un orso può arrivare a pesare 200 chilogrammi e dunque deve nutrirsi di qualche cosa come 15 chili giornalieri di cibo.

Permettere agli orsi di moltiplicarsi, vuol dire condannare allo sterminio altre specie animali, questo va reso noto.

 

“Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione” Edizioni Sonda di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies

“Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione” Edizioni Sonda di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies

Su Linkinchiesta( https://www.linkiesta.it/2024/03/dio-esistenza-scienza-prove-intervista-bollore-bonnassies/) Andrea Fioravanti recensisce e intervista gli autori di: “Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione” Edizioni Sonda in Italia, scritto da Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies. Un grande libro che, sorprendentemente, sta vendendo moltissimo nella sempre più laica (e bigotta) Francia.

Nel 2015 è uscita una commedia surreale intitolata “Dio esiste e vive a Bruxelles”, in cui un uomo crudele e malizioso trascorre il suo tempo rendendo infelici gli esseri umani attraverso un mega-computer con il quale crea leggi noiose, come far cadere sempre il pane dal lato imburrato o far avanzare la fila accanto al supermercato. Secondo molti scienziati, questa rappresentazione di Dio ha la stessa attendibilità della Bibbia o del Corano: nessuna. Non ci sono le prove scientifiche di un essere creatore, figuriamoci di una divinità antropomorfa. Per spiegare la misteriosa origine del mondo, da quasi un secolo il mondo scientifico è d’accordo su una teoria riassumibile in due parole: Big Bang. Circa 13,8 miliardi di anni fa (qui il “circa” fa solo scena), l’universo è partito da uno stato inizialmente caldissimo e densissimo per poi espandersi in tutte le direzioni, portando alla formazione di materia, stelle, galassie e altre strutture cosmiche che osserviamo oggi con grandi e piccoli telescopi.

In Francia, un ingegnere e un teologo hanno scritto un libro in cui danno una spiegazione metafisica alla teoria del Big Bang per giustificare l’esistenza di una forza regolatrice, un’intelligenza creatrice che magari non avrà la barba bianca e non siede su una nuvola, ma è responsabile della creazione del mondo che conosciamo. “Dio la scienza le prove. L’alba di una rivoluzione” (Edizioni Sonda) di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies, è diventato un caso editoriale in Francia e in Spagna, con oltre trecentomila copie vendute. E per un saggio, è già un miracolo, che sia di origine divina o meno. «La questione dell’esistenza di Dio è la più importante della nostra vita. Se Dio non esiste, è meglio saperlo subito perché allora nulla ha senso e tutto è permesso. È una realtà un po’ triste, ma è meglio non perdere tempo. Al contrario, se Dio esiste, tutto è importante, tutto conta. E magari dopo la nostra morte avremo la speranza di vivere una vita eterna, di rivedere le persone che abbiamo amato, come i nostri genitori», spiega a Linkiesta Michel-Yves Bolloré, ingegnere informatico e docente dell’Università Paris-Dauphine.

Come si spiega il successo del libro in Francia?

In Europa, il numero di credenti in Dio sta diminuendo drasticamente. In ogni famiglia in Francia, ma lo stesso accade in Italia e in Spagna, noto una divisione quasi al cinquanta per cento tra fedeli e atei. Marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle. Questa perdita della fede crea diverse emozioni: un senso di disagio nel presente, ansia per il futuro e il desiderio di sapere di più dell’origine del mondo che ci circonda. Ma i media sono riluttanti a trattare questo tema, non soddisfacendo la sete di conoscenza del pubblico. Per questo motivo abbiamo scritto un libro semplice ma scientificamente attendibile che raccoglie tutto ciò che l’intelligenza, la ragione e la conoscenza possono dirci sull’esistenza di Dio. In questo saggio c’è tutto: non solo la conoscenza scientifica, ma anche quella filosofica, storica, morale. Gli abbiamo dedicato tre anni e mezzo, facendolo rivedere a venti specialisti per avere un loro riscontro puntuale. Questo libro non è rivolto agli intellettuali, ma alla gente comune.

Ecco, parliamo alla gente comune. Qual è la scoperta scientifica che, secondo voi, proverebbe l’esistenza di un Dio creatore?

Ce ne sono diverse, ma tutta la comunità scientifica concorda, ad esempio, su una verità fondamentale maturata tra la metà e la fine del XIX secolo e finora non contestata: la morte termica dell’Universo. Per capirci, il sole può essere paragonato a un serbatoio di carburante che si sta lentamente svuotando. Se un’automobile può percorrere circa cinquecento chilometri con un pieno, il sole dispone di un’autonomia di circa dieci miliardi di anni. Avendo già esaurito tra i quattro e i cinque miliardi di anni della sua riserva, gli rimangono altri cinque miliardi di anni di vita. Al termine, proprio come un veicolo senza carburante, cesserà di funzionare. Questo destino non riguarda solo il nostro sole, ma tutte le stelle dell’Universo, che, in ultima analisi, si avvieranno verso un’esistenza buia, fredda e vuota. Se, come suggerisce la teoria del Big Bang, l’Universo ha avuto un inizio, allora non possiamo evitare la questione della creazione.

Anche ammettendo che l’universo sia stato creato da un’entità, dove si trova?

L’origine dell’universo deve necessariamente trovarsi al di fuori dello stesso, un concetto che può risultare difficile da accettare. Nel nostro universo, non esiste spazio senza materia e tempo, così come non esiste materia senza spazio e tempo: i tre sono intrinsecamente legati, una verità rivelata dalle scoperte di Einstein. Se la scienza indica che tempo, spazio e materia sono nati con il Big Bang, allora diventa evidente che l’origine dell’Universo trascende tempo, spazio e materia stessi. In altre parole, la causa dell’Universo deve essere di natura non naturale, ossia trascendente. Questo implica che tale causa non appartiene al nostro universo fisico, ma esiste al di fuori e al di là delle sue leggi e dimensioni conosciute. Prima del tempo, della materia e dello spazio, poteva esistere solo una cosa atemporale, non spaziale e immateriale.

Nel saggio spiegate bene quanto sia stato difficile per gli scienziati sostenere la teoria del Big Bang a causa delle persecuzioni ideologiche nella Germania nazista e nella Russia Sovietica. Perché ha fatto così paura ai dittatori il concetto di morte termica dell’Universo?

Molti scienziati sono stati perseguitati, imprigionati o addirittura uccisi a causa della loro difesa della teoria dell’espansione dell’universo. Questa persecuzione sembra irrazionale dato che molti di loro erano giovani, senza denaro, influenza o potere politico. La loro pericolosità percepita derivava dal potenziale rivoluzionario della loro tesi: se l’universo è in espansione, ciò potrebbe implicare l’esistenza di un inizio e quindi di un creatore divino. Leader come Stalin e Hitler riconoscevano la minaccia che tale concetto rappresentava per i loro regimi. Ciò spiega la loro spietata repressione di queste voci dissidenti. Oggi, fortunatamente, non si ricorre alla violenza, ma esiste una discriminazione contro gli scienziati credenti.

Un’altra tesi del vostro saggio è che l’origine, l’evoluzione e il funzionamento dell’universo si basano su una ventina di numeri invariabili nel tempo e nello spazio: dalla carica dei protoni e degli elettroni alla costante di Planck. Come spiegate questa coincidenza?

Per far decollare un aereo, il pilota deve rispettare almeno venti parametri per evitare che il velivolo si schianti: dalla velocità alla posizione delle ali. Per l’universo è lo stesso: se solo uno di questi numeri fosse stato diverso, anche solo di una frazione, l’universo sarebbe già collassato. Consideriamo ad esempio la velocità di espansione dell’universo un istante dopo il Big Bang: se modificassimo anche solo la quindicesima cifra di questa costante, le stelle non potrebbero esistere. Lo stesso vale per la costante G della forza di gravità, che ha un valore arbitrario e inspiegabile: se il suo rapporto con la forza nucleare forte non fosse stato vicino a 10^39 nell’universo, non ci sarebbero stelle a lunga durata e qualsiasi forma di vita sarebbe stata impossibile. Come mai tutti questi parametri sono così straordinariamente regolati? Ci sono due risposte possibili: o è il frutto del caso, o derivano da calcoli complessi di un ente creatore.

E perché non potrebbe essere frutto del caso?

Questo è ciò che dicono i sostenitori della teoria del multiverso. Per non ammettere l’eccezionale armonia di questo universo, essi postulano l’esistenza di innumerevoli altri mondi, dove non ci sarebbe vita. Quindi saremmo semplicemente molto fortunati a vivere in questo universo eccezionale. Ma voglio chiarire tre cose ai nostri lettori: la teoria del multiverso non ha basi scientifiche solide, per me è paragonabile alla fantascienza, non alla scienza, e ha grandi debolezze interne, cosa che ha portato Stephen Hawking a dire che l’ipotesi era “morta”.

Se l’universo non è frutto del caso, allora chi lo ha creato?

Mi rendo conto che conoscere la sua identità sia un desiderio umano irrefrenabile. Dopotutto, secondo la Bibbia, persino Mosè, sulla cima del monte Sinai, non fu soddisfatto di aver udito la voce di Dio e chiese il suo nome, ricevendo come risposta: “Io sono Colui che sono”. Durante il XVIII secolo, l’epoca dell’Illuminismo, i deisti si interrogavano sull’esistenza di un “orologiaio” che avrebbe dato vita a questo meraviglioso universo. La nostra opera ha uno scopo diverso. Non vogliamo definire chi sia questo orologiaio ma far capire al lettore che ci sono prove scientifiche solide che dimostrano l’esistenza di un creatore. Se dovessi descriverlo dal nostro libro, lo definirei un genio sia scientifico che artistico perché il nostro universo è eccezionalmente perfetto. Ma sapere chi sia è oggetto di un’indagine diversa sulla affidabilità e la credibilità delle rivelazioni, cioè un discorso più ampio e diverso, che merita di essere esplorato in altri libri e contesti, compresa la ricerca sulla “vera” religione. Un argomento che va oltre lo scopo del nostro lavoro.

 

 

La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La Venere di Willendo era di Quinzano? Come si è arrivati alla Monna Lisa di Leonardo…

La celebre Venere di Willendo è una statuetta di forme femminili alta 11 centimetri, trovata nel 1908 in un sito paleolitico vicino a Willendorf, un villaggio della Bassa Austria. La sua età stimata è di circa 30.000 anni e fu forse usata per scopi magici o medici. Questa è la più antica rappresentazione di un corpo femminile.

In un nuovo studio pubblicato dall’Università di Vienna in collaborazione con il Museo di Storia Naturale di Vienna, i ricercatori hanno applicato la tomografia ad alta risoluzione, trovando che la Venere proviene da una regione del nord Italia. Potrebbe trattarsi della pietra Galina, usata fra l’altro per la statua equestre di Cangrande della Scala.

L’antropologo Gerhard Weber dell’Università di Vienna ha utilizzato la tomografia a microcomputer per analizzare la Venere fino a una risoluzione di 11,5 micrometri. Insieme ad Alexander Lukeneder e Mathias Harzhauser del Museo di Storia Naturale di Vienna, il team si è procurato campioni comparativi dall’Austria e dall’Europa per confrontarli e determinarne geologicamente l’origine.

Lo studio ha scoperto che i dati della tomografia della statuetta avevano sedimenti depositati nelle rocce in diverse densità e dimensioni. In mezzo c’erano sempre piccoli resti di conchiglie e sei grani molto densi e più grandi, la cosiddetta limonite. Quest’ultima spiega le precedentemente misteriose rientranze emisferiche sulla superficie della Venere con lo stesso diametro: “Le limoniti dure sono probabilmente scoppiate quando il creatore di Venere stava scolpendo”, spiega Weber: “Nel caso dell’ombelico della Venere, hanno poi apparentemente fatto di necessità virtù”.

Il team ha anche scoperto che l’oolite della Venere è porosa perché i nuclei dei milioni di globuli (ooides) che la compongono si sono dissolti. Un’analisi più approfondita ha anche identificato un minuscolo residuo di conchiglia, lungo appena 2,5 millimetri, che è stato datato al periodo giurassico. Questo ha escluso tutti gli altri potenziali depositi della roccia del Miocene, molto più tardi, come quelli del vicino Bacino di Vienna.

I calcari nummulitici presentano un colore biancastro-giallastro, con struttura ruvida e grana grossolana. Il nome deriva dai nummuliti fossili (gusci circolari a forma di moneta; dal latino “nummus”=”moneta”), di cui sono ricchi. Due “varianti” dei calcari nummulitici sono il Calcare di Torbole e la Pietra di Avesa (Pietra Galina), posta in parte nel vicino comune di Quinzano. Entrambi i comuni fanno oggi parte del territorio di Verona.

La pietra è ricca in echinodermi e foraminiferi, ed è una calcarenite ad alghe e molluschi ben stratificata, ma anche un calcare di scogliera a coralli. La seconda è una pietra tenera, con struttura ruvida ma finissima, utilizzata nelle costruzioni romaniche cittadine.

Un’analisi sulla granulometria degli altri campioni ha rivelato che i campioni della Venere erano statisticamente indistinguibili dai campioni provenienti da una località del nord Italia vicino al lago di Garda. Questo è notevole perché significa che la Venere (o almeno il suo materiale) ha iniziato un viaggio dal sud delle Alpi al Danubio a nord delle Alpi. Anche se appare difficile sche si sia trasportato un frammento ancora da lavorare, molto più probabile che la figurina sia stata creata nel territorio di Avesa o Quinzano.

Uno dei due possibili percorsi dal sud al nord porterebbe intorno alle Alpi e nella pianura Pannonica ed è stato descritto in simulazioni da altri ricercatori alcuni anni fa. L’altro modo per andare dal lago di Garda alla Wachau sarebbe un passaggio attraverso le Alpi.

La più antica e dettagliata rappresentazione del volto femminile, finora ritrovata, riguarda la Dama di Brassempouy, ricavata da un frammento di avorio di Mammuth e sarebbe vecchia di 25.000 anni, fu scoperta nel 1892 in un piccolo villaggio della Nouvelle-Aquitaine, vicino al confine con la Spagna.
La Dama di Brassempouy
Mario Reading, un interprete di Nostradamus morto nel 2017, potrebbe aver previsto il futuro della monarchia britannica

Mario Reading, un interprete di Nostradamus morto nel 2017, potrebbe aver previsto il futuro della monarchia britannica

Mario Reading

Nostradamus ‘predisse’ che Re Carlo avrebbe abdicato per un nuovo monarca misterioso e inaspettato’. Una lettura popolare delle predizioni di Nostradamus sull’ascesa al trono di “un uomo che non si sarebbe mai aspettato di diventare Re”, ha fatto emergere un nome a sorpresa per il futuro monarca della Gran Bretagna.

Un importante esperto di Michel de Nostradame sostenne che l’astrologo francese del XVI secolo predisse che il Re Carlo III avrebbe abdicato per un monarca misterioso. Il libro di Mario Reading uscito nel 2006 reinterpretava le presunte letture profetiche di 450 anni fa per il 21° secolo, con un passaggio che ha una potenziale rilevanza per la Famiglia Reale britannica.

In ‘Nostradamus: The Complete Prophecies for the Future’, Reading suggeriva che il persistente turbamento dell’opinione pubblica causato dal divorzio di Carlo dalla Principessa Diana avrebbe messo a rischio il suo futuro regno.

In modo inquietante, ha persino previsto correttamente l’anno della morte della Regina Elisabetta II, prima di suggerire che ci sarebbero stati dei problemi per il nuovo Re, dicendo: “La premessa è che la Regina Elisabetta II morirà, intorno al 2022, all’età di circa 96 anni, cinque anni in meno rispetto alla durata della vita di sua madre”.
“Il Principe Carlo avrà 74 anni nel 2022, quando salirà al trono, ma il risentimento nei suoi confronti da parte di una certa parte della popolazione britannica, dopo il divorzio da Diana, Principessa del Galles, persiste ancora”.

Sebbene in un primo momento l’autore interpretò questo come un’affermazione che la corona avrebbe saltato la sua testa per arrivare su quella di William, un anno dopo l’autore modificò questa affermazione, in una versione rivista del suo libro.

L’autore scrisse che questo potrebbe, per ragioni misteriose che non gli sono ancora chiare, significare che l’attuale Duca di Sussex prenderà il suo posto, chiedendo se “il Principe Harry, per difetto, diventerà Re al suo posto? Questo lo renderebbe Re Enrico IX, a soli 38 anni”. Il libro di Mario Reading ha registrato un boom di vendite dopo la morte della Regina Elisabetta nel 2022 ed è tornato in cima alla classifica dei libri tascabili nelle settimane successive.

Lo scorso 24 febbraio abbiamo visto Carlo III commuoversi di fronte ai 7mila biglietti di auguri per una pronta guarigione arrivati a Buckingham Palace. In un video condiviso sui profili social della royal family il sovrano ha mostrato una selezione di lettere in cui molte persone “hanno condiviso la loro esperienza con il tumore”, come ha scritto il Palazzo e incoraggiato Sua Maestà a resistere e a lottare. Carlo ha dichiarato che tutti questi messaggi sono “il più grande incoraggiamento” per lui. A squarciare il velo di speranza di questo filmato, però, sono arrivate delle indiscrezioni secondo cui la malattia del Re sarebbe più seria di quanto pensiamo.

Buckingham Palace starebbe facendo l’impossibile per far credere che la malattia di Carlo sia sotto controllo e che presto anche questa tempesta passerà. Ma secondo l’esperto Tom Quinn la realtà sarebbe diversa e il Re starebbe già preparando la successione in favore del principe di Galles. Al Mirror l’autore ha dichiarato: “Carlo è consapevole del fatto che, come futuro Re, William è al centro dei piani per la successione che si stanno preparando proprio ora. I funzionari avevano ipotizzato che Carlo sarebbe rimasto in salute almeno [fino] a metà dei suoi ottanta anni prima che fosse necessario intraprendere la pianificazione della successione, ma in realtà sono iniziati ora e forse questo indica che il cancro di Carlo è più pericoloso di ciò che ci hanno indotto a pensare”.
L’impressione è che Tom Quinn sia quasi una voce fuori dal coro, perché le fonti di Palazzo riportano un’altra versione dei fatti, secondo cui Carlo III starebbe semplicemente delegando al primogenito gli appuntamenti pubblici a cui non può presenziare ora che sta seguendo la terapia contro il tumore. Una “reggenza soft” che non prevede l’assunzione di poteri da parte di William.

Da un lato, se anche vi fossero dei piani per l’ascesa al trono del principe William, cosa che per ora è fortemente in dubbio, forse nessuno avvertirebbe Harry per evitare che lo sappiano i giornali di tutto il globo. Dall’altro lato, però, di fatto il duca non ha una posizione rilevante nella linea dinastica. Comunque sia una fonte ha spiegato a Page Six: “Faccio fatica a credere che qualora [il Re] chiedesse aiuto al [duca] questi direbbe di no. Penso che proverebbe. Ma non penso sia qualcosa che Harry chiederebbe di fare spontaneamente”.

Peccato che Mario Reading non sia più fra noi, per spiegarci meglio le parole di Nostradamus.

 

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

QUESTIONI DI STATO. LA LUNGIMIRANZA DI UN BRAVO MINISTRO, NON GENIALE MA CON I PIEDI PER TERRA.

 

Il Conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) fu Ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto di Savoia dal 1835 al 1847 ma fu poi cancellato dai gloriosi annali della storia risorgimentale e relegato in un angolino oscuro. Fu definito un reazionario, bigotto, contrario alla storia e un ottuso anti-Cavour.

La Gingko edizioni, una piccola casa editrice di Verona, ha ripubblicato un suo libro, intitolato “Questioni di Stato” uscito nel 1854, arricchita da una introduzione di Alessandre De Pedys, direttore generale per la diplomazia pubblica e culturale al ministero degli Esteri. Questo libro di Solaro della Margarita uscì al tempo dell’avventura in Crimea, con Francia e Gran Bretagna e da lui fortemente avversata.

Solaro, in 130 pagine e cinque punti, riassume ciò che avrebbero dovuti essere i capisaldi dello Stato Sabaudo, perché potesse continuare a esistere. Egli vide con chiarezza che la partita giocata da Cavour e dagli “italianissimi” (come sarcasticamente chiamava i patrioti italiani che volevano subito la guerra) fosse una partita assai azzardata. Lo stato dell’esercito e le finanze del Regno di Sardegna, a suo giudizio, precludevano uno scontro con una super potenza come l’Austro-Ungheria. Egli favoriva le vie diplomatiche, anche perché per sperare in un successo sul campo di battaglia avrebbe reso indispensabile l’intervento di una potenza straniera, come la Francia, che avrebbe poi inevitabilmente avanzato delle richieste territoriali e controllato la politica sarda.

Solaro fu licenziato dal suo Re dopo che decise di rompere gli indugi e passò alla guerra guadando il fiume Ticino. La follia delle decisioni prese da Carlo Alberto, privato del suo saggio Ministro degli Esteri, sono ormai a tutti manifeste. Basti guardare alla disfatta di Novara, inevitabile dopo che il Sovrano decise di affidare il proprio esercito a un mediocre generale polacco, più versato alla cartografia che nella guerra, inviso a tutti gli altri suoi generali, che neppure riuscivano a pronunciare il suo nome.

Alessandro De Pedys inquadra bene il personaggio e l’epoca: “Solaro guiderà la politica estera del Regno di Sardegna per quasi 13 anni, senza mai rinunciare ad agire sulla base delle sue convinzioni, spesso incurante delle conseguenze (i cattivi rapporti con la Spagna, ad esempio, avranno un costo economico rilevante per il Piemonte); il pensiero del monarca invece evolverà, come si è detto, e questa progressiva divergenza porterà Carlo Alberto alla decisione accettare le dimissioni del suo Ministro nel 1847. Tra i principali motivi di dissidio vi saranno l’ostilità del Re nei confronti dell’Austria e la consapevolezza del ruolo che la dinastia avrebbe potuto giocare nell’unificare almeno parte della penisola italiana, soddisfacendo in tal modo le secolari mire dei Savoia sulla Lombardia. Già nel 1832, dopo un solo anno di regno, Carlo Alberto scriveva nel suo diario: “De tous les côtés de l’Italie il nous revient que la haine contre les Autrichiens paraît se centupler et que les voeux de tous les honnêtes gens nous appellent; mais le temps de nous montrer n’est pas encore venu”.

L’editore ha inserito all’inizio del testo una celeberrima riflessione di Fëdor Dostoevskji, del 1877 e tratta dal suo Diario. Il grande scrittore russo pare della stessa idea del Solaro, espressa nelle “Questioni di Stato”.

Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della Nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!

 

 

 

I cinesi furono i primi a volare. Ce lo dice Marco Polo

I cinesi furono i primi a volare. Ce lo dice Marco Polo

 

Il carnevale di Venezia di quest’anno è stato intitolato a Marco Polo (1254-1324), forse il suo cittadino più celebre. Eppure, a dispetto della sua celebrità, esistono ancora molti aspetti del suo “Il Milione” che restano poco conosciuti. Per esempio, il fatto che nel suo libro troviamo la prima credibile descrizione del volo umano, al quale il grande viaggiatore deve avere assistito durante la sua permanenza in Cina.
La leggenda greca di Icaro è solo un mito dal punto di vista ingegneristico: chiaramente con cera e piume non si può arrivare lontani.
Leonardo Da Vinci lasciò vari disegni di costruzione di dispositivi volanti e, secondo Girolamo Cardano, che lo incontrò di persona, nel suo “De Subtilitate” dice che provò ma non riuscì a volare, quando ancora viveva a Milano. Poi, forse, ritentò a Peretola, vicino a Firenze. Il pilota, in entrambi i casi, potrebbe essere stato Tommaso Masini, soprannominato Zoroastro, nativo di Peretola, anche se non esistono prove al riguardo; comunque, gli abitanti di Peretola hanno posto una lapide commemorativa di questo primo “volo umano”.
Ciò che pare certo è che i cinesi volarono molto prima dell’epoca di Leonardo e abbiamo un testimone straordinario che lo attesta: Marco Polo, appunto. In Cina, fin dal III secolo a.C. venivano costruiti aquiloni giganti, che erano in grado di sollevare gli uomini da terra. Joseph Needham, nella sua opera monumentale “Scienza e civilizzazione in Cina” (Cambridge University Press, 1954, vol. IV, pagg. 576-80) disse: “Esistono prove schiaccianti che dimostrano che i cinesi sono stati i primi a portare un uomo in volo”.
Prima di tutto spieghiamo perché così poche persone, anche cinesi, conoscono la descrizione del volo umano fatta di Marco Polo.
Tornato dalla Cina, Marco Polo dettò le sue memorie, come prigioniero dei genovesi, a Rustichello da Pisa che le annotò in una sorta di Lingua d’oil. Queste ebbero un grande successo e vennero poi copiate e fatte circolare. Ma quando la prima edizione de “Il Milione” di Marco Polo venne stampata, nel 1496, l’editore dovette decidere quale manoscritto fosse attendibile e quale no. Il punto relativo agli uomini che volano in Cina fu omesso, per ragioni sconosciute.
Questo passaggio fu poi inserito per la prima volta nel libro “Marco Polo e la descrizione del mondo” di Moule e Palliot, vol. I, 1938. pp. 356 e seguenti. Questa edizione è oggi considerata la traduzione più completa e più autorevole del libro di Marco Polo e include anche un manoscritto che fu trovato da Sir Percival David (1892-1964) nella Cattedrale di Toledo, in Spagna.
Quel manoscritto era una copia latina del 1795, basata su un manoscritto risalente al 1400. Arthur Christopher Moule lo trascrisse, completo del testo latino e fu pubblicato nel 1935, come combinazione di diciassette versioni diverse dei manoscritti di Marco Polo in un unico documento e mise in corsivo tutte le parole che non si trovano nelle altre versioni. Un risultato di ricostruzione davvero straordinario.
Ma ecco il passaggio degli uomini volanti cinesi come Marco Polo li deve aver visti in Cina:

“E quindi vi diremo come, quando una nave deve partire per un viaggio, essi provano se i suoi affari andranno bene o male. I marinai creeranno una grata, e ad ogni angolo e lato di questa struttura sarà legata una corda, in modo che ci siano otto corde, e tutte saranno fissate all’altra estremità, da una lunga fune. Poi troveranno un pazzo o un ubriacone e lo legheranno alla piattaforma, poiché nessuno sano di mente o con la testa a posto si esporrebbe a questo pericolo. Questo viene fatto quando c’è un forte vento. Allora la struttura viene posizionata di fronte al vento, il vento la solleva e la porta in cielo, mentre gli uomini la tengono con la lunga corda. E se, mentre è in aria, la piattaforma s’inclina verso la direzione del vento, tirano un po’ la corda verso di loro, in modo che si rimetta dritta, dopodiché lasciano uscire un po’ di corda e la piattaforma sale più in alto. E se si inclina di nuovo, tirano ancora una volta la fune fino a quando il telaio è in posizione verticale e sale, e poi cedono di nuovo, in modo che si alza così in alto da non poter essere vista, se solo la corda fosse abbastanza lunga da lasciarla salire.
Il volo viene interpretato in questo modo: se la piattaforma sale dritta, raggiungendo il cielo, si dice che la nave per la quale è stata fatta la prova avrà un viaggio rapido e prospero, per cui tutti i mercanti concorrono per farla partire. Ma se la piattaforma non è riuscita a salire, nessun mercante sarà disposto a finanziare quella nave per la quale è stata fatta la prova, perché dicono che non potrebbe finire il suo viaggio e finirebbe oppressa da molti mali. E così quella nave rimane in porto per quella stagione”.

Dunque, furono i cinesi i primi a volare, utilizzando degli aquiloni, forse treni di aquiloni, o come li chiamano oggi, dei “power-kites”.

 

Angelo Paratico

 

Le Gallerie Nazionali di Scozia festeggiano il centenario di Edoardo Paolozzi

Le Gallerie Nazionali di Scozia festeggiano il centenario di Edoardo Paolozzi

 

Il 10 giugno 1940, scoppiò una rivolta a Edimburgo, quando una folla di 2.000 persone si riversò nelle strade, decisa a vendicarsi. I loro obiettivi erano barbieri, gastronomie e gelaterie italiane; qualsiasi cosa o persona italiana. Mussolini era appena entrato in guerra e la folla sentiva odore di sangue. La polizia alla fine sedò la violenza e gli abitanti più comprensivi della città aiutarono a spazzare i vetri rotti e a pulire il vino versato. Ma quasi la metà dei 400 italo-scozzesi della città furono radunati in base all’ordine di Winston Churchill di ‘metteyegli un cappio al collo’ e inviati nei campi di internamento. Tra loro c’era il sedicenne Edoardo Paolozzi, che fu rinchiuso nella prigione Saughton di Edimburgo.

Poteva andare peggio. Il padre, il nonno e lo zio di Paolozzi furono inviati in Canada sulla SS Arandora Star. La nave salpò senza l’identificazione civile della Croce Rossa e il 2 luglio 1940 fu silurata al largo della costa di Donegal da un U-Boat tedesco. Più di 800 dei passeggeri italiani, tedeschi ed ebrei a bordo annegarono, compresi i tre uomini di Paolozzi. I sopravvissuti riferirono che i soldati britannici spararono alle scialuppe di salvataggio per impedire la fuga dei prigionieri. Il giovane Paolozzi fu arruolato nel Corpo dei Pionieri prima di fingere la schizofrenia per ottenere il suo congedo. Dopo un periodo in un ospedale psichiatrico, nel 1944 ottenne un posto alla Slade School of Art e iniziò una carriera sorprendente che lo avrebbe visto guidare la rivoluzione della pop-art britannica e diventare uno degli artisti pubblici preferiti del Paese.

In occasione del centenario della sua nascita, le National Galleries of Scotland celebrano Paolozzi nella sua città natale con una mostra di 60 opere che tracciano la sua evoluzione artistica e celebrano il suo impatto culturale. Uscito dal trauma dell’esperienza del tempo di guerra e entrato nel mondo oscuro dell’austerità, il giovane Paolozzi fu sedotto dal glamour in technicolor dell’America, che entrava nella coscienza europea attraverso le riviste patinate che lui tagliava in collage. Per la prima volta mostrò queste immagini trovate sotto forma di diapositive nella sua conferenza Bunk! del 1952 all’Istituto d’Arte Contemporanea. In seguito si sono evolute in serigrafie. Si trattava di un modo moderno di vedere, informato dal bombardamento pittorico della TV, del cinema e del fotogiornalismo. Per Paolozzi, la rivista americana ‘rappresentava un catalogo di una società eclettica, abbondante e generosa… una forma d’arte più sottile e appagante delle scelte ortodosse della Tate Gallery o della Royal Academy’.