Le donne portarono Adolf Hitler al potere

Le donne portarono Adolf Hitler al potere

Le antiche tribù germaniche si muovevano ponendo i guerrieri in testa alla colonna, poi venivano le donne e infine vecchi e bambini con gli animali. Queste colonne umane si snodavano per giorni e settimane. Gaio Mario vide sfilare per tre giorni e tre notti la tribù Cimbra nel 101 a.C.. Dopo il loro passaggio, i legionari uscirono fuori da dietro le palizzate e, affrontandoli in battaglia, li distrussero. Il nome della città di Mortara (Ara Mortis) ricorderebbe le grandi pire di corpi germanici. I guerrieri, vistisi perduti, gettarono le spade e fuggirono, ma dietro trovavano le donne germaniche che, con picche e bastoni, li assalivano per indurli a ritornare indietro e a contrastare i nemici. Questa è una vecchia tradizione germanica.

Dunque, perché le donne germaniche votarono per Hitler, permettendogli di arrivare al potere?

Esistono più di 30 saggi sul tema “Perché sono diventata nazista”, scritti da donne tedesche nel 1934, ma questi giacciono da decenni negli archivi della Hoover Institution di Palo Alto. Questi saggi sono stati portati alla luce solo tre anni fa, quando tre professori della Florida State University hanno organizzato la loro trascrizione e traduzione. Da allora sono stati resi disponibili in formato digitale, ma non hanno ricevuto grande attenzione.

Il movimento femminile tedesco era stato tra i più potenti e significativi al mondo, per mezzo secolo, prima che i nazisti salissero al potere nel 1933. Sin dagli anni Settanta del XIX secolo esistevano scuole superiori di alta qualità per le ragazze e all’inizio del XX secolo le università tedesche erano state aperte alle donne. Molte donne tedesche divennero insegnanti, avvocati, medici, giornalisti e scrittrici. Nel 1919 le donne tedesche ottennero il voto. Nel 1933, le donne, che erano milioni in più degli uomini (a Berlino c’erano 1.116 donne ogni 1.000 uomini), votarono più degli uomini per Hitler e i candidati nazionalsocialisti.

L’insoddisfazione per gli atteggiamenti dell’era di Weimar, il periodo tra la fine della Prima guerra mondiale e l’ascesa al potere di Hitler, è evidente negli scritti delle donne. La maggior parte delle autrici di saggi esprimono disappunto per qualche aspetto del sistema politico. Una di loro definisce il diritto di voto alle donne “uno svantaggio per la Germania”, mentre un’altra descrive il clima politico come “impazzito” e “tutti erano nemici di tutti”. Margarethe Schrimpff, una donna di 54 anni che vive appena fuori Berlino, descrive la sua esperienza:

“Ho partecipato alle riunioni di tutti… i partiti, dai comunisti ai nazionalisti; in una delle riunioni democratiche a Friedenau [Berlino], dove parlava l’ex ministro delle Colonie, un ebreo di nome Dernburg, ho vissuto la seguente esperienza: questo ebreo ha avuto l’ardire di dire, tra le altre cose: ‘Di cosa sono effettivamente capaci i tedeschi, forse di allevare conigli’?”.

“Cari lettori, non pensate che il sesso forte, fortemente rappresentato, sia saltato su e abbia detto a questo ebreo dove andare. Tutt’altro. Non un solo uomo ha emesso un suono, sono rimasti in silenzio. Tuttavia, una misera e fragile donnina del cosiddetto ‘sesso debole’ alzò la mano e respinse con forza le sfacciate osservazioni dell’ebreo, che nel frattempo era presumibilmente scomparso per partecipare a un’altra riunione”.

Questi saggi furono originariamente raccolti da un professore assistente della Columbia University, Theodore Abel, che organizzò un concorso di saggi con premi generosi con la collaborazione del Ministero della Propaganda nazista. Dei circa 650 saggi, circa 30 erano scritti da donne e Abel li mise da parte, spiegando in una nota a piè di pagina che intendeva esaminarli separatamente. Ma non lo fece mai. I saggi degli uomini costituirono la base del suo libro “Perché Hitler è salito al potere”, pubblicato nel 1938, che rimane una fonte importante nel discorso globale sull’ascesa al potere dei nazisti.

Riassumendo le scoperte di Abel, lo storico Ian Kershaw ha scritto nel suo libro sull’ascesa al potere di Hitler che esse dimostravano che “il fascino di Hitler e del suo movimento non si basava su alcuna dottrina distintiva”. Ha concluso che quasi un terzo degli uomini era attratto dall’ideologia della “comunità nazionale” indivisibile (Volksgemeinschaft) dei nazisti, e una percentuale simile era influenzata da nozioni nazionaliste, super-patriottiche e romantiche tedesche. Solo in circa un ottavo dei casi l’antisemitismo era la principale preoccupazione ideologica, anche se due terzi dei saggi rivelavano una qualche forma di avversione nei confronti degli ebrei. Quasi un quinto era motivato dal solo culto di Hitler, attratto dall’uomo in sé, ma i saggi rivelano differenze tra uomini e donne nel motivo dell’innamoramento per il leader nazista.

Per gli uomini, il culto della personalità sembra essere incentrato su Hitler come leader forte che spinge verso una Germania che si definisce in base a coloro che esclude. Non sorprende che le donne, anch’esse sull’orlo dell’esclusione, siano state meno affascinate da questa componente del nazismo. Piuttosto, i saggi delle donne tendono a fare riferimento a immagini e sentimenti religiosi che confondono la pietà con il culto di Hitler. Le donne sembrano essere mosse più dalle soluzioni proposte dal nazismo a problemi come la povertà che dalla presunta grandezza dell’ideologia nazista in astratto. Nel suo saggio, Helene Radtke, moglie 38enne di un soldato tedesco, descrive il suo “dovere divino di dimenticare tutte le faccende domestiche e di prestare il mio servizio alla patria”.

Agnes Molster-Surm, casalinga e insegnante privata, chiama Hitler il suo “Führer e salvatore donato da Dio, Adolf Hitler, per l’onore della Germania, la fortuna della Germania e la libertà della Germania!”.

Un’altra donna ha sostituito la stella del suo albero di Natale con una fotografia di Hitler circondata da un’aureola di candele. Questi uomini e queste donne condividevano il messaggio del nazionalsocialismo come se fosse un vangelo e si riferivano ai nuovi membri del partito come “convertiti”. Una di queste donne descrive i primi sforzi per “convertire” la sua famiglia al nazismo come se fossero caduti “su un terreno sassoso e non fosse germogliato nemmeno il più piccolo alberello verde di comprensione”.

 

 

Davvero è la tomba di Cleopatra?

Davvero è la tomba di Cleopatra?

Una missione archeologica internazionale ha scoperto un tunnel scavato nella roccia sotto l’antico tempio egiziano di Taposiris Magna, che potrebbe condurre alla tomba perduta di Cleopatra, ultima sovrana dell’Egitto tolemaico dal 51 al 30 a.C. e amante di Giulio Cesare.

La galleria è lunga 1.300 metri ed è situata a 13 metri di profondità, come precisa il sito internet Ancient Origins. Il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano ha annunciato il ritrovamento, descrivendo il tunnel come “un prodigio della tecnica ingegneristica antica”, per molti aspetti simile al tunnel di Eupalinos sull’isola greca di Samos. A scoprirlo è stata l’archeologa Kathleen Martinez dell’Università di Santo Domingo, da tempo impegnata nelle ricerche su Cleopatra.

Cleopatra morì suicida dopo che Marco Antonio, si era suicidato usando la propria spada. L’archeologa Martinez si recò per la prima volta in Egitto alla ricerca della tomba di Cleopatra circa 20 anni fa, convinta, dopo oltre un decennio di ricerche, che Taposiris Magna, situata alla periferia di Alessandria d’Egitto e dedicata a Osiride, il dio dei morti, fosse una delle principali candidate alla sepoltura della regina.

Dopo centinaia di e-mail ignorate, Martinez riuscì a ottenere un incontro al Cairo con il celebre archeologo Zahi Hawass, allora ministro delle Antichità egiziano, soprannominato “l’Indiana Jones dei faraoni”. Lo convinse a concederle due mesi di tempo per condurre gli scavi nel sito. I lavori sono in corso dal 2004, ma il nuovo ritrovamento è la prova più convincente che Martinez è sulla strada giusta. “Questo è il luogo perfetto per la tomba di Cleopatra”, ha dichiarato Martinez al blog Heritage Key. “Se c’è l’1% di possibilità che l’ultima regina d’Egitto sia sepolta lì, è mio dovere cercarla. Se scopriamo la tomba sarà la scoperta più importante del XXI secolo. Se non scopriamo la tomba, avremo comunque fatto grandi scoperte qui, all’interno del tempio e fuori dal tempio”.

Finora gli scavi hanno rivelato mummie con lingue d’oro e un cimitero contenente mummie in stile greco-romano sepolte di fronte al tempio, a sostegno della teoria di Martinez secondo cui nell’area fu costruita una tomba reale. Oltre al tunnel, l’ultimo ritrovamento comprende due statue di alabastro di epoca tolemaica, una delle quali sembra essere una sfinge, oltre a vasi e recipienti di ceramica. Parte del tunnel è sott’acqua, forse a causa di antichi terremoti che colpirono la regione tra il 320 e il 1303 d.C. Questi disastri naturali potrebbero aver portato al declino di Taposiris Magna.

Dopo aver riportato questo messaggio, che sta rimbalzando in tutto il mondo, riporterò la mia personale opinione. Questa non può essere la tomba di Cleopatra ma, forse, di qualcuno dei suoi fratelli o di regnanti precedenti alla sua salita al trono e alla sua morte. Dopo il suicidio della regina, celebre per la sua bellezza e per la sua grande cultura (sapeva parlare varie lingue e poteva discutere di filosofia aristotelica e platonica) e di sangue macedone, non egizio, seguì un periodo di incertezza. Augusto, il nuovo padrone dell’Egitto, non si fece sedurre dal loro misticismo e procedette a un saccheggio sistematico delle loro ricchezze.

 

La cantonata presa da Liz Truss

La cantonata presa da Liz Truss

Roosevelt al tempo del suo New Deal

di Michael Santi

“Intendevamo cambiare una nazione, e invece abbiamo cambiato un mondo”, fu l’emblematica dichiarazione di Ronald Reagan, che per tutta la sua presidenza condivise con Margaret Thatcher ossessioni fondamentalmente individualiste, in cui lo Stato rappresentava la minaccia assoluta contro la libertà e contro la proprietà. E, in effetti, il loro avvento – di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti – fornì a questi campioni dell’ultraliberismo l’occasione perfetta per concretizzare il loro metodo, che fu portato avanti battendo i tamburi con gioia e partecipazione. Fin da subito, la schietta dichiarazione di Reagan, del 20 gennaio 1981, durante la cerimonia di insediamento – “Il governo non è la soluzione al nostro problema, il governo è il problema” – preannunciò il metodico smantellamento del lungo e benevolo processo del New Deal che aveva prefigurato la socialdemocrazia europea occidentale del dopoguerra. Da quel momento in poi, il conservatorismo economico e la regressione sociale regnarono sovrani.

Come dimenticare l’effetto devastante degli anni di Reagan? Egli fu iniziatore di una politica che ha ridotto nel breve, medio e lungo periodo, la quota dell’industria sul reddito nazionale (dal 21,5% del 1980 al 12% del 2005) per aumentare ovviamente quella dei servizi finanziari (dal 15% del 1980 al 23% del 2005)? Era ovvio che questa abdicazione dello Stato alle sue prerogative sarebbe stata meccanicamente colmata dallo sviluppo iperbolico di quella piovra che è il settore finanziario che, da quel momento in poi, avrebbe dovuto fornire tutti i servizi all’economia. I mercati finanziari esistevano naturalmente prima della metà degli anni ’70, ma sono decollati solo quando è stata attribuita loro una virtù miracolosa, quella di generare profitti immensi, a condizione (ma questo era evidente) che l’assunzione di rischi sia banalizzata e che la regolamentazione sia necessariamente simbolica.

Mercati finanziari, abbiamo detto? No: giudici onnipotenti e onniscienti che avrebbero riportato l’ordine nei conti delle imprese e delle famiglie attraverso tutte le parti dell’economia con la loro benevola efficienza. “Ritengo che l’ipotesi dei mercati efficienti sia una semplice affermazione che dice che i prezzi dei titoli e delle attività riflettono tutte le informazioni conosciute”, affermava all’epoca con grande serietà l’economista Eugene Fama. I seguaci di questi mercati finanziari “ideali” erano convinti che i prezzi fossero il risultato di un equilibrio razionale, che qualsiasi considerazione superflua, qualsiasi stato d’animo, dovesse cedere di fronte ai mercati che indicavano il prezzo a tutti gli attori. Tutto aveva un prezzo.

Ma ecco che questo neoliberismo coltivato all’eccesso dalla Thatcher, da Reagan, da Friedman e dai loro seguaci è fortunatamente passato sotto i colpi di… questi stessi mercati e delle loro crisi ricorrenti. È in quest’ottica che dobbiamo comprendere il naufragio in Gran Bretagna di Liz Truss, sconfessata innanzitutto dal mercato per aver voluto resuscitare l’ignominia thatcheriana, ormai divenuta arcaica anche agli occhi del grande capitalismo. Infatti, divenuti dipendenti dallo Stato, dai suoi interventi, dalle sue ripetute infusioni, i mercati si sono posti sotto la protezione del Governo, abbandonando senza scrupoli il dogma della libertà che hanno rivendicato con arroganza e spregiudicatezza per decenni. Nel momento in cui Truss ha proclamato a gran voce che lo Stato non avrebbe offerto alcuna protezione nell’ambito del suo mandato, è stata quasi immediatamente liquidata dai mercati trasformatisi improvvisamente in informatori, unendosi così ai cittadini nell’emettere una richiesta congiunta che nessun politico può più ignorare.

Questo cambio di paradigma scoperto a spese di Liz Truss – ironia suprema in una Gran Bretagna considerata fino a poco tempo fa il centro nevralgico del neoliberismo – può essere formulato semplicemente così: come i cittadini, i mercati vogliono essere governati, guidati, protetti. Lo Stato, oggi, è quindi chiamato ad agire su più fronti: ovunque in Occidente i partiti di destra, tradizionalmente iper-liberali, sono chiamati a prendere le distanze dall’algido individualismo un tempo propugnato da Thatcher e Reagan. Un appello forte e chiaro viene lanciato dal mondo degli affari, dai mercati, dalla finanza in generale, tutti tradizionalmente impegnati a destra: tutti chiedono un nuovo impulso, perché non una sorta di paternalismo? Certamente una richiesta insopprimibile che lo Stato assuma la guida nella lotta contro le molteplici insicurezze: economiche, militari e, naturalmente, climatiche.

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Le insidie dell’inflazione

Le insidie dell’inflazione

Hjalmar Schacht fu nominato commissario valutario della Repubblica di Weimar nel 1923 e successivamente capo della banca centrale tedesca, la Reichsbank. Quello che fece dopo è affascinante e rappresenta una meravigliosa confutazione di tutta la saggezza politica ed economica di oggi. Si chiuse in uno sgabuzzino del Ministero delle Finanze e non fece nulla…

Potrebbe sembrare un modo strano di risolvere il problema dell’inflazione. Ma se si accetta che l’inflazione è causata dalle politiche del governo, allora ha molto senso. Per ridurre l’inflazione, basta che il governo smetta di causarla. Ecco come lo ricordò in seguito il segretario di Schacht:

“Cosa fece? Si sedeva sulla sua sedia e fumava nella sua piccola stanza buia che odorava ancora di vecchi panni per il pavimento. Leggeva lettere? No, non leggeva lettere. Scriveva lettere? No, non scriveva lettere. Telefonava molto – telefonava in ogni direzione e in ogni luogo tedesco o straniero che avesse a che fare con il denaro e i cambi, nonché con la Reichsbank e il Ministro delle Finanze. E fumava. In quel periodo non mangiava molto. Di solito tornava a casa tardi, spesso con l’ultimo treno suburbano, viaggiando in terza classe. A parte questo, non faceva nulla”.

A dire il vero, all’inizio Schacht fece molto. Lanciò una moneta concorrente all’interno della Germania, il rentenmark, che operava a fianco del papiermark ufficiale, ma iperinflazionato. Questa valuta era ancora (mal)gestita dal predecessore di Schacht alla banca centrale, il leggendario architetto dell’iperinflazione di Weimar, Rudolf von Havenstein.

Schacht fornì semplicemente un’alternativa al papiermark che non si iperinflazionasse: una moneta che permettesse di comprare e vendere nuovamente il raccolto tedesco, portando cibo nelle città affamate, ecco il “miracolo del rentenmark”.

Durante l’iperinflazione di Weimar, la gente incolpava ogni sorta di cose e altre persone per l’inflazione che si trovava a affrontare. La speculazione, gli industriali, gli agricoltori, il mercato azionario, i sussidi, i profittatori, la perdita di territorio, l’aumento di valore delle valute estere e gli ebrei erano in cima alla lista. L’unica cosa che la gente non sembrasse incolpare erano i disavanzi pubblici e la stampa di denaro che li pagava. Ma questa è un’altra storia. Oggi ci concentriamo in particolare sui mercati dei cambi. Questo perché, di solito, quando scoppia l’inflazione, i mercati dei cambi sono un importante meccanismo di trasmissione e un segnale. Più precisamente, l’inflazione in una nazione è identificabile per il crollo del valore della sua valuta nei mercati dei cambi: è percepita dagli importatori, dagli esportatori e dai turisti della nazione, e l’inflazione è esacerbata dal crollo del tasso di cambio.

In altre parole, il dramma dell’inflazione e quello dei cambi sono legati a doppio filo, storicamente e metaforicamente parlando. Ma questa volta il dramma dell’inflazione potrebbe essere molto diverso dalla solita storia dell’inflazione. Le attuali pressioni inflazionistiche saranno molto più globali che in passato. Sarà più paragonabile all’inflazione diffusa degli anni ’70 che ai casi isolati di inflazione nazionale prima o dopo quel periodo. Questa volta, il mondo intero potrebbe subire uno shock inflazionistico sincronizzato. In altre parole, le inflazioni del passato potrebbero non essere un buon viatico per l’inflazione del futuro.

Durante l’inflazione, la moneta estera la fa da padrona. Durante i periodi di inflazione, alcune persone cercano di risparmiare in valute estere. Queste diventano il modo migliore per conservare la ricchezza in forma liquida. Si mantengono tutti i vantaggi del denaro, ma si sfugge alla sua caduta di valore. Quando l’inflazione diventa abbastanza grave da rendere il denaro locale privo di valore, le valute estere non sono solo il modo migliore per risparmiare, ma anche per condurre affari. Si tratta di una strana inversione della Legge di Gresham, secondo la quale le persone risparmiano e si tengono strette le forme di denaro buone, mentre spendono il denaro meno favorevole per sbarazzarsene. Ebbene, quando la moneta nazionale diventa del tutto inutile, alcune persone finiscono per tornare alla moneta straniera.

Poiché la gente non si fida delle statistiche governative, o non è in grado di ottenere informazioni accurate sui prezzi a causa dell’intervento del governo, il tasso di cambio diventa la misura de-facto dell’inflazione stessa. Durante l’iperinflazione austriaca, la gente chiedeva a gran voce notizie dai mercati dei cambi svizzeri. Era la loro misura de-facto dell’inflazione e rivelava il valore dei loro risparmi, sempre più denominati in moneta svizzera.

Il legame tra valuta estera e inflazione è così evidente che alcuni attribuiscono alla svalutazione della valuta estera la causa dell’inflazione. Adam Fergusson, nel suo libro “Quando il denaro muore”, ha spiegato quanto la gente si sia illusa di questo in Germania: “Si sentiva qualcuno dei più sofisticati dal punto di vista finanziario incolpare il governo, e in particolare il ministro delle Finanze, ma l’opinione tipica era che i prezzi salissero perché il cambio era salito, che il tasso di cambio fosse salito a causa della speculazione in Borsa, e che ciò fosse ovviamente colpa degli ebrei. Sebbene il prezzo del dollaro fosse oggetto di discussione pressoché universale, alla maggior parte dei tedeschi sembrava ancora che il dollaro stesse salendo, non che il marco stesse scendendo; che il prezzo dei generi alimentari e dei vestiti venisse forzatamente aumentato ogni giorno, non che il valore del denaro stesse permanentemente diminuendo a causa dell’inondazione di marchi cartacei che diluiscono il potere d’acquisto di quelli già in circolazione”. Sembra incredibilmente difficile per le persone capire che il valore del loro denaro può diminuire senza che il numero stampato su di esso cambi. Si pensa che tutto il resto del mondo stia cambiando, tranne il valore della banconota. Quando la loro moneta crolla negli scambi con l’estero, sono tutte le altre valute a salire di valore, non la loro moneta a scendere. E l’aumento delle valute degli altri Paesi è alla base dell’inflazione della valuta nazionale….

Quale follia può portare una nazione all’iperinflazione? Anche questo ragionamento può essere trovato nei mercati dei cambi. Il libro di Fergusson “Quando il denaro muore” lo spiega bene: “La maggior parte degli uomini d’affari di successo, tuttavia, si attenne felicemente all’eresia secondo cui solo con un tasso di cambio in continua discesa la Germania avrebbe potuto competere sui mercati neutrali. Dopo di loro, il diluvio. Né loro, né i politici, né i banchieri – tranne poche eccezioni – percepivano un legame diretto tra inflazione e svalutazione. Eppure, mentre le macchine da stampa sfornavano banconote, il cambio continuava a scendere rapidamente”.

Ricordate le guerre valutarie dopo la crisi finanziaria del 2008? Le nazioni creavano denaro per cercare di svalutare le loro valute e ottenere un vantaggio competitivo nelle esportazioni. È quello che faceva anche la Germania negli anni Venti. E ha funzionato. La disoccupazione tedesca era una frazione minima di quella del Regno Unito, ad esempio. I prodotti tedeschi erano richiesti all’estero perché erano così economici. Ma non ha funzionato nel periodo precedente agli anni 2020. Questo perché così tante nazioni si sono impegnate nella stessa pratica nello stesso momento. Forse questo suggerisce che anche la natura dell’inflazione è cambiata. Il cambio permette anche alle aziende internazionali di trasferire i loro profitti all’estero in una valuta straniera, come già avviene oggi. Lo chiamano transfer pricing. Avendo molte filiali in molti paesi, che si fanno pagare per vari beni e servizi, i profitti possono essere spostati nella giurisdizione con la tassazione più bassa (ecco la fronte della ricchezza creatasi a Hong Kong!). In caso di inflazione, le aziende probabilmente si assicureranno che i loro profitti siano accumulati nella nazione senza inflazione, dove il profitto avrà effettivamente un valore.

La Germania aveva un tasso di disoccupazione incredibilmente basso ma un’iperinflazione, mentre il Regno Unito aveva il contrario, ad esempio. Lo stesso vale per Argentina e Zimbabwe più recentemente. Sono casi da manuale di iperinflazione, ma abbastanza isolati a livello globale. Questa volta, i governi di tutto il mondo stanno ricorrendo contemporaneamente a politiche iperinflazionistiche – ampi deficit e “stampa” di denaro (cioè la creazione di moneta con mezzi elettronici). Cosa succederà quando tutto il mondo sarà colpito dalla malattia dell’inflazione? La distinzione è importante perché l’inflazione sarebbe meno in grado di manifestarsi sui mercati dei cambi. Le svalutazioni delle valute si manifestano in base alla quantità di valuta estera che si acquista prima ancora che si manifesti la perdita di potere d’acquisto dei beni di consumo. Ecco perché il mercato dei cambi diventa un argomento così scottante nelle nazioni inflazionistiche. E perché i governi vi interferiscono. Ma questa volta, se tutte le nazioni si impegnano contemporaneamente in politiche inflazionistiche… cosa succederà? Beh, l’inflazione sarà più difficile da diagnosticare. Inoltre, non emergerà con la stessa rapidità, rendendo più costosi i beni stranieri. Un’altra possibilità è quella di ottenere l’inflazione senza i benefici. Ciò che intendo dire è evidente nella Germania di Weimar. Secondo molte misure, l’economia era in pieno boom. E molti in Occidente ci credevano: era uno dei motivi per cui chiedevano alla Germania di continuare a pagare le riparazioni di guerra. Si riteneva che i tedeschi fingessero la loro miseria economica per sfuggire agli impegni del Trattato di Versailles. Il vantaggio maggiore è nelle esportazioni. Un marco senza valore rendeva l’industria tedesca molto competitiva a livello internazionale. Questo aiutò anche i ricchi industriali tedeschi a proteggere le loro ricchezze negli affari all’estero, tenendo i profitti fuori dalla Germania. Ma se tutte le nazioni si impegnano in politiche inflazionistiche, la guerra valutaria diventa come tutte le guerre: nessuno vince.

 

 

Diego Bianchi su Propaganda Live parla del nostro libro “Mussolini in Giappone”, che aveva in mano on. La Russa

Diego Bianchi su Propaganda Live parla del nostro libro “Mussolini in Giappone”, che aveva in mano on. La Russa

L’intento del presentatore Diego Bianchi era chiaramente satirico (Propaganda Live del 16.09.2022) nei confronti di Ignazio La Russa e di me. L’ho comunque ringraziato per avermi fatta pubblicità e credo che, anche on. La Russa, si sia fatto due risate.

Diego Bianchi ha seguito on. La Russa per le vie di Roma e l’ha fotografato con un libro sottobraccio, appunto il mio “Mussolini in Giappone” che penso egli abbia acquistato in una libreria. Ne avevo inviato una copia a Giorgia Meloni, ma credo che quella, a lei dedicata, se la sia tenuta. Il mio libro è un romanzo con tenui basi storiche. Un po’ come “I Vestiti Nuovi dell’Imperatore” di Simon Leys (orig. The Death of Napoleon) nel quale si crea una storia alternativa, ovvero la sostituzione, con un sosia, di Napoleone Bonaparte a Sant’Elena.

Diego Bianchi ha poi mandato una schermata con la recensione fatta al mio libro da Ambrogio Bianchi (i due non sono parenti) sul popolare blog “La Nostra Storia” curato da Dino Messina del Corriere della Sera, nel quale si valutano le varie opzioni presentate nel romanzo.

Ecco l’articolo di Ambrogio Bianchi:

Un recensione sul Corriere della Sera dedicata al mio libro Mussolini in Giappone – Giornale Cangrande

Ecco la puntata completa del 16/09 di Diego Bianchi:

Propaganda Live – Puntata del 16/9/2022 (la7.it)

 

Si inizia a parlare di on. Ignazio La Russa e del mio libro al punto 1:05

Il libro è acquistabile sul sito della Gingko Edizioni

Mussolini in Giappone – Gingko Edizioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fine del Carro Armato, a 100 anni dalla nascita

La fine del Carro Armato, a 100 anni dalla nascita

 

L’era dei mostri d’acciaio che hanno seminato la morte sui campi di battaglia, mitragliando, cannoneggiando, stritolando il povero fante con i loro cingoli, sta per tramontare.

Parliamo del Carro Armato, del Panzer, del Tank. Un veicolo che fu sognato da quel genio di Leonardo Da Vinci e poi descritto da un altro sognatore, H.G. Wells nel 1903,  nel suo racconto The Land Ironclads.

Nel 1916 gli inglesi gettarono in battaglia i primi esemplari di carri, simili a quelli che vediamo oggi in azione. Portavano solo una mitragliatrice pesante, ma nel 1917 apparvero i primi Renault francesi con torretta rotante e cannoncini. I carri tedeschi apparvero in ritardo, nel 1918 e si ebbe così la prima battaglia fra carri della storia, il 24 aprile 1918, durante la seconda battaglia di Villers-Bretonneux. Vinsero gli inglesi facendo saltare un carro tedesco con uno dei loro veicoli dotati di cannone. I primi carri armati presenti in Italia furono 7 Renault, tenuti da parte a Verona, lontani dal fronte e che non furono mai impiegati.

Vari teorici della guerra intuirono la sua forza e svilupparono le proprie teorie basandosi sul loro impiego massiccio e concentrato, capendone il potenziale. I primi a farlo furono i tedeschi, seguiti dai francesi, con Charles De Gaulle. In Italia il messaggio non giunse ai vertici del nostro esercito.

Giunti alla Seconda guerra mondiale e contrariamente a quanto si pensa, il miglior carro armato fu certamente il T34 sovietico, grazie alle sospensioni Christie, da loro copiate agli americani. Questo consentì il massimo della versatilità e mobilità.  Nonostante la qualità e il numero dei carri sovietici, questi furono fortunati per il fatto che i tedeschi non furono in grado di mettere in campo più aerei Stuka dotati di cannoncini anticarro, altrimenti questi, e non i carri Panther e Tigre, li avrebbero neutralizzati. Per esempio, un solo pilota, Ulrich Rudel, che pilotava questo modello di Stuka, distrusse più di 500 carri armati russi.

La vulnerabilità, o meglio i limiti, dei mostri d’acciaio è stata dimostrata più volte a partire dalla fine della II Guerra mondiale, per esempio durante la I Guerra del Golfo. I carristi iracheni seppellivano nel deserto i loro mezzi, per renderli invisibili all’aviazione americana. Questo durò fin quando un pilota non pensò che stando sotto alla sabbia con un sole cocente, di notte l’acciaio sarebbe stato ancora surriscaldato. Montarono dei visori a infrarossi e di notte li videro brillare sotto alla sabbia e li fecero saltare a uno a uno.

Durante l’insurrezione di Piazza Tienhanmen del 1989, a Pechino, tutti abbiamo visto arrestarsi una colonna di carri davanti a un impiegato che gli si era posto davanti (sta ancora in galera) e anche questo ha mostrato i loro limiti. Oggi, con l’avvento dei droni, possiamo essere certi che il terribile regno dei mostri d’acciao è giunto al termine, a poco più di cento anni dalla loro comparsa. La guerra di Putin in Ucraina è stato uno spartiacque e presto sarà inutile tenerli nel proprio arsenale, perché sono costosi, hanno bisogno di molta logistica e sono effettivi solo su certi terreni.

L’Italia, sulla carta, possiede solo 200 carri Leopard, ma quelli effettivamente funzionanti sono circa 60. Ebbene, non servirà aggiungerne altri, come qualcuno chiede, basterà potenziare il nostro arsenale di droni, armati di missili anticarro, per neutralizzare quelli nemici e consegnarli definitivamente ai musei di guerra.

 

Ambrogio Bianchi

 

 

Consorzio Zai – Storia

Consorzio Zai – Storia

Quadrante Europa – Consorzio Zai, è una grossa realtà nella Verona moderna, proiettata verso un propsero futuro.

Nel 1948 la cultura legata alla vita dei campi e la vocazione mercantile del Nord Est del Veneto, trovano la loro sintesi nel Decreto legislativo che istituì il Consorzio Zai. La prima Zona agricola industriale d’Italia e che sarebbe nata nell’area immediatamente a Sud del centro storico, dove dal 1926 esistevano i Magazzini Generali e dove, al tempo della Prima guerra mondiale, esisteva l’aeroporto militare di Verona, dal quale decollarono Francesco Baracca e Gabriele D’Annunzio.

A metà degli anni ’50 si considerò l’opportunità di inserire in quest’area anche delle attività non legate alla produzione agricola, come complementari a un’economia in costante evoluzione. Una scelta felice, accompagnata da politiche di agevolazione e di credito nei confronti di commercianti e artigiani per incentivare i trasferimenti. La lavorazione dei prodotti della terra, in una zona strategica per quanto riguarda il traffico con l’estero, richiede nuovi spazi e cosi, nel ’52 su un’area di 100 mila metri quadrati entra in funzione il nuovo Mercato Ortofrutticolo.

Nel 1955 nella Zai storica, detta anche Zai Uno, sono presenti 42 industrie, distribuite su una superficie complessiva di 230.000 metri quadrati. In seguito, all’inizio degli anni ’60 le industrie che operano in Zai erano salite a 230, di cui 137 manifatturiere e 61 sono metallurgiche e meccaniche. 67 aziende appartengono al settore commerciale, di cui 49 ortofrutticole; sono 15 invece le imprese che si occupano dei servizi (uffici di rappresentanza, spedizioni, pubblicita’) e 10 quelle che operano nel settore alimentare. Negli anni ’70, con un incremento del 100%, le imprese insediate salirono a 409, di cui 263 manifatturiere. Continua intanto a crescere il numero delle aziende nell’area storica della Zai: ai giorni nostri sono oltre 600, con oltre 20 mila addetti.

 

Giunta PD a Verona, oppure Giunta Opus Dei?

Giunta PD a Verona, oppure Giunta Opus Dei?

Si racconta che il PD abbia espugnato Verona. Eppure i suoi attivisti non mostrano un eccessivo entusiasmo per la vittoria.
Anzi, alcuni di loro sono oggettivamente infuriati per le scelte fatte dal sindaco, Damiano Tommasi, e cominciano a sospettare di essere stati usati come dei taxi.
Damiano Tommasi non si era mai dichiarato di sinistra, o vicino al PD e ad alcuni dei loro cavalli di battaglia, come il gender e lo jus soli, ma aveva piuttosto  mantenuto un cauto silenzio, sfoggiando costantemente un enigmatico sorriso, che ci ricordava la Gioconda.
La rabbia degli attivisti PD dopo le sue scelte per le posizioni nella giunta sono comprensibili. Questa vede il predominio di membri, simpatizzanti o aderenti, della Opus Dei. Anche il vecchio sindaco, Federico Sboarina, era un Opus Dei, ma le scelte di Tommasi, attivo membro Opus Dei, paiono essere state guidate più dalla sua appartenenza all’ordine creato da San Josemaria Escrivà, che alla partitica.
Niente di male, anzi, tranquillizzante, essendo l’Opus Dei un ordine benefico di grande spessore morale, che fa tutto alla luce del sole. Dobbiamo dimenticare Il Codice da Vinci, scritto da quel analfabeta di ritorno di Dan Brown.

 

 

MARCINELLE. Non bisogna dimenticare!

MARCINELLE. Non bisogna dimenticare!

Il Consigliere Comunale di FdI, Massimo Mariotti interviene sulla tragedia della miniera di Marcinelle in Belgio, della quale l’8 agosto prossimo  ricorre il 66mo anniversario.

«Un autorevole settimanale italiano, pubblicato in Belgio nei primi anni del dopoguerra, riportava l’annuncio della tragedia di Marcinelle con un titolo su otto colonne laconico nella sua drammaticità: “Al Bois du Cazier tutti morti a 1035!”. Una notizia agghiacciante che provocò un brivido di terrore nell’opinione pubblica mondiale e in particolare in quella di casa nostra, visto che il numero di morti italiani era il più alto. Dei 262 minatori europei deceduti, ben 136 provenivano dall’Italia, fra questi 8 dal Veneto, uno di questi, Giuseppe CORSO, da Verona» afferma Mariotti, che negli anni scorsi gli fece intitolare una strada nel Comune di Verona, dove ogni anno viene ricordato con una Cerimonia alla presenza di Autorità Istituzionali e rappresentanti delle Associazioni dell’Emigrazione Veneta.

«Il 23 giugno 1946 l’Italia firmava un accordo bilaterale scandaloso con il Belgio che prevedeva l’invio settimanale di duemila operai in cambio di duecento chili di carbone per ogni giornata lavorativa di ciascun minatore italiano. Con l’accordo veniva sancita una tacita “deportazione economica” in cambio di un lavoro. Un baratto ignobile siglato da governi del tempo, messo sotto accusa dieci anni dopo dalle vittime di Marcinelle che gridavano vendetta perché, sempre in Belgio, non si contavano ormai i morti italiani Caduti nelle miniere.» prosegue Mariotti.

«Complessivamente sono stati 867 gli italiani periti nelle miniere del Belgio. Una cifra significativa, emblematica,  uno stillicidio di sofferenza per i nostri emigranti continuato per decenni e vissuta sulla pelle delle loro famiglie in Italia, senza che nessuno nei palazzi romani si scomponesse».

A Marcinelle, l’Onorevole Mirko TREMAGLIA ebbe a dichiarare in uno dei tanti pellegrinaggi effettuati in silenzio: «Così è finito il sogno di chi, piangendo, lasciava la terra per cercare, nel durissimo lavoro, la soluzione di chi in Patria non trovava occupazione. La memoria storica di quanto è accaduto deve far rivivere, davanti a noi, non solo le immagini di quel giorno spaventoso, ma deve costituire la stella polare di chi, su quel grande sacrificio, vuole costruire una nuova società».

«Vi è il sacro dovere di rispettare a tutti i costi il lavoro, che deve essere il protagonista di una nuova politica di sicurezza, di partecipazione e di giustizia sociale, dove nessuno possa imporre con il danaro il proprio tornaconto e dove i lavoratori, in collaborazione con i datori di lavoro, tornino ad essere i protagonisti del loro avvenire».

Queste parole, pronunciate in anni non sospetti sono l’essenza chiara e lucida di questa Giornata del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo, come più volte dichiarato anche all’On. Piero Fassino affermando che «gli italiani all’estero sono un fattore di sviluppo per i Paesi di accoglimento e una ricchezza per l’Italia».

«La miniera maledetta del Bois du Cazier di Marcinelle rimane come monito per un domani migliore, un futuro più giusto di quello che milioni di italiani hanno dovuto conoscere e subire negli anni passati. – continua Mariotti – L’8 agosto deve essere un momento di riflessione per tutti, per porre fine ad ogni forma di vergognoso sfruttamento e di sottomissione, nel rispetto assoluto delle leggi, della giustizia sociale e della politica dei diritti negati per ogni lavoratore, da sempre rivendicata dentro e fuori dal Parlamento dal CTIM, Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo, in ogni contrada del mondo, assieme alle storiche associazioni nazionali della nostra emigrazione».

«Il calvario degli italiani nel mondo rimanga da monito per tutti, anche nei momenti più difficili della nostra Patria che, come Nazione antica di civiltà vuole ricordare per mai più dimenticare» conclude Mariotti.

Il post elezioni a Verona

Il post elezioni a Verona

Rileggendo gli articoli postati su questo giornale, ci rendiamo conto di quanto speravamo in una riconferma del sindaco uscente, Federico Sboarina, anche e nonostante una mano invisibile avesse già tracciato le parole mene, tekel, fares sui muri dell’Arena.

Ci siamo sbagliati. Non avevamo voluto leggere i fatti e la realtà delle cose, e questo è stato un grave errore del quale ci scusiamo. Gli inglesi lo chiamano wishful thinking ossia volere a tal punto una cosa da crederla possibile, pur essendo sempre stata impossibile.

Federico Sboarina ha dimostrato di non essere in grado di far politica. Questo non è il suo mestiere e non è la sua carriera. Certo, ha messo in cantiere dei grandi progetti che quando, arriveranno a compimento, entreranno nel carniere di Damiano Tommasi, ma ha peccato di presunzione, non curandosi dei dettagli. E spesso i dettagli contano più dei fatti.

Qualcuno, a destra, aveva lodato la sua intenzione di farsi harakiri  pur di non unirsi a Tosi e così mantenere intatta la propria verginità. Giuseppe Garibaldi scrisse al figlio, come primo comandamento, che: “Il migliore generale è sempre quello che vince”. Ecco, Sboarina non ha tenuto conto del consiglio di Garibaldi, preferendo salvare la propria “grande faccia”.

Questa crisi con Flavio Tosi era prevedibile da anni e, dunque, un politico di razza avrebbe dovuto trovare una strategia per neutralizzarla, molto prima del voto, per non spezzare in due la destra, come poi è accaduto. “Se non puoi batterlo, unisciti a lui”, dice il vecchio adagio. Inoltre, avrebbe dovuto consigliarsi con i suoi sostenitori, chiedendo il loro parere e poi decidere, ma a quanto pare non ha mai chiesto consiglio a nessuno.

La conferma della sua inadeguatezza la si è vista durante lo scontro televisivo con Tommasi, durante il quale ha voluto fare il “carino” invece che affondare i colpi, con un avversario che era chiaramente impreparato e all’oscuro di tutto. Inoltre, durante il primo consiglio comunale, l’ex sindaco rideva, scherzava e scattava selfie con tutti, invece che rassegnare le dimissioni e scusarsi con chi lo aveva sostenuto. Ora non ci resta che sperare che il 26 settembre, né lui, né Tosi, li vedremo eletti in Parlamento.

L’Italia è il Paese di Nicolò Machiavelli, una grande pensatore che ha saputo leggere la realtà dei fatti, non l’ha inventato, come molti credono. E un uomo politico, come un condottiero, deve pensare prima a suo popolo e poi a sé stesso, pronto anche a vendere la propria anima al diavolo, pur di raggiungere la vittoria. Machiavelli seppellì per una seconda volta il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina, Pier Soderini, uomo tutto sommato onesto e mite, quando scrisse il celebre aforisma: “La notte che morì Pier Soderini/l’anima andò de l’inferno alla bocca;/ gridò Pluton – ch’inferno? anima sciocca, va su nel limbo fra gli altri bambini -.

Ecco, lo stesso potrebbe valere per il nostro Federico Sboarina.