RIFORME COSTITIZIONALI: REFERENDUM  O ASSEMBLEA COSTITUENTE? di  CARLO VIVALDI-FORTI

RIFORME COSTITIZIONALI: REFERENDUM  O ASSEMBLEA COSTITUENTE? di  CARLO VIVALDI-FORTI

 

Di Carlo Vivaldi-Forti

Da alcuni mesi si è messo in moto il meccanismo della “madre di tutte le riforme”, che dovrebbe assicurare maggiore stabilità all’esecutivo e governabilità al Paese. A prescindere dal fatto che il patema d’animo suscitato da tale annuncio  sembra un po’ intempestivo, vista la lunghezza di questi processi, è indubbia l’incidenza di simile progetto sulla polemica politica, anche in attesa delle elezioni europee. Ecco perché ritengo utile un sia pur sommario esame della proposta , dal momento che non disponiamo ancora del testo definitivo.

Iniziamo subito col rilevare la bontà e l’utilità di talune disposizioni di base, come l’elezione diretta del Premier e le clausole anti-ribaltone, che se davvero applicate porrebbero fine allo sconcio mercato per l’acquisto di parlamentari e ai governi tecnici, non eletti da nessuno, il cui vero scopo non è fronteggiare le emergenze, bensì rovesciare la volontà espressa dal popolo. La durata quinquennale della legislatura è poi un altro effetto positivo della riforma, data la continuità  e la coerenza dell’azione politica.  Meno comprensibile appare invece   l’istituto del secondo Premierato  (a meno che , beninteso, le dimissioni del primo Capo del Governo non dipendessero da circostanze di forza maggiore  indiscutibili  e verificabili)  prestandosi a potenziali manovre di palazzo all’interno della maggioranza .

Quanto alla realizzabilità  di tali modifiche, occorre considerare che mai, nell’attuale Parlamento, si troveranno i due terzi favorevoli, e questo indipendentemente dagli  emendamenti presentati in corso d’opera. Tutti dovrebbero infatti sapere che l’opposizione non convergerà  su alcun testo proposto dalla Meloni, fosse pure il più vicino  ai propri concetti, per il semplice motivo che essa non guarda al merito delle questioni, ma cerca soltanto ogni appiglio per creare problemi alla maggioranza , puntando su alternative alla Dini, alla Monti o alla Draghi. Il ricorso al referendum è dunque certo  e la sua celebrazione rappresenta un fortissimo rischio  per la tenuta dell’esecutivo, malgrado la volontà di Giorgia, ripetuta più volte, di tenere separato il problema costituzionale sulla vita del governo. Basta infatti un rapido excursus  storico per comprendere che  la massa degli elettori è poco o nulla interessata alle riforme costituzionali, di cui tra l’altro non è in grado di comprendere il rilievo data la carenza di cultura giuridica, interpretando lo strumento referendario come un semplice plebiscito  pro o contro la classe al potere; ciò non si evince  soltanto dalle recenti  esperienze italiane, di Berlusconi nel 2006  e di Renzi nel 2016, ma pure dalla storia di una delle nazioni europee più avvezza all’uso referendario: la Francia.

La prima volta, dopo la rivoluzione, che i francesi vengono consultati  in via referendaria, anche se all’epoca il referendum  si chiama plebiscito, è nel 1799  per l’approvazione della cosiddetta Costituzione dell’anno VIII° , che prevede il Triumvirato con Napoleone Primo Console. La seconda , nel 1802,  per nominarlo Console a vita; la terza, nel 1804, per elevarlo a Imperatore. L’introduzione del plebiscito quale metodo  di riforma costituzionale entrerà a far parte della consuetudine fino all’avvento della Quinta Repubblica . Il nipote del Bonaparte, Luigi Napoleone, se ne serve ancora  nel 1851 per prolungare a dieci anni la durata della sua Presidenza, e un anno dopo  il 2 dicembre 1852, per essere proclamato Imperatore. Quelli che c’interessano più direttamente , tuttavia, sono i referendum  costituzionali indetti da de Gaulle rispettivamente  nel 1958, nel 1962, nel 1969. Il primo ha come tema la nascita della nuova Costituzione, il secondo l’elezione diretta del Capo dello Stato, il terzo la riforma del  Senato  da organo partitico in partecipativo, con la rappresentanza  di tutte le forze economiche, sociali, culturali del Paese. I primi due sono vinti a mani basse, mentre il terzo è respinto , sia pur di stretta misura, dagli elettori, tanto da indurre il Generale a dimissioni immediate.

Ora, la vasta esperienza francese c’insegna che i referendum si vincono  quando l’alternativa è fra l’approvazione della proposta e una situazione caotica  insostenibile; si perdono  quando tale alternativa non è chiara  e il popolo se ne serve invece per manifestare il proprio generico scontento.

La bocciatura della riforma del 1969 non deve ritenersi un meditato rifiuto di questa su basi tecniche , bensì l’espressione della stanchezza che si era impadronita dei cittadini per diverse cause: la recente esperienza sessantottina  con i gravissimi  disordini di maggio,  la protesta dei giovani sempre più orientati a sinistra,   l’avvio di un declino economico che avrebbe raggiunto l’apice negli anni successivi  e, da ultimo, la lunga permanenza di de Gaulle  all’Eliseo, che induce una crescente volontà di cambiamento. Pure in Italia gli insuccessi di Berlusconi e Renzi sono dovuti a una opposizione di principio ai loro governi  che non al merito delle riforme proposte. Tutto ciò considerato, la scommessa di Meloni  sulla vittoria al referendum  appare razionalmente molto dubbia,  in un periodo caratterizzato da difficoltà economiche crescenti, contrasti  con l’Europa, crisi internazionali drammatiche, di cui non è possibile prevedere gli sviluppi. Si spera certo  che il tempo volga al meglio e non al peggio, ma è comunque sicuro che gli italiani non si esprimeranno sul contenuto della riforma, bensì sull’immagine di cui  godrà il governo in quel momento , sui risultati contingenti e immediati della sua azione.

Passiamo ora a un altro aspetto del problema. Come tutti ricordiamo, il programma del centro destra parlava di Presidenzialismo e non di Premierato. La differenza non è marginale, in quanto il Presidente del Consiglio,  anche se  eletto dal popolo, resta pur sempre il leader di un esecutivo politico  dipendente dalla fiducia dei partiti, mentre il Capo dello Stato  svolge funzioni di arbitro super partes, non essendo tra l’altro per nulla obbligatorio che debba appartenere a uno specifico movimento politico, la suprema carica rimanendo aperta a qualunque personalità  di prestigio. Gli elettori  del 25 settembre  2022 erano persuasi della bontà di questa proposta, e la sua derubricazione  in Premierato  potrebbero non approvarla  o capirla  fino in fondo. In una recente intervista, la ministra Alberti Casellati ha fornito, con grande onestà intellettuale, le ragioni di tale cambiamento, dovuto alla speranza  di coinvolgere le opposizioni nella riforma ed evitare il referendum. Il tentativo sarebbe stato encomiabile, se avessimo avuto  a che fare con una minoranza aperta al dialogo  e pensosa del bene del Paese. Purtroppo  così non è,  eccettuato forse Renzi, che malgrado i diversi distinguo potrebbe alla fine approvare, ma già Calenda appare assai più recalcitrante , e in ogni caso i voti di entrambi non basterebbero. Pertanto, sacrificare il Presidenzialismo per i detti motivi può non essere stato un buon investimento: infatti, oltre al voto ideologico  e pregiudiziale delle  sinistre, potrebbe mancare all’appello anche parte di quello di destra, magari alimentando  il massiccio  assenteismo che sempre ha caratterizzato gli appuntamenti referendari in Italia. Per mutare la Legge Fondamentale  occorrono  circostanze straordinarie, come furono per de Gaulle le terribili stragi coloniali degli anni Cinquanta, che avevano condotto la Francia sull’orlo della guerra civile.

Inizio il mio saggio , Una nuova Costituzione  per un nuovo modello di sviluppo, Solfanelli, Chieti 2018, rispondendo alla seguente domanda: Quando cambiano le Costituzioni? Quando esse, anziché rappresentare la più alta espressione del sentire  di una comunità,   divengono la gabbia entro la quale questa viene costretta e condannata    alla ingovernabilità e alla disgregazione. Le alternative che a quel punto si pongono sono due: riformarla profondamente ovvero sostituirla integralmente. Scegliere l’una o l’altra dipende dalla gravità del male. Non vi è dubbio che l’Italia di oggi si trovi alle prese con una gravissima crisi economica, sociale  ma soprattutto morale  e psicologica, che ne pone  a serio rischio lo sviluppo e nei tempi lunghi  la stessa appartenenza ai paesi maggiormente progrediti. Tuttavia, la coscienza di tale situazione  non è ancora  avvertita dall’opinione pubblica  in modo  sufficientemente drammatico , in quanto concentrata su altre urgenze, quali il costo della vita,  le tasse, le bollette, i bassi stipendi, le pensioni,  la sicurezza  e simili, preoccupazioni  ritenute prioritarie rispetto alle modifiche costituzionali  e sostanzialmente non collegate ad esse, malgrado che ciò non sia vero. Per questi motivi, l’esigenza di cambiare la Costituzione  non è ancora avvertita  allo stesso livello del 1946,  all’indomani di una catastrofica guerra perduta. Tutto ciò può allontanare dalle urne chi è  più interessato  alla politica quotidiana, mentre il voto  identitario della destra potrebbe diminuire per delusione dell’abbandono del Presidenzialismo.

Cosa fare , dunque? Dovremmo rinunciare a riformare la Costituzione, tra l’altro sprecando l’opportunità di una maggioranza  a ciò favorevole? Certamente no. In realtà, vi sarebbe un’ipotesi diversa, che nessuno ha finora considerato, ma che invece potrebbe rappresentare una carta  vincente.

Il Parlamento potrebbe deliberare, a maggioranza semplice, la convocazione di elezioni straordinarie per la nomina  di una Assemblea Costituente , alla quale parteciperebbero  tutti i partiti che presentassero proprie liste. Questo sarebbe oltretutto il miglior modo  per coinvolgere  l’intera cittadinanza nel tema affidando  al suffragio universale , fuori dal sospetto di ogni faziosità o partigianeria, la definizione dei rapporti di forza per giungere allo scopo. Come insegnano le precedenti esperienze italiane e straniere, nell’Assemblea Costituente, il dialogo  fra le diverse componenti della politica nazionale, sarebbe inevitabile e obbligatorio, in quanto nessuna potrebbe sottrarvisi. Il risultato finale deriverebbe quindi dalle scelte degli elettori, ma in tal caso  l’assenteismo , peraltro  di sicuro inferiore  a quello per il referendum, non giocherebbe alcun ruolo paralizzante: ciascun partito cercherebbe una maggioranza favorevole alle proprie istanze, senza tuttavia  doverle  snaturare a priori , mantenendo inoltre  un dialogo  aperto e costante con l’opinione pubblica  su ogni singolo aspetto. Qualcuno  obietterà  forse che il Capo dello Stato, impugnando la Carta Costituzionale , si potrebbe opporre a tale soluzione , bocciandola o rinviandola sine die. Tale ipotesi, anche se dovesse verificarsi, non toglierebbe però alla votazione  delle Camere il suo valore politico e simbolico, promuovendo un dibattito generale e probabilmente una sana drammatizzazione del problema, propedeutica a successivi sviluppi. Dopo una probabile bocciatura referendaria,  invece, di questa riforma non si parlerebbe mai più.

Questo il mio suggerimento alla on. Meloni: perché non provarci?

 

Carlo Vivaldi-Forti , fiorentino di nascita ma genovese d’origine, è docente ordinario di Sociologia e Psicologia Sociale presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (CH) . Vanta un lungo curriculum di scrittore e giornalista, collaboratore di molte riviste e giornali italiani e stranieri, è autore di saggi scientifici  ed opere letterarie. Con una di queste, La corona di San Venceslao, ed.   La Città armoniosa, Reggio Emilia 1982, entrò nelle semifinali del Premio Viareggio del 1984,  avendo inoltre vinto i concorsi letterari Il Setaccio di Montecatini Terme del 1984, Accademia Città di Roma del 1985 e Il Machiavello del 1986. Con Pravda vitezi – La verità vince, ed. Campanotto , Pasian di Prato (UD) 2008, ho vinto il prestigioso Premio Firenze Il Fiorino d’Oro. In epoca recente si è dedicato allo studio delle riforme costituzionali in Italia, pubblicando il saggio Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo, ed. Solfanelli , Chieti 2018. La sua ultima fatica è stata il libro di ricordi La scoperta della Corsica , un’avventura dello spirito, ed. Tabula Fati (Solfanelli) , Chieti 2020. Nel 2021 ha pubblicato con Gingko edizioni Sogno Veneziano dedicato all’opera che Puccini non fece in tempo a scrivere.

Per risolvere il problema degli immigrati illegali l’Europa dovrebbe copiare l’Australia

Per risolvere il problema degli immigrati illegali l’Europa dovrebbe copiare l’Australia

Isola di Nauru

Il problema dei migranti illegali, che non vanno confusi con coloro che cercano asilo politico, si sta facendo sempre più grave e senza una buona dose di realismo non potrà mai essere risolto positivamente. Senza un argine a questo fenomeno, l’Italia, la Grecia e la Spagna, per prime, verranno spinte verso una forte instabilità sociale, che si trasferirà poi alle altre nazioni più protette, come la Francia, la Germania, il Belgio e la Gran Bretagna. Ricordiamo che Hong Kong, prima del 1997, si trovò nei guai con l’arrivo dei “boat people” provenienti per la gran parte dal Vietnam, impoverito dall’ascesa al potere dei comunisti vietnamiti. Il governo coloniale britannico, respingendo molte feroci critiche,  rispose con la creazione di campi chiusi, nei quali venivano “temporaneamente” rinchiusi i migranti e poi esaminava le loro credenziali. Non permisero mai a nessuno di uscire dai campi e mischiarsi con la popolazione hongkonghese. Questo tamponò gli sbarchi e successivamente, grazie a garanzie date dal Vietnam che non avrebbe perseguitato quei suoi cittadini, cominciarono a rimpatriarli, finché i campi non furono chiusi.

Un esempio simile lo sta seguendo l’Australia, che impedisce l’arrivo di migranti economici provenienti dall’Indonesia e dalla Malesia, chiudendoli in centri di detenzioni al di fuori del proprio territorio nazionale.

La notizia della fine del 2021 è che l’Australia smetterà di trattare i richiedenti asilo nei centri di detenzione offshore in Papua Nuova Guinea, criticati dai gruppi per i diritti umani, ma continuerà a trattenerli sulla minuscola ‘isola di Nauru. Il piano è stato subito criticato dai gruppi per i diritti umani, che hanno detto che ha semplicemente spostato quello che alcuni hanno definito un sistema “crudele” da una nazione insulare a un’altra.

“Chiunque tenti di entrare illegalmente in Australia con un’imbarcazione sarà rimpatriato o mandato a Nauru”, ha ribadito il portavoce del governo australiano, in un comunicato congiunto con la Papua Nuova Guinea. Chi già si trova in Papua Nuova Guinea, in attesa di essere esaminato, potrebbe “trasferirsi volontariamente a Nauru” entro la fine dell’anno. Se sceglieranno di rimanere in Papua Nuova Guinea, avranno “accesso alla cittadinanza, al sostegno a lungo termine, a pacchetti di insediamento e al ricongiungimento familiare”.

Più di 3.000 richiedenti asilo sono stati detenuti in Papua Nuova Guinea, dopo che il governo australiano ha istituito questa politica nel 2013, che ha impedito il reinsediamento di coloro che cercano di entrare nel Paese via mare. Di coloro che sono stati trattati nei centri, circa 1.200 sono stati trasferiti temporaneamente in Australia, alcuni per ragioni mediche; oltre 900 sono stati rimandati nei loro Paesi d’origine e circa 1.000 sono stati inviati in altri Paesi. I gruppi per i diritti umani hanno definito la vecchia politica australiana di trattenere i migranti in mare aperto una violazione delle leggi sui diritti internazionali. Le Nazioni Unite hanno esortato l’Australia a reinsediare i migranti ospitati su entrambe le isole, a seguito di segnalazioni di autolesionismo e tentativi di suicidio da parte dei residenti dei centri. La politica del governo australiano “ha privato migliaia di bambini, donne e uomini di otto anni della loro vita”, ha dichiarato in un comunicato David Burke, direttore legale dello Human Rights Law Center.

Dal 2014, 13 persone sono morte dopo essere state trattenute nei centri di detenzione australiani in Papua Nuova Guinea e Nauru, alcune per suicidio. Dopo che medici e sostenitori dei migranti hanno espresso preoccupazione per una crisi di salute mentale, tra le segnalazioni di bambini autolesionisti a Nauru, nel 2019 il governo ha dichiarato di aver interrotto la detenzione dei minori.

L’isola di Nauru, con una popolazione di 10.000 abitanti e una superficie di 21 chilometri quadrati, detiene il primato di repubblica più piccola al mondo e si caratterizza, sul piano istituzionale e territoriale, per l’assenza di una capitale. Yaren, la città che ospita la sede del governo e il centro amministrativo del paese, è tuttavia indicata come capitale politica della Repubblica di Nauru. Ottenuta l’indipendenza nel 1968 dall’Australia – amministratrice fiduciaria delle Nazioni Unite – Nauru ha assunto una forma di governo presidenziale e una struttura parlamentare unicamerale, costituita da 18 membri eletti ogni tre anni.

Come si potrà notare i numeri dei migranti che vorrebbero sbarcare in Australia è assai contenuto, ma il governo australiano sa bene che, cedendo anche una volta e anche di poco, attirerebbero un grande influsso che potrebbero non riuscire più a gestire. Per questo motivo non si fanno intimidire dalle parole dei vari rappresentanti di sedicenti associazioni umanitarie (come se i residenti non siano degni di rappresentanza umanitaria) invariabilmente legate a centri di propaganda globalista, che vorrebbero vederli alzare bandiera bianca e poi lasciarsi invadere.

Dunque, la comunità europea dovrebbe apprezzare il tentativo fatto da Giorgia Meloni di arginare questo vasto fenomeno e rendersi conto che i propri confini vanno difesi ad ogni costo, senza accettare provocazioni da parte dei propagandisti dello sfascio sociale.

 

E se Giorgia Meloni fosse nel giusto con la sua citazione di San Francesco?

E se Giorgia Meloni fosse nel giusto con la sua citazione di San Francesco?

Carlo Petrini

«Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile»

Si sono sprecati sorrisetti ironici e battutine per questa citazione di San Francesco fatta da Giorgia Meloni. A scatenare il putiferio è stata la parola di un fraticello che avrebbe affermato che questa citazione non esiste nel corpus delle opere francescane, quasi che la gran parte di ciò che gli viene attribuito non fosse, in realtà, una raccolta di leggende popolari.

Ebbene, se si controlla in internet, questa frase la si trova un po’ ovunque e proprio con l’attribuzione a San Francesco d’Assisi. Dunque potrebbe benissimo essere aggiunta al suo corpus, in quanto sorta dal popolo spontaneamente. Oppure, d’ora in avanti, dovremo verificare prima con i custodi del francescanesimo risiedenti ad Assisi?

I “San Francesco” sono parecchi nella Chiesa Cattolica: San Francesco Saverio, San Francesco di Sales (patrono di scrittori e giornalisti) e via dicendo.

A molti personaggi storici vengono attribuite frasi delle quali non esiste traccia nei documenti, eppure paiono verosimili; basti pensare a Napoleone Bonaparte che, a Sant’Elena, smentì la gran parte di quelle che gli presentava Las Cases, dicendogli di non averle mai dette, ma che gli parevano in linea con ciò che pensava e diceva.

Questa, comunque,  mi pare una polemica oziosa, usata solo perché c’è di mezzo Giorgia Meloni, l’avesse detta un altro sarebbe andato tutto liscio.

Il Santo Padre Francesco, alla fine di questa Enciclica, prima di proporre le due preghiere conclusive (bellissima ed epocale la Preghiera per la nostra terra al n.264), sostiene di aver compiuto una «riflessione insieme gioiosa e drammatica». Mi sento di dire, però, che è la gioia a prevalere – e lo affermo da lettore non credente – seppur i presupposti siano profondamente dolorosi. È la gioia di poter credere in un cambiamento rivoluzionario, e in una nuova umanità. È la gioia che profondono le parole di Francesco, piene di speranza anche quando descrivono i peggiori disastri in cui versiamo.

E, infine, termina così:

Tornando a san Francesco, c’è una frase a lui attribuita che mi sembra una chiusa perfetta per ogni ragionamento attorno a questo scritto del Santo Padre: «Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile».

 

 

Dopo Teodolinda l’Italia avrà una reggente donna: Giorgia Meloni, che le somiglia.

Dopo Teodolinda l’Italia avrà una reggente donna: Giorgia Meloni, che le somiglia.

 

Le elezioni del 25 aprile 2022 hanno provocato vari scossoni, portando in Parlamento gente nuova. Il sistema elettorale noto come “Rosatellum” ha mostrato tutte le sue pecche, impedendo agli elettori di decidere da chi farsi rappresentare e precludendo al popolo di eleggere un proprio candidato. Questo è un meccanismo che non ha nulla di democratico. Eppure, in tutti questi anni, né i partiti di sinistra, né quelli di destra lo hanno cambiato. Infatti, per loro è un grosso vantaggio potersi scegliere i candidati, invece che farli scegliere al popolo. Questo alimenta sempre nuove disaffezioni, ma alle segreterie dei partiti va benissimo. Lo dimostra anche il fatto che non si è votato di lunedì mattina e, insulto scoperto da noi tutti ai seggi, per motivi di controllo la scheda viene gettata nella scatola da un responsabile di seggio, invece che dall’elettore. Che ci dovremo aspettare alle prossime elezioni? Un Kato (personaggio della Pantera Rosa di Peter Sellers) che ti aspetta dietro alla porta del seggio e che ti aggredisce, saltandoti sulla schiena e assestandoti due colpi di Karatè? Le emergenze per il nuovo governo sono tante e incombenti. La prima è il costo dell’energia, seconda è la scellerata guerra in Ucraina. Sono due grosse pietre che verranno gettate sul tavolo del prossimo Primo Ministro, che certamente sarà Giorgia Meloni.

Questa, in fondo, è la maggiore novità uscita delle ultime elezioni. L’ultima volta che una donna era stata a capo della nostra Italia era successo quattordici secoli fa, con Teodolinda, che a giudicare dai pochi ritratti esistenti, rassomiglia molto a Giorgio Meloni.

Teodolinda (Ratisbona, circa 570 – Monza, 22 gennaio 627) fu regina consorte dei Longobardi e reggente dal 616 al 624. Il vero capo dello Stato era il figlio Adaloardo (così come la Meloni regge il potere per conto di Mattarella). Perse il marito Autari, forse avvelenato, e si sposò con Agilulfo. Secondo Paolo Diacono, Agilulfo era molto prestante e un abile stratega; di ritorno da una spedizione bellica diede un bacio alla sua regina che stava banchettando e questa esclamò: “Ma perché baciarmi solo sulla bocca?”. Da ciò il sagace Agilulfo capì che da lui si voleva altro.

Ebbero un figlio maschio e lei governò una parte d’Italia per conto del figlio dalla capitale estiva dei Longobardi, Monza. Il figlio arrivò al potere ma fu deposto da un colpo di Stato e Teodolinda si ritirò a vita privata. Era molto popolare e veniva considerata una santa. Fu sepolta nel Duomo di Monza, dove ancora si trova il suo tesoro, fra cui la celebre Corona Ferrea. Si racconta che una sua maledizione abbia impedito, attraverso i secoli, di spostare quei tesori o di rubarli.

Angelo Paratico

 

 

Riuscirà l’Europa Unita a sopravvivere fino 2024?

Riuscirà l’Europa Unita a sopravvivere fino 2024?

Nel 1970 in Russia uscì un libro che fu poi tradotto in tutto il mondo. L’autore era Andrej Alekseevich Amalrik (1938-1980), un dissidente sovietico, e il titolo di quel piccolo testo era “Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?” Amalrik aveva previsto il crollo dell’Unione Sovietica già dal 1980, ma poi la tentazione di quel orwelliano di “1984” si rivelò troppo forte per resistere.

Secondo Amalrik, e cito le sue stesse parole: “Qualsiasi Stato costretto a dedicare così tante energie al controllo fisico e psicologico di milioni di suoi sudditi non potrebbe sopravvivere all’infinito”. Egli paragonava tale Stato a un soldato che punta un fucile contro un nemico per molto tempo: alla fine le sue braccia, sotto al peso del fucile, si stancheranno e il nemico potrà fuggire. Poi aveva aggiunto che: “L’isolamento non solo ha separato il regime dalla società, e tutti i settori della società gli uni dagli altri, ma ha anche messo il Paese in estremo isolamento dal resto del mondo. Questo isolamento ha creato per tutti – dall’élite burocratica ai livelli sociali più bassi – un’immagine quasi surreale del mondo e del proprio posto in esso. Tuttavia, quanto più a lungo questo stato di cose contribuisce a perpetuare lo status quo, tanto più rapido e decisivo sarà il suo crollo, quando un confronto con la realtà diventerà inevitabile”.

Le previsioni di Amalrik sulle cause della definitiva disgregazione dell’Impero sovietico furono però imprecise e insufficienti. Secondo il suo libro ci sarebbe stata una guerra disastrosa contro la Cina – che in effetti fu sfiorata ma fortunatamente evitata – e poi gli antagonismi etnici all’interno della Unione delle Repubbliche Socialiste avrebbero fatto il resto. Non tenne in sufficientemente conto l’economia e le spese insostenibili durante la corsa agli armamenti contro agli Stati Uniti d’America, un fattore che alla fine si rivelò il vero killer del gigante sovietico.

All’inizio, l’opera di Amalrik fu scambiata per un racconto distopico, molto simile a 1984 di Orwell, e non fu interpretata come un serio lavoro di previsione politica da parte di un intellettuale lungimirante e che conosceva bene il sistema. Divenne popolare tra i lettori comuni come una sorta di bizzarria, ma fu respinto dagli accademici e persino dagli esperti americani che lavoravano per la CIA. Oggi sappiamo che alcune delle sue previsioni si sono rivelate corrette, mentre altre furono errate, a cominciare dalla data del crollo, che avvenne sette anni dopo le sue previsioni, nel 1991.

Nel 1970 Amalrik fu arrestato per “diffamazione dello Stato sovietico” e condannato a tre anni di lavori forzati a Kolyma. Alla fine della pena, gli furono inflitti altri tre anni, ma a causa delle sue cattive condizioni di salute e delle proteste che arrivavano dall’Occidente, la pena fu commutata dopo un anno, ed espulso dall’Unione Sovietica. Morì in un banale incidente stradale in Spagna nel 1980.

Venendo alla Comunità Europea, vogliamo scartare la terribile ipotesi di una guerra, anche se si sentono i rombi di cannone sul confine ucraino, ma possiamo notare che le divisioni etniche ed economiche ricalcano quelle dell’Unione Sovietica e verranno acuite dai problemi energetici che ci attendono in autunno e che provocheranno la caduta del nostro benessere economico. Vedremo milioni di persone protestare nelle strade e di pari passo si verificherà un aumento della repressione per contenerle. La distanza fra le élite dirigenziali e il popolo verrà esacerbato dalla crisi, con il fattore Gini che diventerà sempre più preoccupante. Chi siederà al governo non sarà in grado di porvi rimedio, perché con l’instabilità continuerà, inarrestabile, la svalutazione dell’Euro, una valuta che non si sarebbe mai dovuta creare, e che impoverirà tutto il nostro vecchio continente.

La prima nazione che vorrà rompere l’alleanza sarà certamente la Germania. Si veda l’articolo dell’economista francese Michael Santi,  da noi pubblicato (Michael Santi: Finis Germaniae! – Giornale Cangrande). Conoscendo la mentalità teutonica questi staranno già disegnando dei possibili scenari, che si troveranno presto a dover affrontare. La seconda nazione a voler uscire dalla comunità sarà certamente la Francia, seguita da tutte le altre.

Per quanto riguarda l’Italia, con le elezioni del 25 settembre vedremo, secondo i sondaggi, una maggioranza guidata dalla destra italiana, che dovrà esprimere un primo ministro che sia gradito al Presidente Mattarella e alla BCE.

Ecco, ci sentiamo di raccomandare alla nuova forza di governo di non strappare con l’Europa o lanciare crociate per uscire dall’Euro, perché il tempismo sarà sbagliato e comunque l’Italia da sola non potrà fare nulla. Il nuovo governo dovrà seguire questo il solco tracciato dal governo guidato da Mario Draghi, ma allo stesso tempo dovrà tenere gli occhi ben aperti e “sperare nel meglio, preparandosi al peggio” come dicono gli americani. Dovranno, cioè, costruire ponti con gli altri capi di governo, tralasciando le raccomandazioni degli alti burocrati europei, ma marcando stretta la Germania e la Francia, che effettivamente controllano la BCE.

Presto l’Europa diverrà come un magnifico galeone in un mare in tempesta, con il timone spezzato.