I libri che, secondo Elon Musk, andrebbero letti assolutamente

I libri che, secondo Elon Musk, andrebbero letti assolutamente

Quando non lancia razzi, non trivella sotto alle strade di Los Angeles e non spedisce navicelle oltre l’ atmosfera, Elon Musk passa molto tempo a leggere.

Ecco i libri di saggistica raccomandati da Musk che, secondo lui, tutti dovrebbero leggere.  Elon Musk, il miliardario CEO di SpaceX, Tesla e altre aziende tecnologiche rivoluzionarie, in qualche modo trova sempre il tempo di leggere molti libri quando non sta lanciando razzi nello spazio. Dalle opere classiche di fantascienza agli studi complessi sull’intelligenza artificiale. Musk attribuisce ai libri il merito di averlo aiutato a raggiungere il suo successo. Infatti, quando gli fu chiesto come ha imparato a costruire razzi, ha risposto: “Ho letto libri”. E lo dimostra, perché i libri consigliati da Musk sono più che semplici titoli: ma sono percorsi che hanno dato forma alle sue imprese rivoluzionarie.

L’ampia gamma di libri consigliati da Elon Musk rivela non solo i suoi molteplici interessi, ma anche la sua profonda cultura e conoscenza. Che si tratti di contemplare il destino dell’umanità o di comprendere le complessità dell’intelligenza artificiale, l’elenco di letture di Musk è una finestra sul suo universo intellettuale. Tuttavia, il lusso di approfondire i libri quotidianamente non è qualcosa che tutti possono permettersi. Secondo uno studio del Bureau of Labour Statistics, la maggior parte degli americani trova il tempo di leggere solo 17 minuti al giorno. A questo ritmo, gli americani potrebbero impiegare più di un mese per leggere uno dei libri di saggistica consigliati da Musk.

1. Human Compatible di Stuart Russell Human spiega perché la creazione di un’intelligenza artificiale potrebbe essere l’atto finale dell’umanità, un argomento su cui Musk è stato molto esplicito. Il libro richiama l’attenzione sulla potenziale catastrofe verso la quale si sta dirigendo la società e discute di quel che bisogna fare per evitarla.

2. Zero to One di Peter Thiel, Musk ha twittato: “Peter Thiel ha costruito diverse aziende rivoluzionarie e (questo libro) mostra come”.  Zero to One  studia come le aziende possono prevedere meglio il futuro e agire per garantire il successo delle loro start-up. L’autore arricchisce i punti chiave del libro con le sue esperienze personali.

3. Merchants of Doubt di Naomi Oreskes & Erik M. Conway.  Questo libro esamina alcuni dei principali dibattiti scientifici del mondo sull’ambiente, il fumo e le armi nucleari.  Descrive come un piccolo gruppo di scienziati molto attivi abbia pesantemente travisato questi temi attraverso i media tradizionali, spesso per favorire gli interessi delle aziende e dell’industria.

4. Life 3.0 di Max Tegmark. In quest’opera, il professore del MIT Max Tegmark scrive che per mantenere l’intelligenza artificiale utile per la vita umana e garantire che il progresso tecnologico resti allineato agli obiettivi dell’umanità per il futuro, è necessario essere molto all’erta. Questo è uno dei pochi libri consigliati da Elon Musk dove si tratta della possibilità che l’AI venga utilizzata come forza per il bene del mondo, anziché per il suo male.

5. The Big Picture di Sean M. Carroll. The Big Picture getta uno sguardo ambizioso sul mondo come lo conosciamo e su come possiamo usare il pensiero scientifico per dare un senso alla maggior parte di esso. Un esame approfondito delle origini della vita, della coscienza e dell’universo stesso, questo libro offre ai lettori un modo deduttivo di considerare le domande più impegnative che la filosofia, la fisica e la biologia hanno da offrire.

6. Mentire di Sam Harris. Questo tratta di tutte le bugie, dalle piccole bugie che le persone dicono quotidianamente e alle enormi bugie che a volte vengono dette sulla scena mondiale. In definitiva, è sempre meglio dire la verità.

7. Superintelligenza di Nick Bostrom. Musk ha ripetutamente messo in guardia contro ai pericoli di un’intelligenza artificiale non controllata. “Dobbiamo essere super attenti con l’AI”, ha twittato nel 2014, affermando che è “potenzialmente più pericolosa delle bombe atomiche”. Per scoprire perché questi rischi sono così spaventosi, Musk dice che vale la pena leggere Superintelligenza. Il libro nella lista di lettura di Elon Musk fa un’audace indagine su ciò che accadrebbe se l’intelligenza computazionale superasse l’intelligenza umana.

8. La ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. Questo classico è un punto fermo nella lista di Elon Musk, La ricchezza delle Nazioni è un’opera profondamente influente nel regno dell’economia ed esamina proprio come le nazioni diventano ricche, o povere. Adam Smith – di cui Musk è un fan – sostiene che permettendo agli individui di perseguire liberamente il proprio interesse personale, in un mercato libero, senza regolamentazioni governative, le nazioni prospereranno.

9. Radical Candor di Kim Scott. Uno dei fattori fondamentali di Elon Musk per una leadership di successo è il suo incrollabile apprezzamento per il feedback, sia esso positivo o negativo. È un fan del ciclo di feedback, e in un’intervista ha dichiarato che “è molto importante avere un ciclo di feedback, in cui si pensa costantemente a ciò che si è fatto e a come si potrebbe farlo meglio”. Il libro di Kim Scott è una preziosa tabella di marcia per i leader che cercano di costruire relazioni forti con i loro dipendenti. Questo approccio manageriale perspicace svela i segreti per creare un ambiente di lavoro in cui fioriscono grandi idee, gli individui raggiungono il loro pieno potenziale e i dipendenti sono orgogliosi di seguire la guida del proprio capo.

10. Storia delle banche centrali di Stephen Mitford Goodson. Le banche centrali possono provocare guerre e controllano le nostre vite in maniera nascosta, sono entità private sulle quali l’uomo della strada sa molto poco.

Trump vincerà le prossime elezioni, come insegna Berlusconi

Trump vincerà le prossime elezioni, come insegna Berlusconi

 

 

Il Procuratore Generale di New York Letitia James, considerava Trump colpevole prima di guardare le carte, dunque la condanna a pagare 355 milioni di multa non ha sorpreso nessuno.

Ecco la voce della giustizia americana: parziale, politicizzata, odiosamente banale.  Nonostante le parole forti e le multe massicce, la candidatura di Trump sta diventando sempre più forte.

Sarà anche grazie a Fani Willis, il Procuratore Generale della Contea di Fulton. Ad agosto è stata considerata un esempio di giustizia, in quanto ha incriminato Donald Trump con l’accusa di ‘racket elettorale’. Tuttavia, Willis è ora accusata di vivere agiatamente a spese dei contribuenti con il suo amante, Nathan Wade, che si dà il caso sia uno dei procuratori speciali da lei assunti per dare la caccia a Trump e ai suoi associati.

Le regole non si applicano a tutti, e questo sì, lo sanno tutti. Le regole non si applicavano alla famiglia Trump fino a quando Donald Trump non è diventato Presidente degli Stati Uniti e la classe dirigente americana ha avuto un esaurimento nervoso. Ma questi magistrati americani dovrebbero studiare la vicenda di Silvio Berlusconi, e capirebbero.

Dopo una lunga indagine e un procedimento giudiziario diretto da James, il giudice Arthur F. Engoron ha emesso una sentenza contro i Trump e l’Organizzazione Trump. Ha imposto multe di 355 milioni di dollari, più gli interessi, all’ex Prima Famiglia per aver gonfiato in modo fraudolento il valore dei loro beni al fine di ottenere condizioni di prestito più favorevoli.

L’entità della somma richiesta può essere scioccante, ma non lo è la sentenza. A settembre, prima dell’inizio del processo, il giudice Engoron aveva già stabilito che le dichiarazioni dell’Organizzazione Trump ‘contengono chiaramente valutazioni fraudolente’.

Si tratta di una causa civile, che richiede una ‘preponderanza di prove’ perché l’accusato sia ritenuto responsabile, piuttosto che di una causa penale, che richiede una prova di colpevolezza ‘oltre ogni ragionevole dubbio’.

Trump farà appello. Il caso si trascinerà, probabilmente, fino a dopo le elezioni. I media passeranno all’accusa criminale di ‘soldi sporchi’. Ma Trump continuerà a dire che le ‘repubbliche delle banane’ si comportano in questo modo con i candidati presidenziali. E non ha tutti i torti.

Continuerà a sottolineare che i Democratici hanno armato il sistema giudiziario contro di lui; che la James è – come altri che lo perseguono in altri Stati – una Democratica palesemente prevenuta, eletta al suo ruolo con l’impegno di perseguitare Donald Trump nei tribunali. E ha ragione.

Ogni altra grande azienda immobiliare di New York troverà ora i suoi registri aziendali esaminati con la lente d’ingrandimento alla ricerca di irregolarità? Ovviamente, no.

Ogni persona ragionevole può vedere che questi magistrati sono animati da una feroce ostilità nei confronti dei Trump. Molti media stanno già scrivendo che il verdetto è una rivendicazione per James, dopo essere stata derisa e maltrattata da Trump. E come figura politica, sembra apprezzare l’adulazione pubblica, ma potrebbe non sentirsi così intelligente tra nove mesi. Perché se Trump riconquisterà la Casa Bianca, sarà in gran parte grazie a lei, a Letitia James e agli altri antagonisti togati.

Gli americani sono sempre più stanchi della persecuzione legale di Trump, su così tanti fronti. Trovano l’ovvia corruzione del processo giudiziario per fini politici molto più ipocrita e odiosa dei crimini di Trump.

I fan di Trump ovviamente faranno il tifo per il loro eroe, mentre lui sbraita follemente su un’altra ‘caccia alle streghe’ e insiste di non aver fatto nulla di male. Ma voteranno in un solo modo a novembre. Saranno gli indipendenti, o gli elettori riluttanti di Trump, a decidere chi vincerà la Casa Bianca a novembre. E gli indipendenti non devono necessariamente amare Trump per capire che viene trattato ingiustamente. Trump lo sa. Può vedere che la sua campagna di rielezione è sbocciata solo da quando le accuse penali e i verdetti legali hanno iniziato a colpirlo. Attualmente ha un vantaggio significativo su Biden nei sondaggi per le elezioni, ecco perché sta mettendo i suoi processi al centro della sua campagna. Naturalmente, nessuno può dire con certezza come potrebbe reagire l’elettorato americano in generale, se Trump venisse condannato per un crimine in tribunale e magari gli venisse inflitta una pena detentiva. Ma ci saranno molti altri colpi di scena prima delle elezioni.

Intanto, Silvio Berlusconi, guarda giù dal Paradiso e sorride.

Un turista italiano a Macao

Un turista italiano a Macao

 

La città di Macao si trova alla foce del Fiume delle Perle, a circa un’ora di battello da Hong Kong, nella Cina meridionale. Nel 1999 era ritornata senza grossi traumi alla Cina Popolare, mantenendo per cinquant’anni la propria autonomia. Di Hong Kong si parla spesso in televisione e sui giornali, essendo un grosso centro finanziario, industriale e turistico ma poco si sente nominare Macao che pure, per secoli, fu la porta d’entrata alla Cina per noi europei. Oggi Macao è una città famosa per le ragioni sbagliate: gioco d’azzardo e prostituzione, eppure, accanto a questi vizi, si scorgono ancora le vestigia d’un glorioso passato.

I primi navigatori portoghesi presero possesso di quella piccola penisola a partire dal 1535 ma ottennero il permesso di residenza dalle autorità cinesi di Canton solo nel 1557. Fra portoghesi e spagnoli – i due stati sono stati spesso uniti sotto a un’unica corona – numerosi furono gli italiani. Non a caso il primo europeo che pose piede in Cina dopo l’occupazione mongola fu, nel 1514, l’ammiraglio Raffaele Perestrello al servizio dei portoghesi. La sua famiglia originava da Piacenza e sua cugina sposò Cristoforo Colombo. Un altro famoso italiano fu Giovanni da Empoli, forse il primo banchiere viaggiante della storia, impiegato dalla Gualtierotti & Frescobaldi e al seguito di Alfonso di Albuquerque. Fu quasi certamente sepolto vicino a dove oggi sorge Macao, nel 1518, crudelmente lontano dalla sua Firenze.
Ancor oggi il simbolo di Macao è la facciata della cattedrale di San Paolo, costruita nei prima anni del seicento e che fu progettata dal gesuita Carlo Spinola, poi martirizzato in Giappone.

Un carattere straordinario – il mio preferito – fra coloro che passarono per Macao fu il nobiluomo partenopeo Francesco Gemelli Careri, considerato il primo vero turista della storia e secondo alcuni la fonte d’ispirazione per Jules Verne per il suo libro ‘Il Giro del Mondo in 80 giorni.’ Entrato in possesso d’una notevole somma di denaro, Gemelli Careri, calabrese di nascita, s’imbarcò con l’intenzione di compiere il giro del mondo per puro diporto, pagando di volta in volta il biglietto. Passò per Macao nel 1695 dove i gesuiti lo scambiarono per una spia papale. Per ingraziarselo gli spalancarono tutte le porte, portandolo anche a Pechino, fissandogli un’udienza con l’imperatore Kangxi, poi lo portarono a visitare la Grande Muraglia prima di reimbarcarsi e proseguire per il suo viaggio. Al suo rientro a Napoli, Gemelli Careri pubblicò le proprie memorie che furono tradotte in inglese e francese, qualcuno dubitò della veridicità delle sue parole eppure basta leggere anche solo una pagina e notare la finezza della sua narrazione per capire che egli dice solo la verità. Gli riuscì sempre di cavarsela grazie alle sue grandi doti di raconteur: in un’epoca in cui non esistevano giornali e televisione, le sue capacità evocative valevano più dell’oro. Mi piace immaginarlo come una sorta di forbitissimo Totò, al quale peraltro somigliava.

I mercanti di Macao a Canton acquistavano seta, tè e porcellana, pagandoli in argento e poi li trasportavano in Europa. La strada era lunga e pericolosa, tifoni e scogli erano in agguato e dovevano pure fare i conti con i pirati olandesi e inglesi. I maggiori profitti li fecero però esportando quelle stesse merci in Giappone, dove avevano stabilito basi a Yokohama e a Nagasaki. La loro opera d’intermediazione fra Cina e Giappone in questo caso era vitale, dato che gli scambi diretti fra i due paesi erano stati proibiti dall’imperatore cinese per scoraggiare la pirateria. I giapponesi, che i cinesi chiamavano sprezzantemente ‘i ladri nani’, erano avidissimi di beni cinesi ed erano disposti a pagare prezzi altissimi con lingotti d’argento. Purtroppo per Macao, questa grande abbondanza finì nel 1640 par vari motivi, una di queste era fu che i giapponesi avevano saputo dell’occupazione delle Filippine e temevano di dover subire la stessa sorte, inoltre olandesi e inglesi soffiavano sul fuoco, per volgere le cose a proprio favore.
Nel 1622 gli olandesi si presentarono davanti a Macao con quattordici vascelli e gli inglesi si associarono fornendone due ma furono respinti con gravi perdite da portoghesi e cinesi. I gesuiti italiani per respingere quegli eretici impugnarono le armi, il milanese Giacomo Rho con una precisa cannonata centrò la Santa Barbara olandese, costringendoli alla ritirata. I rapporti fra britannici e olandesi si fecero burrascosi dopo il massacro di Ambon perpetrato dagli olandesi contro inglesi e giapponesi nel 1623, nelle isole Molucche in Indonesia, fu così che la prima nave britannica, la London, nel 1635 fu in grado d’attraccare tranquillamente a Macao.
La convivenza fra portoghesi e britannici fu sempre difficile e non solo per motivi religiosi. I britannici mantenevano una linea molto aggressiva nei confronti della Cina mentre i portoghesi, non disponendo più di una forza navale adeguata, erano sempre inclini al compromesso. Dapprima i britannici pensarono di impadronirsi di Macao ma di fronte all’intransigenza cinese che privilegiava i portoghesi, dovettero desistere. A partire dal 1700, con la caduta del lucrativo traffico con il Giappone i macanesi furono costretti ad accettare i residenti Britannici che, forti del loro commercio d’oppio (da loro coltivato in India) disponevano di grosse risorse finanziarie. L’opposizione cinese alla vendita del narcotico, venduto legalmente in Europa ma che in Cina provocava grossi disastri, portò uno scontro armato. Le tecniche belliche cinesi erano inadeguate e i britannici ebbero la meglio, ottenendo la colonia di Hong Kong, nel 1841, seguita poi dall’apertura dei porti di Amoy, Shanghai e Weihaiwei. Da lì in poi iniziò una corsa folle a strappare concessioni alla Cina, vista come un pachiderma morente. Anche l’Italia s’associò a questa corsa ma con scarsi risultati. La Cina ci dichiarò guerra e fummo costretti a inviare 3.600 soldati e varie navi da guerra nel luglio del 1900 con altre 8 nazioni per liberare le legazioni diplomatiche.

Angelo Paratico

Una parte dell’Oro di Dongo si trova nei forzieri della Banca d’Italia, perché non viene inventariato?

Una parte dell’Oro di Dongo si trova nei forzieri della Banca d’Italia, perché non viene inventariato?

Giuseppe Prezzolini scrisse che Adolf Hitler terminò la propria esistenza in un crepuscolo wagneriano, mentre Benito Mussolini morì accoltellato in una rissa all’osteria. Non conosciamo i suoi intenti estremi, né i motivi del suo illogico vagare sulla riva occidentale del lago di Como. Chi sostiene che stava tentando la fuga in Svizzera dimostra di non conoscere bene la geografia lariana e neppure i fatti. La città di Como tocca la frontiera svizzera e non c’era nessun bisogno per lui di puntare verso l’alto lago per arrivarci. E, del resto, se la sua salvezza fosse stata il suo unico fine, gli sarebbe bastato radunare qualche migliaio dei suoi fedelissimi a Milano e poi attendere tranquillamente l’arrivo degli Alleati.  Perché non lo fece? Non lo sappiamo.

L’Oro di Dongo

Su questi argomenti si pensa già di sapere tutto, in realtà sappiamo troppo e, proprio a causa di ciò, la
confusione è totale. Di tanto in tanto si accenna anche al “oro di Dongo” ma pochi sanno che una parte di questo tesoro si trova in un forziere della Banca d’Italia e che solo in parte è stato aperto e inventariato.
Se ci fossero dei preziosi tolti agli ebrei, questi potrebbero essere restituiti ai legittimi proprietari.
Possibile che nessuno alla Banca d’Italia se ne possa prendere cura, dopo 80 anni?

La pista inglese

Sandro Pertini venne intervistato negli anni Settanta da Gianni Bisiach per una serie televisiva intitolata
“Le grandi battaglie”. Quel documentario è stato mandato in onda varie volte su Rai1. Il futuro Presidente della Repubblica dichiarava: “…invece nella borsa che Mussolini teneva con sé con tanta cura si dice che ci fossero lettere di Churchill, che Churchill aveva scritto a Mussolini prima della guerra e durante la guerra, questa è la cosa grave. Ora io credo che questo corrisponda a verità, perché poi furono inviati dal governo inglese emissari qui in Italia, penso direttamente da Churchill, per venirne in possesso di questa borsa. Anche io fui avvicinato da un uomo del comando inglese che mi chiese se per caso avevo notizia di questa borsa e di quello che conteneva. Io risposi di no perché non venni mai in possesso di questa borsa”.
I libri relativi alle ultime ore di Mussolini sono moltissimi ed è oramai difficile districarsi in quella selva
piena di mezze verità e di menzogne. Ma, forse, l’unico strumento che può essere usato resta il rasoio di
Occam. Pare che anche Renzo De Felice avesse una certa idea su come fossero davvero andate le
cose. Basti citare un’intervista che il grande storico del fascismo concesse al Corriere della Sera, il 19
novembre 1995, per capire come la pensava. Quel pezzo, firmato da Pierluigi Panza, era intitolato: “I
servizi inglesi dietro alla morte del duce.” De Felice dichiarò che: “La documentazione in mio possesso
porta tutta a una conclusione: Benito Mussolini fu ucciso da un gruppo di partigiani milanesi su
sollecitazione dei servizi segreti inglesi. C’era un interesse a far sì che il capo del fascismo non arrivasse
a un processo. Ci fu il suggerimento inglese: ‘Fatelo fuori!’. In gioco c’era l’interesse nazionale, legato
alle esplosive compromissioni presenti nel carteggio che il premier britannico Churchill avrebbe
scambiato con Mussolini prima e durante la guerra”.

I servizi segreti inglesi

Il SOE (Special Operations Executive) fu una sezione speciale dei servizi di intelligence inglese, con
decine di agenti attivi nell’Italia settentrionale, che operarono protetti dalle formazioni partigiane. Fu un servizio segreto smantellato alla fine della Seconda guerra mondiale, ma talmente segreto che, persino i comuni cittadini britannici ne ignorarono l’esistenza sino ai primi anni Sessanta.
Lo scrittore Mattew Cobb, che ha dedicato un libro agli agenti del SOE, dopo aver frugato fra ciò che
resta dei loro archivi, a Kew Garden, manifestava la propria frustrazione in un articolo uscito il 13 marzo 2009 sul Times, notando che: “Ripuliture, convenienti sparizioni e strani incendi hanno lasciato poco per l’indagine storica e un accordo con i guardiani di quelle memorie è ancora necessario per poterle consultare”.

Verso i primi anni Sessanta cominciarono ad apparire delle biografie di ex agenti del SOE, celebre quella di Manfred Czernin, direttamente coinvolto nella guerra partigiana in Italia e, solo allora, il primo ministro britannico Harold MacMillan, autorizzò la redazione d’una storia ufficiale di quel corpo, attingendo a ciò che ne restava agli atti. La scrisse un professore di storia di Manchester, tale M.R.D Foot e uscì nel 1966 con il titolo “SOE in France” al quale, nel 1984, fece seguito: “SOE. The Special Operations Executive, 1940-1946”.

 

Prove della spregiudicatezza di Winston Churchill

Winston Churchill confidò a Stalin che la storia l’avrebbe trattato bene, perché intendeva scriverla.
Mantenne la sua promessa, ma il piedistallo di granito che si pose sotto ai piedi viene progressivamente
sgretolato dalla storiografia moderna. Più che le sue decantate virtù, i suoi più acuti biografi tendono a
metterne in risalto gli errori e l’infantilismo; le sue continue interferenze in campo militare, una materia
che non conosceva e che provocò disastri e carneficine; la sua feroce indifferenza verso le sofferenze
umane e la propensione alla menzogna. Parlando di disonestà intellettuale, basti citare il fatto che nel
1953 ebbe il premio Nobel per la Letteratura grazie ai sei volumi della sua “Storia della Seconda Guerra
Mondiale” che furono un grande successo editoriale e che sono ancora in stampa. Ma quei libri non li
scrisse lui, come il professor David Raynolds ha brillantemente dimostrato nel suo: In Command of
History. Churchill fighting and writing the Second World War, Londra, 2004. Quei sei volumi vennero redatti da un gruppo di storici che Churchill pagò con un tozzo di pane, ma che ebbero accesso ai
documenti segreti che egli aveva sottratto, senza permesso, all’archivio di Stato. Churchill si limitò a
supervisionare il loro lavoro.
Gli esempi della sua disinvoltura a livello diplomatico non mancano. Ma ci limiteremo a citarne due,
perché hanno un valore paradigmatico. Il 18 giugno 1940 Churchill pronunciava in Parlamento uno dei
suoi più famosi discorsi, quello in cui manifestava la risoluzione della Nazione a combattere sino alla fine. Eppure, poche ore prima di pronunciare quelle alate parole, Edward Halifax, ministro nel suo governo e il suo vice, Richard A. Butler, discutevano i termini d’una pace separata con Hitler. Ne parlarono con un ministro svedese che si trovava a Londra, Bjorn Prytz e che, da quanto poi raccontarono, avrebbero incontrato casualmente mentre passeggiava in St. James Park. Successivamente tentarono di bloccare la pubblicazione delle note prese dallo svedese e, ulteriore bizzarria, le minute riguardanti il punto 5 dell’agenda d’una riunione del concilio di guerra, tenuto proprio nel pomeriggio di quel 18 giugno 1940, sono ancora coperte da segreto di Stato. Alcuni storici pensano che quel punto numero 5 riguardi proprio le condizioni di pace da offrire alla Germania.
Il secondo esempio riguarda una missione segreta compiuta a Londra, nel mese di ottobre del 1940, da
Louis Rougier, un filosofo che viene considerato uno dei padri del neoliberalismo. Vi era stato inviato dal maresciallo Petain e con il primo ministro britannico stilò una sorta di accordo che prevedeva, fra l’altro, che il governo di Vichy, al momento opportuno, avrebbe combattuto contro alle forze dell’Asse. Il Foreign Office poi negò tutto, sostenendo che mai, alle spalle di Charles de Gaulle, si erano cercati accordi con il governo collaborazionista di Vichy. Fu allora che il diligente professor Rougier, che si era tenuto una copia fotostatica di tutti i telegrammi, delle lettere e delle minute, fece stampare in Canada (in Francia nessuno lo volle pubblicare) un libro in cui stavano in appendice quei documenti, fra cui il famoso accordo, con le correzioni autografe apportate da Churchill. Il suo libro è ancora rintracciabile nelle librerie antiquarie e ne abbiamo una copia, qui davanti a noi. Louis Rougier “Les Accords Pétain
Churchill. Historie d’une mission segrète” Beauchemin, 1945. Lo stesso Petain, durante il suo processo,
ammise che tale accordo era esistito. Messo di fronte all’evidenza, il Foreign Office ignorò tutta la
faccenda e successivamente, nonostante che le credenziali di Rougier fossero impeccabili, riuscirono a
discreditarlo e a fargli perdere il suo posto di docente universitario.

La necessità di cercare negli archivi britannici

Perché, dunque, a distanza di tanti anni la Perfida Albione insiste a mantenere il coperchio sopra a
queste vecchie storie? Pensiamo che lo faccia essenzialmente per due motivi. Per celare il fatto che le
due guerre mondiali alle quali parteciparono nel secolo scorso non le combatterono solo per difendere la Patria dall’invasione germanica, come la maggioranza dei cittadini britannici crede, bensì per regolare gli eventi in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Gli stessi motivi che li avevano indotti a contrastare Napoleone. A un livello più minuto, la segretezza serve per proteggere la reputazione degli uomini e delle donne che vennero direttamente coinvolti in quegli eventi. Pochi sono ancora vivi, ma i loro successori politici ancora siedono in Parlamento e gli interessi economici in gioco sono enormi.

 

Angelo Paratico

Lanciano zuppa sulla Monna Lisa di Leonardo al Louvre

Lanciano zuppa sulla Monna Lisa di Leonardo al Louvre

Alcuni manifestanti hanno lanciato della zuppa contro il dipinto della Monna Lisa, protetto da un vetro antiproiettile, a Parigi. Non poteva mancare un oltraggio anche al più celebre dipinto del mondo…

Il dipinto di Leonardo da Vinci è una delle opere d’arte più famose al mondo e si trova al Louvre di Parigi. Sta al sicuro dietro un vetro antiproiettile, quindi è improbabile che sia stato danneggiato.

Un video mostrava due manifestanti che chiedevano il diritto ad un “cibo sano e sostenibile”, affermando che “il nostro sistema agricolo è malato”. Negli ultimi giorni, la capitale francese è stata teatro di proteste da parte degli agricoltori, che hanno chiesto di porre fine all’aumento dei costi del carburante e di semplificare i regolamenti – venerdì hanno bloccato le strade principali in entrata e in uscita da Parigi. Ma è probabile che gli attentatori appartengano al circolo di Ultima Generazione, filiale francese.

La Monna Lisa è dietro un vetro di sicurezza dai primi anni ’50, dopo che nel 1956 fu parzialmente  danneggiata da un vandalo che  la schizzò di acido.  Il  30 dicembre dello stesso anno un pazzo boliviano, Ugo Ungaza, le lanciò un sasso, che spaccò il vetro danneggiando il gomito della signora.
Nell’aprile del 1974, a Tokyo, fu spruzzata con della vernice rossa. A Parigi, il 2 August 2009, una donna russa le lanciò una brocca di terracotta che aveva acquistato al negozio del museo.

Nel 2019, il Louvre dichiarò di aver installato una forma più trasparente di vetro antiproiettile per proteggerla. Nel 2022, un attivista ha lanciato una torta sul dipinto, esortando le persone a “pensare di più alla Terra”.

Il dipinto fu rubato dal Louvre nel 1911, provocando una sensazione internazionale. Vincenzo Peruggia, un dipendente del museo più visitato al mondo, si nascose in un armadio durante la notte per prendere il dipinto. Fu recuperato due anni dopo, quando cercò di venderlo ad un antiquario di Firenze, in Italia.

Dal processo Peruggia uscì bene, come un nazionalista che voleva riportare in Italia quel dipinto che credeva rubato dai francesi, in realtà fu comprato da Francesco I di Francia, a peso d’oro, dal discepolo prediletto di Leonardo, il Salaì, al quale lo aveva lasciato.

 

 

Un ricordo di Hilarion Capucci

Un ricordo di Hilarion Capucci

Quando morì, a Roma, il 1° gennaio 2017, in pochi ricordarono l’arcivescovo di Gerusalemme, Hilarion Capucci. Nato il 2 marzo 1925, nella città siriana di Aleppo, il suo nome di battesimo fu George Capucci. Suo padre, Bashir, morì quando aveva solo cinque anni. Sua madre, Chafika, divenuta vedova a venticinque anni, fu costretta a crescerlo da sola con i due fratelli. Capucci è una figura ancora ricordata con grande nostalgia dai libanesi e con un enorme rispetto in tutto il mondo arabo, mentre per gli israeliani fu un terrorista (come Gesù Cristo…). La casa editrice veronese Gingko pubblica le sue memorie, intitolate “Nel Nome di Dio” che restarono chiuse in un cassetto, a partire dagli anni Settanta, a causa della proibizione da parte del Vaticano di pubblicarle.
Nel 1974, Israele accusò l’arcivescovo cattolico greco-melchita, Hilarion Capucci e titolare dell’arcieparchia di Gerusalemme, di avvalersi della sua immunità diplomatica per contrabbandare armi per i fedayn palestinesi in Cisgiordania e per il suo amico Yasser Arafat. Questa accusa fu accettata da Capucci, ma sostenne che i veri terroristi erano gli israeliani e si fece condannare a 12 anni di carcere duro. Ne scontò solo tre, senza cedimenti e, grazie all’intercessione di Papa Paolo VI presso al presidente israeliano Ephraim Katzir, contro alla sua volontà, venne rilasciato. Poco dopo la scarcerazione e il trasferimento a Roma, Capucci fu raggiunto da due suoi vecchi amici, i giornalisti libanesi Sarkis Abu Zeid e Antoine Francis, i quali gli chiesero di collaborare alla stesura di una biografia, che avrebbe raccontato le sue eccezionali imprese e il suo grande coraggio. Capucci accettò e, in una serie di interviste registrate nel 1979 presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, ripercorse con dovizia di particolari le vicende salienti della sua vita e il calvario patito da prigioniero nelle prigioni israeliane. L’arcivescovo di Gerusalemme raccontò in un modo estremamente franco le proprie esperienze. Con modestia e senza spirito di rivalsa, condivise con i due giornalisti tanto le sue frustrazioni quanto i suoi successi. Raccontò i fatti il più obiettivamente possibile. L’unica condizione che pose fu che gli intervistatori gli consentissero di visionare il manoscritto prima della pubblicazione, cosa che di fatto avvenne. Verso la fine del 1979, una casa editrice francese accettò di pubblicare il libro con il titolo “L’Archevêque Revolutionnaire”. Poco prima della sua pubblicazione, tuttavia, Capucci cambiò idea e chiese ai due giornalisti di sospendere l’uscita, adducendo non meglio precisate motivazioni che esulavano “dalla sua volontà”.
Gli israeliani lo avevano rilasciato a patto che non mettesse mai più piede a Gerusalemme e in altri paesi arabi e non facesse dichiarazioni a loro contrarie, ma Capucci continuò senza paura il suo attivismo e dopo aver partecipato a una riunione del Consiglio Nazionale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina tenutasi a Damasco nel 1979, la sua fama esplose in tutto il mondo. Si recò nei punti più caldi del pianeta per offrire i propri servigi. Il 4 novembre 1979, gli studenti iraniani occuparono l’ambasciata americana a Teheran e sequestrarono più di cinquanta cittadini americani, dall’Incaricato d’affari ai membri più giovani dello staff. Tennero in ostaggio i diplomatici statunitensi per 444 giorni. Durante la crisi, Capucci si recò a far visita più volte agli ostaggi e operò da intermediario per negoziare un accordo per il loro rilascio, il quale poi andò in fumo solo all’ultimo istante a causa di una fuga di notizie diffuse dalla stampa francese. Tuttavia, riuscì a ottenere il rilascio dei cadaveri dei soldati americani che erano rimasti uccisi in seguito del fallito tentativo di salvataggio dei diplomatici. Per quel suo prezioso intervento, Cappucci ricevette una lettera di ringraziamento da parte del presidente americano Ronald Reagan. Le buone relazioni di Capucci con i leader arabi gli davano un netto vantaggio su qualunque altro mediatore. Nel 1985, grazie all’aiuto dei siriani, ottenne il rilascio di un ostaggio francese tenuto prigioniero a Tripoli, in Libia. L’anno seguente si presentò a Parigi per offrire il proprio aiuto dopo una serie di attentati dinamitardi portati a segno da un gruppo di estrema sinistra, chiamato Comitato di solidarietà con i prigionieri politici arabi e mediorientali. Georges Ibrahim Abdallah, presunto leader della guerriglia libanese, era tra i prigionieri di cui il gruppo terroristico chiedeva il rilascio. A Capucci venne concesso di far visita ad Abdallah in carcere, nel tentativo di indurre il gruppo a porre fine alla violenta campagna di sangue. L’arcivescovo fu l’unica persona che le autorità francesi autorizzarono a entrare in contatto con Abdallah. Nel 1990, Capucci si recò a Baghdad per intercedere per il rilascio di sessantotto italiani. Gli italiani erano tra le centinaia di occidentali a cui il governo di Saddam Hussein aveva impedito di lasciare l’Iraq, in seguito dell’invasione del Kuwait di quell’anno. L’arcivescovo fu tra i pochi politici, personaggi pubblici di spicco e pacificatori a cui Saddam permise di entrare nel Paese. Gli stretti contatti di Capucci con gli alti funzionari dell’Iraq assediato diedero i loro frutti nel 2000, quando egli guidò una delegazione anti-sanzioni in Iraq. Affiancato da un gruppo di religiosi e di intellettuali italiani, Capucci si recò a Baghdad dalla Siria con un volo umanitario autorizzato dal Comitato per le Sanzioni delle Nazioni Unite.
Capucci criticò aspramente i Bush, padre e figlio, per l’aggressione all’Iraq, dicendo: “Mandare bombardieri a distruggere un intero Paese e seminare la morte in mezzo a un popolo già in agonia, in nome di Dio, è la più grande offesa commessa contro Gesù Cristo, e la più terribile maledizione lanciata contro la Pace e l’Amore di Cristo. Questo perché la Pace, per noi cristiani, è una Persona: la Persona di Cristo. Gesù Cristo è la vittoria della pace e dell’amore. L’insopportabile visione del popolo iracheno sofferente è Cristo sulla croce. Ma vi è qualcosa di ancora più grave: i giovani allevati sotto le sanzioni in un paese distrutto dalle bombe hanno menti soffocate dall’odio, non hanno più nulla da perdere, e sono pronti a ogni tipo di vendetta. In un Paese arabo dove l’armonia reciproca tra cristiani e musulmani è stata un modello, le bombe vengono piazzate nelle chiese e decine di migliaia di cristiani fuggono all’estero. E a essere rapiti sono persino i bambini dei cristiani iracheni. Prima dell’invasione dell’Iraq, la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani era un esempio. Ora è stato sostituito da un incubo. La guerra contro l’Iraq ha mandato in fumo anni di dialogo con l’Islam, ha fornito nuovi pretesti agli estremisti islamici e ha alimentato la discordia tra il mondo arabo e l’Occidente.”
La previsione di Capucci, secondo cui la distruzione dell’Iraq avrebbe scoperchiato un vaso di Pandora, si avverò in Siria. Temendo il peggio per la sua patria, Capucci respinse come infondate e controproducenti le rivendicazioni occidentali contro Bashar al-Assad, e compì ogni sforzo per far conoscere una verità documentata. L’impatto della guerra sull’unità e sul delicato tessuto sociale del Paese, nonché le sue ripercussioni sui rapporti tra musulmani e cristiani e sul destino del cristianesimo nella regione, erano tornate di nuovo a tormentarlo, così la sua risposta fu tipica del suo carattere: fece la spola tra Roma e Damasco per offrire il suo sostegno morale, partecipò a manifestazioni pubbliche contro alla guerra, apparve in televisione e su altri media, e incontrò i capi di Stato per scongiurare la guerra o per fare pressione affinché il conflitto si risolvesse.
A Gerusalemme, Capucci aveva trasportato munizioni e armi, anche i due razzi Katjuša che furono ritrovati nei boschi antistanti al King David Hotel, al tempo dell’incontro del Segretario di Stato americano Henry Kissinger con i governanti di Israele. I due razzi non erano partiti a causa di un errore tecnico. I giovani arabi che avrebbero dovuto prepararli al lancio li avevano posizionati in un’area boschiva di fronte all’hotel, puntandone uno verso il Muro del Pianto. Senonché, li avevano installati troppo in fretta e, prima di concludere il lavoro, avendo scorto un uomo che giungeva nella loro direzione sul dorso di un mulo, avevano accelerato ancora di più le manovre per dileguarsi in fretta. Se Kissinger fosse saltato in aria, questo avrebbe certamente cambiato le cose su vari teatri mondiali e creato un immenso imbarazzo a Israele.
Ecco cosa Capucci racconta di quell’episodio: “Gli israeliani, dopo aver scoperto le due valigie di pelle che contenevano i razzi me le portarono e mi chiesero: ‘Le riconosce?’. Avrei potuto negare ogni coinvolgimento, ma dissi: ‘Sì, le riconosco’. E infatti, avevo introdotto clandestinamente i Katjuša a Gerusalemme, ma nutrivo sentimenti contrastanti in merito, durante l’interrogatorio. Da un lato, ero spinto dal Vaticano a negare ogni accusa contro di me. Dall’altro, mi chiedevo: perché mai dovrei negare queste accuse visto che non mi sento in colpa? Quello che ho fatto è un diritto sancito da tutte le leggi, specialmente quelle ecclesiastiche. È il diritto all’autodifesa. Pertanto, non negai quello che avevo fatto perché lo consideravo un mio dovere. Del resto, non avevo piazzato dei missili negli uffici di El Al Airlines a Parigi o a Monaco di Baviera, ma a Gerusalemme, all’interno del territorio che Israele aveva usurpato. Considero ancora oggi la mia azione quale un diritto giustificato e un’azione legittima, destinata all’autodifesa… e allora ritenni di non dover rinnegare le mie idee.”
Pochi giorni dopo la sua morte, la Siria volle premiare la sua costante lealtà. E il 7 febbraio 2017, onorò la sua memoria con una messa commemorativa al Patriarcato cattolico-melchita della “Nostra Signora della Dormizione”, a Damasco. Il ministro di Stato per gli affari presidenziali, Mansour Azzam, partecipò alla messa, su direttiva del presidente Bashar al-Assad.

Angelo Paratico

Bella Ciao non ha nulla a che vedere con la Resistenza e i partigiani

Bella Ciao non ha nulla a che vedere con la Resistenza e i partigiani

 

 

Articolo “rubato” a La Nostra Storia di Dino Messina

 

di Luigi Morrone

Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto».
La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani.
Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti?
In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso.
Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella. Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”. E così via.
Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa.
Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome.
Andiamo con ordine. Già sulla melodia, se ne sentono di tutti i colori.È una melodia genovese, no, anzi, una villanella del 500, anzi no, una nenia veneta, anzi no, una canzone popolare dalmata … Tanto che Carlo Pestelli sostiene: «Bella ciao è una canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore»
Sul punto, l’unica certezza è che la traccia più antica di una incisione della melodia in questione è del 1919, in un 78 giri del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff, intitolato “Klezmer-Yiddish swing music”. Il Kezmer è un genere musicale Yiddish in cui confluiscono vari elementi, tra cui la musica popolare slava, perciò l’ipotesi più probabile sull’origine della melodia sia proprio quella della canzone popolare dalmata, come pensa Bocca.
Vediamo, invece, il testo “partigiano”. Quando comparve la prima volta?
Qui s’innestano i racconti “orali” che richiamano alla mente la trota di Jerome. Ognuno la racconta a modo suo. La voce “Bella ciao” su Wikipedia contiene una lunga interlocuzione in cui si racconta di una “scoperta” documentale nell’archivio storico del Canzoniere della Lame che proverebbe la circolazione della canzone tra i partigiani fra l’Appennino Bolognese e l’Appennino Modenese, ma i supervisori dell’enciclopedia online sono stati costretti a sottolineare il passo perché privo di fonte. Non è privo di fonte, è semplicemente falso: nell’archivio citato da Wikipedia non vi è alcuna traccia documentale di “Bella ciao” quale canto partigiano.
Al fine di colmare la lacuna dell’assenza di prove documentali, per retrodatare l’apparizione della canzone partigiana, molti richiamano la “tradizione orale”, che – però – specie se di anni posteriore ai fatti, è la più fallace che possa esistere. Se si va sul Loch Ness, c’è ancora qualcuno che giura di aver visto il “mostro” passeggiare sul lago …Viceversa, non vi è alcuna fonte documentale che attesti che “Bella ciao” sia stata mai cantata dai partigiani durante la guerra. Anzi, vi sono indizi gravi, precisi e concordanti che portano ad escludere tale ipotesi.
Tra i partigiani circolavano fogli con i testi delle canzoni da cantare, ed in nessuno di questi fogli è contenuto il testo di Bella ciao. Si è sostenuto che il canto fosse stato adottato da alcune brigate e che fosse addirittura l’inno della Brigata Maiella. Sta di fatto che nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come “inno”. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: “Inno della lince”.
Mancano – dunque – documenti coevi, ma neanche negli anni dell’immediato dopoguerra si ha traccia di questo canto “partigiano”. Non vi è traccia di Bella ciao in Canta Partigiano edito dalla Panfilo nel 1945. Né conosce Bella ciao la rivista Folklore che nel 1946 dedica ai canti partigiani due numeri, curati da Giulio Mele.
Non c’è Bella ciao nelle varie edizioni del Canzoniere Italiano di Pasolini, che pure contiene una sezione dedicata ai canti partigiani. Nella agiografia della guerra partigiana di Roberto Battaglia, edita nel 1953, vi è ampio spazio al canto partigiano. Non vi è traccia di “Bella ciao”. Neanche nella successiva edizione del 1964, Battaglia, pur ampliando lo spazio dedicato al canto partigiano ed introducendo una corposa bibliografia in merito, fa alcuna menzione di “Bella ciao”.
Eppure, il canto era stato già pubblicato. È infatti del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla Rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma.
Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”.
Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani.
Sulla presentazione di Bella ciao nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace” non vi sono elementi concreti a sostegno. Carlo Pestelli racconta: «A Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, un gruppo di ex combattenti provenienti dall’Emilia diffuse con successo Bella ciao. In quell’occasione, migliaia di delegati provenienti da settanta Paesi si riunirono nella capitale ceca e alcuni testimoni hanno raccontato che, grazie al battimani corale, Bella ciao s’impose al centro dell’attenzione», omettendo – però – di citare la fonte, onde non si sa da dove tragga la notizia. Sta di fatto, che nei resoconti dell’epoca non si rinviene nulla di tutto ciò: L’Unità dedica alla rassegna l’apertura del 26 luglio 1947, con il titolo “La Capitale della gioventù”. Nessun accenno alla presentazione del canto.
Come si è detto, sul piano documentale, non si ha “traccia” di Bella ciao prima del 1953, momento in cui risulta comunque piuttosto diffusa, visto che da un servizio di Riccardo Longone apparso nella terza pagina dell’Unità del 29 aprile 1953, apprendiamo che all’epoca la canzone è conosciuta in Cina ed in Corea. La incide anche Yves Montand, ma la fortuna arriderà più tardi a questa canzone oggi conosciuta come inno partigiano per antonomasia.
Come dice Bocca, sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di “Bella ciao” che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo.
La Daffini aveva presentato la versione “mondina” di Bella ciao nel 1962 a Gianni Bosio e Roberto Leydi, dichiarando di averla sentita dalle mondine emiliane che andavano a lavorare nel vercellese, ed il Nuovo Canzoniere Italiano aveva dato credito a questa versione dei fatti.
Sennonché, nel maggio 1965, un tale Vasco Scansiani scrive una lettera all’Unità in cui rivendica la paternità delle parole cantate dalla Daffini, sostenendo di avere scritto lui la versione “mondina” del canto e di averlo consegnato alla Daffini (sua concittadina di Gualtieri) nel 1951. L’Unità, pressata da Gianni Bosio, non pubblica quella lettera, ma si hanno notizie di un “confronto” tra la Daffini e Scansiani in cui la ex mondina avrebbe ammesso di aver ricevuto i versi dal concittadino. Da questo intreccio, parrebbe che la versione “partigiana” avrebbe preceduto quella “mondina”.
Nel 1974, salta fuori un altro presunto autore del canto, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvatori, che in una lettera alle edizioni del Gallo, racconta di averla scritta per una mondina negli anni 30, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché diffidato dalla censura fascista.
La contraddittorietà delle testimonianze, l’assenza di fonti documentali prima del 1953, rendono davvero improbabile che il canto fosse intonato durante la guerra civile.Cesare Bermani sostiene che il canto fosse “poco diffuso” durante la Resistenza, onde, rifacendosi ad Hosmawm, assume che nell’immaginario collettivo “Bella ciao” sia diventata l’inno della Resistenza mediante l’invenzione di una tradizione.
Sta di fatto che lo stesso Bermani, oltre ad avvalorare l’inattendibile ipotesi che fosse l’inno della Brigata Maiella, da un lato, riconosce che, prima del successo dello spettacolo al Festival di Spoleto «si riteneva, non avendo avuto questo canto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, che fosse sorto nell’immediato dopoguerra», dall’altro, però, raccoglie svariate testimonianze che attesterebbero una sua larga diffusione durante la guerra civile, smentendo di fatto sé stesso.
Il problema è che le testimonianze a cui fa riferimento Bermani per avvalorare l’ipotesi di una diffusione, sia pur “scarsa”, di “Bella ciao” durante la guerra civile, sono contraddittorie e raccolte a distanza di svariati anni dalla fine di essa (la prima è del 1964 …), con una conseguente scarsa attendibilità.
Dunque, se di invenzione di una tradizione si tratta, è inventata la sua origine in tempo di guerra. Ritornando al punto di partenza, come sostengono Bocca e Panza, “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma il mito di “Bella ciao” come “canto partigiano” è così radicato, da far accompagnare il funerale di Giorgio Bocca proprio con quel canto che egli stesso diceva di non aver mai cantato né sentito cantare durante la lotta partigiana.
Perché “Bella ciao”, nonostante tutto, è diventata il simbolo della Resistenza, superando sin da subito i confini nazionali? Perché ha attecchito questa “invenzione della tradizione”? Qualcuno ha sostenuto che il successo di “Bella ciao” deriverebbe dal fatto che non è “targata”, come potrebbe essere “Fischia il vento”, il cui rosso “Sol dell’Avvenir” rende il canto di chiara marca comunista. “Bella ciao”, invece, abbraccerebbe tutte le “facce” della Resistenza (Guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; guerra civile contro la dittatura fascista; guerra di classe per l’emancipazione sociale), come individuate da Claudio Pavone.
Ma, probabilmente, ha ragione Gianpaolo Pansa: «(Bella ciao) viene esibita di continuo ogni 25 aprile. Anche a me piace, con quel motivo musicale agile e allegro, che invita a cantarla». Il successo di “Bella ciao” come “inno” di una guerra durante la quale non fu mai cantata, plausibilmente, deriva dalla orecchiabilità del motivo, dalla facilità di memorizzazione del testo, dalla “trovata” del Nuovo Canzoniere di introdurre il battimani. Insomma, dalla sua immediata fruibilità.

Una critica a “100 domeniche” di Antonio Albanese, regista e attore smemorato che non va alla radice del problema. Avrebbe dovuto studiare di più…

Una critica a “100 domeniche” di Antonio Albanese, regista e attore smemorato che non va alla radice del problema. Avrebbe dovuto studiare di più…

 

Il film del comico Antonio Albanese “100 domeniche” tocca un grosso problema, quello della gente onesta che ha perso i risparmi perché si è fidata della propria banca. Una storia antica come l’uomo. Le allusioni al crack delle banche venete sono numerose, e pensiamo che si riferisse a queste, anche perché Banca Etruria e MPS, per citarne due,  pur essendo in condizioni anche peggiori della Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, sono state salvate da un Deux ex Machina riconducibile al PD. Lo ricordino bene gli spettatori quando si commuoveranno vedendo questo film.

Albanese ha voluto parlare alla povera gente, ma ha dimenticato di sottolineare che la radice del problema, stava e sta, a Bruxelles, non a Roma, perché se fosse dipeso dal sistema bancario nazionale, le banche venete con una storia di oltre 150 anni e passate attraverso varie crisi economiche e due guerre mondiali, sarebbero state comunque salvate.

Per quanto riguarda il crack della Popolare di Vicenza, posto qui un mio precedente articolo che ben chiarisce come si sia giunti al disastro.

La BCE deve risarcire l’Italia per aver permesso l’assassinio delle Banche Venete – Giornale Cangrande

Albanese sbaglia a prendersela con gli impiegati della banche, perché anche a livello dirigenziale tutti ignoravano cosa stesse accadendo, pure quel Luca Girardi che lo convince a prendere a prestito 30.000 euro per il matrimonio della figlia, senza toccare i suoi 82.000 investiti in azioni della banca (il protagonista pensava fossero obbligazioni, ma in realtà erano azioni, ma avrebbe perso pure le obbligazioni). Riaffiora la storia delle famose “baciate” che furono spinte per giungere a una capitalizzazione veloce, dopo le minacce europee, assecondate dal duo Renzi-Padoan, che imposero il passaggio a Società per Azioni alla Pop. di Vicenza, in soli tre mesi!

Il suo accenno al fatto che grossi finanziatori si siano messi al sicuro per conoscenze particolari, non è vero: grossi industriali, azionisti della Popolare di Vicenza, ci hanno rimesso grosse somme.

La nuova regola del “Bail-In” ovvero che azionisti in primis e obbligazionisti in secundis avrebbero dovuto rimetterci i propri soldi in caso di fallimento bancario, è uno dei molti regali che ci ha fatto la BCE. In passato una banca più grossa, o la Banca d’Italia stessa, sarebbero intervenute per coprire la corsa agli sportelli. Ma ormai viviamo in un mondo di smemorati. Vediamo di rinfrescare la memoria di chi ha scritto la qualunquistica sceneggiatura del film di Albanese.

Matteo Renzi è stato Primo ministro dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016, con Padoan ministro delle finanze. A Renzi seguì Gentiloni, dal 12 dicembre 2016 al 1 giugno 2018. Lasciamo perdere i seguenti e Letta che venne prima. Dunque, il crack della banche e la fregatura degli operai, come il povero Riva/Albanese, è stato tutto un affare di sinistra. Sono loro che, a parole, con i sindacati, parlavano di difendere i lavoratori ma poi gli hanno sfilano i portafogli. Eppure, il comico Antonio Albanese se la prende con quelli che lui considera i pesci grossi, come il direttore della filiale della sua banca, o come il suo datore di lavoro, un industrialotto al quale è sempre rimasto fedele, e anche tutti gli altri che avrebbero potuto ritirarsi in tempo, a fronte di chissà quali informazioni segrete.

Per chi l’avesse dimenticato, fautori del “ce lo chiede l’Europa”, il Bail-In  entrò in vigore il 1° gennaio 2016. Secondo quel trattato il salvataggio delle banche in crisi non avviene con soldi dei contribuenti (bail-out), bensì con risorse interne alla banca (bail-in). In sostanza, in caso di crack bancario, a mettere mano al portafoglio saranno prima gli azionisti della banca, poi gli obbligazionisti e infine i depositanti con liquidità superiore a 100mila euro.

Quindi,  il salvataggio delle banche in difficoltà avviene con soldi privati, attingendo in modo selettivo da azionisti e creditori, e non con denaro pubblico. Chi ha investito in strumenti finanziari più rischiosi sostiene prima degli altri le eventuali perdite o la conversione in azioni. E solo dopo aver esaurito tutte le risorse della categoria più rischiosa si può passare alla categoria successiva.

L’ordine di priorità è il seguente:

-azioni e strumenti di capitale;
-obbligazioni subordinate;
-obbligazioni senior non garantite;
-depositi, ma solo per l’importo eccedente i 100.000 euro (intestati a persone fisiche e piccole e medie imprese).

Il lettore dirà, e va bene ma un operaio come Antonio Riva non poteva sapere queste cose…vero, ma finché vi saranno smemorati di sinistra, come il regista Antonio Albanese, che racconteranno verità molto parziali, le cose non cambieranno mai.

Angelo Paratico

 

 

 

 

I libri di Napoleone

I libri di Napoleone

Kindle di Napoleone

 

Durante la sua prima campagna in Germania Napoleone vide un uomo alto, con il cappello in mano, fuori dalla tenda dove tenevano un consiglio di guerra. Erano nei pressi di Weimar, Napoleone gli andò incontro, ed esclamò: “Ecco un uomo!”. Lo aveva riconosciuto: era Wolfang Goethe, l’autore del best seller “I dolori del giovane Werther”.

Napoleone era un grande lettore di libri di ogni genere, ed ebbe a dire che avrebbe scambiato le sue più splendide vittorie per un libro da lui scritto, che avesse lasciato il segno nel mondo delle lettere. Alla fine ci riuscì comunque, una sera, a Sant’Elena, guardando il sole che tramontava sull’Oceano disse con un sospiro: “Ah, che grande romanzo è stata la mia vita”.

“Molti biografi di Napoleone hanno menzionato incidentalmente che era solito portare con sé un gran numero di libri preferiti, ovunque egli andasse, sia in viaggio che durante le campagne militari”. Si legge in un articolo del Sacramento Daily Union del 1885 pubblicato da Austin Kleon, “ma non è generalmente noto che egli fece diversi progetti per la costruzione di biblioteche portatili che avrebbero dovuto far parte del suo bagaglio”. La fonte principale dell’articolo, un bibliotecario del Louvre, figlio di uno dei bibliotecari di Napoleone, ricorda dai racconti del padre che “per molto tempo Napoleone aveva l’abitudine di portare con sé i libri che gli servivano in diverse scatole che contenevano circa sessanta volumi ciascuna”, ogni scatola, inizialmente, era fatta di mogano e successivamente di quercia, più solida e poi rivestita di pelle. “L’interno era foderato di pelle verde o di velluto e i libri erano rilegati in marocchino, con i titoli d’oro”, una pelle ancora più morbida e spesso utilizzata per la rilegatura.

Per utilizzare questa prima biblioteca itinerante, Napoleone fece compilare ai suoi assistenti “un catalogo per ogni cassa, con un numero corrispondente su ogni volume, in modo che non ci fosse mai un attimo di ritardo nello scegliere il libro desiderato”. Questo sistema funzionò abbastanza bene per un po’, ma alla fine “Napoleone si accorse che molti libri che voleva consultare non erano inclusi nella collezione, per ovvie ragioni di spazio. Così, l’8 luglio 1803, inviò al suo bibliotecario questi ordini:

L’Imperatore desidera che tu costituisca una biblioteca itinerante di mille volumi in piccolo formato, ovvero in 12mo, stampati in bei caratteri. È intenzione di Sua Maestà far stampare queste opere per il suo uso personale e, per risparmiare spazio, non ci devono essere margini. Dovrebbero contenere dalle cinquecento alle seicento pagine ciascuno ed essere rilegate con copertine il più possibile flessibili. Dovrebbero esserci quaranta opere sulla religione, quaranta opere drammatiche, quaranta volumi di poesia epica e sessanta di altre poesie, cento romanzi e sessanta volumi di storia, il resto saranno memorie storiche per ogni periodo”.

Insomma, non solo Napoleone possedeva una biblioteca itinerante, ma quando questa si rivelò troppo ingombrante per le sue numerose e variegate esigenze letterarie, fece realizzare una serie di custodie per libri, ancora più portatili.

Questo prefigurava in modo molto analogico il concetto dell’era digitale di ricreare i libri in un altro formato appositamente per la compattezza e convenienza – il tipo di compattezza e convenienza che oggi è sempre più disponibile per tutti noi (pensiamo a Kindle) e che Napoleone non avrebbe mai potuto immaginare, né tanto meno richiedere.

Angelo Paratico

“Regnum Chinae: le mappe stampate in occidente per rappresentare la Cina” monumentale opera di Marco Caboara

“Regnum Chinae: le mappe stampate in occidente per rappresentare la Cina” monumentale opera di Marco Caboara

 

Articolo di Juan José Morales

La pubblicazione del “Regnum Chinae di Marco Caboara: Le mappe occidentali stampate della Cina fino al 1735″ è un evento da celebrare. Finalmente, ogni mappa della Cina stampata in Europa – dalla prima mappa di Ortelius, del 1584, alla mappa di riferimento di Jean-Baptiste d’Anville del 1735 – è stata registrata e referenziata in un’unica fonte.

Non si tratta solo di una conquista carto-bibliografica – per quanto sia importante che gli studenti di cartografia e gli appassionati di mappe siano in grado di identificare e datare qualsiasi mappa stampata di quel periodo fondamentale – ma anche per il modo in cui tale catalogazione è stata realizzata, con lo sfondo storico e il contesto, per i saggi aggiuntivi e, non da ultimo, per le generose illustrazioni a colori che sembrano accompagnare ogni argomento, questo libro ha implicazioni di vasta portata. Si lascia alle spalle una conoscenza dispersa e frammentata, sostenuta tenuamente da pochi studiosi, o basata sul sentito dire e sulla tradizione dei collezionisti di mappe.

È significativo che Regnum Chinae sia il frutto di un progetto di ricerca intrapreso dall’Università di Scienza e Tecnologia di Hong Kong (HKUST), la cui biblioteca ospita una delle più notevoli collezioni di mappe della Cina al mondo; l’autore, Marco Caboara, che è il responsabile delle Collezioni Speciali, ha portato la tradizione di gestione dell’istituzione a nuovi livelli, dove le nuove conoscenze hanno costantemente integrato una collezione in crescita. Poco è stato scritto sulle mappe della Cina, l’unico precedente in inglese è China in European Maps, pubblicato vent’anni fa proprio da questa prestigiosa università grazie alla sua prima bibliotecaria Min-min Chang.

Questa grande opera è il risultato di un lavoro collettivo; oltre al suo dipartimento, Caboara ha contato sulla collaborazione del team di ricerca Explokart dell’Università di Amsterdam; le illustrazioni delle mappe provengono principalmente da queste due fonti, in primo luogo la Biblioteca HKUST e in secondo luogo la Allard Pierson (Collezioni Speciali) dell’Università di Amsterdam, e sono completate da altre fonti. L’editore, Brill, non ha risparmiato alcuno sforzo per portare a termine questo ambizioso progetto, che si riflette, tra l’altro, nella ricchezza delle illustrazioni mostrate, indipendentemente dalla fonte.

Le mappe sono tra i documenti più importanti del passato.

Le mappe qui catalogate sono quelle che descrivono la Cina come unità geografica e politica e di solito sono intitolate come tali – “Cina” – non come parte di un continente o di un’area geografica più ampia; sono stampate in un libro o in un atlante, come di solito accadeva, anche come parte del un frontespizio, o nei rari casi in cui erano stampate in un foglio separato; indipendentemente dal fatto che la mappa fosse grande o piccola, tascabile, o persino parte di un mazzo di carte dove, curiosamente, la Cina sarebbe stata il re di cuori.

La ricerca ha permesso di scoprire 127 diverse mappe stampate nel periodo di 150 anni, con la gradita scoperta di alcune precedentemente sconosciute. Organizzata cronologicamente, ogni mappa è sistematicamente presentata e referenziata con la storia della pubblicazione e delle edizioni, le biblioteche pubbliche in cui è possibile trovarla e la bibliografia. Per la gioia dei lettori più esigenti, è stato identificato anche ogni stato (la versione e le modifiche che accompagnano la lastra di rame della mappa originale), spiegato in dettaglio, con illustrazioni ravvicinate che indicano i cambiamenti.

Lungi dall’essere aride, le voci sono arricchite dalle storie che hanno reso possibili queste visioni di un altro mondo, “storie segnate da scoperte accademiche, ossessione, zelo missionario, sagacia commerciale e avidità”.

La classificazione e la catalogazione sistematica valorizzano le informazioni quasi esaustive. Nell’introduzione, Caboara offre una guida alla “famiglia delle mappe”, che rivela la genealogia di ogni mappa identificando i modelli di Ortelius, Hondius, Purchas, Blaeu, Sanson, Martini, eccetera, ai quali la maggior parte delle mappe può essere collegata.

Le mappe sono arrivate a ondate.

È illuminante, come dice Caboara, come queste mappe siano apparse, non “lentamente e progressivamente, seguendo la graduale espansione dei contatti commerciali e missionari occidentali; piuttosto, sono arrivate a ondate”. La prima ondata si verificò nel 1580-1590, in seguito all’unificazione del Portogallo e della Spagna sotto Filippo II, che pose fine alla cartografia come ‘scienza segreta’ per gli iberici; sfruttò le conoscenze precoci ma crescenti dei gesuiti e diede il via all’iconica prima mappa stampata della Cina di Ortelius.

Una seconda ondata (1640-1650) fu segnata dalla caduta della dinastia Ming “e dal viaggio di ritorno in Europa di missionari gesuiti come Martino Martini e Michael Boym, che portarono con sé mappe cinesi che tradussero in latino e convertirono in mappe occidentali”. La mappa di Martini del 1655 divenne per 80 anni “l’immagine cartografica più ristampata e affidabile della Cina”. E una terza ondata, negli anni ’30 del XVII secolo, epitomata dalla mappa di d’Anville pubblicata a Parigi, risultato di due decenni di collaborazione tra i gesuiti e i cartografi della dinastia Qing negli atlanti di rilevamento cinesi.

Da questo catalogo emerge una conclusione primaria: il ruolo da protagonista dei Gesuiti nella mappatura della Cina. Essi appaiono come formidabili catalizzatori per la loro determinazione, abilità e imprenditorialità, ma Caboara evidenzia anche qualcos’altro. Ci furono gesuiti come Martini e il versatile Athanasius Kircher che cercarono di pubblicare ad Amsterdam, una roccaforte protestante, consapevoli della qualità superiore della stampa e dell’impareggiabile rete di distribuzione di questa città, iniziando così a colmare il divario religioso in Europa. Pionieri dell’incontro culturale Cina-Occidente, i gesuiti furono, inoltre, gli illuminati non celebrati prima dell’Illuminismo.

Quando i missionari cristiani portarono in Cina il nuovo ‘sapere occidentale’ alla fine dei Ming, furono l’astronomia e la cartografia ad essere accolte con maggiore entusiasmo dagli studiosi cinesi, una conoscenza ‘straniera’ che sfidava la visione del mondo cinese. Tuttavia, in queste mappe occidentali stampate della Cina vediamo il contrario, l’influenza della cartografia cinese. Cosa sono queste mappe e come sono nate? Le risposte risiedono in una miscela unica di visioni cinesi e occidentali, frutto di un’esperienza condivisa che sfida le visioni sia eurocentriche che sinocentriche.

Chiarire l’influenza cinese in generale e per ogni mappa è uno dei principali contributi di questo libro. C’era un tipo di mappa presente fin dalla dinastia Song, “spesso meno focalizzata sull’accuratezza e sulla scala e più sulla relazione tra la Cina e i popoli e i Paesi stranieri, così come sulla rappresentazione dei diversi strati della struttura amministrativa del regno”. Li Xiaocong chiama tali mappe zongtu qui tradotte come “mappe dell’intero regno”. Caboara prosegue fornendo una definizione appropriata per queste mappe stampate europee della Cina.

Le mappe della Cina sono in un certo senso la creazione dell’incontro tra le “mappe dell’intero regno” cinesi e le convenzioni cartografiche dell’epoca degli atlanti, iniziate da Ortelius nel 1584. Queste convenzioni associavano una pagina intera con una mappa a una o più pagine di testo che coprivano il Paese secondo fonti che andavano dagli autori dell’antichità classica ai missionari e viaggiatori medievali e infine ai mercanti, navigatori e amministratori portoghesi e spagnoli.

Non del tutto pratici, i contenuti delle mappe stesse sono di solito scarni, alcuni ricorrenti. La Grande Muraglia “che divide la Cina dalla Grande Tartaria” è raffigurata in molte mappe antiche, ma in seguito, sotto ai Manciù, sarebbe stata contrassegnata da iscrizioni come “inutile” o “costruita invano”, per poi disperdersi e cessare di apparire. Anche la Stele Nestoriana nello Shaanxi è evidenziata in alcune mappe come tributo alla presenza dei primi cristiani, così come la piccola isola di Shangchuan, vicino a Macao, menzionata perché vi morì San Francesco Saverio.

Le storie relative a ciascuna mappa sono così interessanti da rendere quest’opera altamente accademica un vero e proprio “page turner”. Le storie più esemplificative sono quelle che stanno dietro alla prima mappa di Ortelius, inclusa nel suo Theatrum Orbis Terrarum del 1584. È noto che questa mappa si basava su un manoscritto del gesuita portoghese Ludovico Giorgio o Luiz Jorge de Barbuda redatto per volere di Filippo II, allora re di Spagna e Portogallo. L’eminente studioso Benito Arias Montano aveva portato il manoscritto al suo amico e cartografo reale Ortelius ad Anversa. Ma Caboara indica altre fonti. Arias Montano aveva cercato di ottenere un’altra mappa dall’orientalista e matematico Giovanni Battista Raimondi.

In modo notevole, e questo sarà una sorpresa per molti, viene sottolineato che la mappa di Ortelius mostra una certa somiglianza con due globi terrestri esistenti nelle biblioteche italiane attribuibili a Matteo Neroni, che aveva lavorato per Raimondi.

Regnum Chinae è un capolavoro di erudizione e un tributo a quei cartografi, editori, stampatori, commercianti di libri e a coloro che trasmettevano e passavano informazioni.

Alcuni prestigiosi specialisti contribuiscono con saggi che completano il catalogo in modo critico: Li Xiaocong ripercorre la storia della cartografia cinese, le sue influenze che si estendono alla Corea e al Giappone, e i primi scambi con l’Europa, un argomento raramente trattato nei libri in lingua europea; Angelo Cattaneo rivisita le prime mappe europee disegnate a mano dell’Asia orientale e della Cina, inquadrate nei primi scambi tra i due continenti; Marica Milanesi sui predecessori di Ortelio; Francisco Roque de Oliveira e Jin Guoping sulla rappresentazione della costa della Cina meridionale; Lin Hong e Mario Cams, sui contributi più importanti dei Gesuiti, da Ruggieri a d’Anville; infine, Emanuele Raini fa luce sugli sconcertanti nomi di luogo e sui sistemi di trascrizione.

I temi e le intuizioni che emergono da questi saggi sono profondi e numerosi. Una di queste riflessioni è la scarsità di conoscenze sulla Cina all’epoca, e come l’immagine della Cina sia stata messa a fuoco per il pubblico europeo, piuttosto tardi. Sembra, ad esempio, che le prime mappe portoghesi della regione – oggetti d’arte a sé stanti – non si siano sviluppate con la Cina come obiettivo principale, ma con le relazioni con Malacca da un lato e con il Giappone dal 1540 dall’altro.

I commenti di ampio respiro di Cattaneo riguardano i legami attraverso i viaggi e il commercio tra l’oikumene greco-romano “mondo civilizzato” e il tianxia cinese “tutto sotto il cielo”. Egli sottolinea come il mappamondo di Fra Mauro (1459) rifletta un mondo più antico, reso possibile dalla Pax Mongolica e dalla “civiltà mongolo-cinese della dinastia Yuan”:

“È importante sottolineare che per Fra Mauro, così come per i cartografi maiorchini Jafuda e Abraham Cresques, il Catai e Mangi [la Cina di Marco Polo] non costituivano un’estensione in longitudine dell’antico oikumene, ma piuttosto un aggiornamento di territori che, svaniti nell’oscurità dopo Alessandro Magno, erano diventati più noti in tempi recenti”.

Anche il nome ‘Cina’ è una costruzione successiva. Le prime mappe dell’Asia orientale riportavano i nomi Cathai e Mangi di Marco Polo. Nel 1545, le mappe stampate di geografi famosi come Ramusio sovrapponevano Cina e Messico come se fossero lo stesso luogo, mentre il fiume Canton era ancora confuso con il Gange fino al 1570, persino da Mercator. L’antico enigma fu risolto alla fine del 1570 grazie alle osservazioni di Martin de Rada, il primo a concludere che il Catai di Marco Polo e la Cina erano la stessa cosa.

Le mappe sono tra i documenti più importanti sopravvissuti dal passato, perché seguono e riflettono gli sviluppi storici. All’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, lo scambio di informazioni attraverso le reti da Pechino a Parigi e San Pietroburgo portò a raffigurare una Cina dai confini molto estesi – verso il Tibet, la Mongolia, lo Xinjiang – confini che in gran parte rimangono ancora oggi: mentre gli imperatori Qing – Kangxi, Yonhgzheng, Qianlong – potenti come Pietro il Grande o Luigi XIV, governavano su una nuova Cina, “una nuova forza con cui fare i conti”.

Regnum Chinae è un capolavoro di erudizione e un tributo a quei cartografi, editori, stampatori, commercianti di libri e a coloro che hanno trasmesso informazioni. Quando si parla della mappa di Vincenzo Coronelli del 1688 e delle sue versioni in diverse lingue europee, il riferimento alla libreria sopra il Ponte di Rialto di Venezia dove venivano vendute le mappe (e alle aspre dispute legali tra Padoani, il libraio, e Coronelli) evoca un punto di osservazione che presiede un mondo di relazioni tra queste persone e i paralleli nelle loro opere. Caboara si era prefissato uno scopo fin dall’inizio: quello di mettere a nudo le connessioni tra la Cina e l’Europa e tra le varie città principali e altri centri all’interno dell’Europa, un obiettivo che ha realizzato in modo eccellente. L’entusiasmo per tale connettività è immediatamente evidente, sia per chi ha realizzato e pubblicato queste mappe della Cina come progetto paneuropeo, sia per il pubblico che queste mappe hanno raggiunto.

Queste mappe erano destinate a un pubblico sempre più vasto: gli atlanti e le mappe alimentavano le ricerche perenni della letteratura di viaggio, della geografia e della storia del mondo, e accendevano l’immaginazione dei lettori. Questo compendio ripropone queste antiche ricerche. In tutti i suoi risultati, il Regnum Chinae è una pietra miliare sia negli studi cartografici che nelle prime relazioni storiche tra la Cina e l’Occidente, un campo che illumina le relazioni sino-occidentali oggi, appartiene a tutte le biblioteche pubbliche e merita il più ampio pubblico di lettori.

 

Juan José Morales è coautore di Painter and Patron: The Maritime Silk Road in the Códice Casanatense (Abbreviated Books, 2020) e di The Silver Way: China, Spanish America and the Birth of Globalisation, 1565-1815 (Penguin, 2017).