Barbie Brigatista e la Renault 4 rossa con bagagliaio aperto

Barbie Brigatista e la Renault 4 rossa con bagagliaio aperto

Lo scatto metallico della moneta da cento lire in caduta ed il fruscio, a smazzata di carte, del selettore: cuore pulsante del juke box. Anno domini 1978. 9 maggio. Vecchia ormai d’un decennio, purtuttavia un evergreen, quel sempre verde attonito anche nel primo sole caldo dell’anno, nel brusio di silenzio del caffè, l’accordo di Bach, tradotto in tastiera elettronica, compone intimità interiore e un correlato dolore verso l’imminente fuga mundi. “Han spento già la luce, son rimasto solo io, e mi sento il mal di mare, il bicchiere però è il mio…”, così nella geniale traduzione, più che libera d’inventiva firmata Mogol, i Dick Dick, coverizzano i Procol Harum i quali, profeti del rock orchestrale, avevano ricavato, un’anastilosi, da Johann Sebastian Bach, kapel maister. Così Bach in quel caffè disposto in tre sale, una per il biliardo già alle nove e trenta dal colpo secco della stecca sull’avorio; una per il Tè e non solo nel deserto; e il salone d’ingresso col banco in acciaio, lo sbuffo della caffettiera nell’aroma dulcamara dei cornetti e la teoria di tavolini allineati. Lì siede un ragazzo. Lo vedo. Avrà vent’anni. Indossa un principe di Galles, camicia e cravatta oxford, francesine frangiate, ha il capello lungo biondo castano. Sul tavolo un libro aperto, una stilografica Omas ed un quaderno a righe. Il tratto corsivo regolare in blu di Prussia. Fuma Gauloises che accende con uno Zippo. Sta leggendo. Leggerà, dietro le lenti dei Ray Ban, per anni lì dentro. Ci scriverà la sua tesi di laurea pescando dal tascapane militare che indossa a bandoliera la radunata dei testi. Quel ragazzo lo conosco. Ma lo voglio vedere solo di spalle. Il pennino della Omas in bachelite azzurra s’arresta a quella canzone che gli incanta il brivido di un miraggio. Non sono ancora le due del pomeriggio e la strada, via Nirone, Milano, si traffica di auto della polizia a sirene spiegate. Lungo il marciapiedi si dislocano poliziotti armati di mitragliatori. Il disco rientra nella margherita a selezione. Click. Silenzio. Gli avventori, sono tutti studenti, si osservano interrogativi. Uno dei baristi aumenta il volume di Radio Milano International, hanno trovato il corpo di Aldo Moro. Il dj sta ripetendo quello che sente dalla trasmissione televisiva, RAI, si sente la eco in sottofondo. Un altro barista accende in sala da tè un Mivar bianco e nero. Eccolo lì, Bruno Vespa giovanissimo a voce concitata, il portellone della Renault 4 alzato, s’intuisce la sagoma del corpo coperta da un panno. Si scorge un sacerdote in talare, prega. Roma, via Caetani. Tutti gli avventori se ne stanno lì in silenzio a guardare la tivù. Dal campanile della limitrofa Università Cattolica la campana suona a morto. Tre rintocchi: un uomo. È per lui. In breve scampanella la fine delle lezioni. Gli studenti sciamano in silenzio. La tivù continua a inquadrare la medesima scena e gli uomini politici che si alternano in loco. Di tutte le politiche perché, come scrive Vincenzo Monti: ‘oltre il fuoco non vive ira nemica’. Mezz’ora, tre quarti d’ora, mentre la campana continua battere i tre colpi, entra un ufficiale dei Carabinieri, tre stelle, un capitano. Il volto teso. Chiede del responsabile. Brevi parole. Esce, sale su un Alfetta a sirena aperta. Il batidta anziano grida ragazzi, fuori tutti. Lutto nazionale. Tutti i locali pubblici chiudono ora. Appena sul marciapiedi scendono sferragliando le saracinesche. Ciascuno di quei ragazzi se ne va per la sua strada. In silenzio. Come si tace di un segreto, di un’onta. Ecco, quel pomeriggio del 9 maggio gli studenti persero l’innocenza. E si dovette fare i conti con la realtà.
Si scrive questa bagatella in merito alla maglietta con l’immagine di Barbie Brigatista e la Renault 4 rossa con bagagliaio aperto; figurazione che sigilla la cifra stilistica del nostro tempo immemore.

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