Una coppia reale egizia al Louvre di Parigi

Una coppia reale egizia al Louvre di Parigi

Durante una recente visita alla sala egizia del Museo del Louvre, mi ha colpito la bellezza di statuina, rappresentante Nefertiti con il consorte, Akhenaton.

Il faraone sta in piedi, con perizoma plissettato con fronte, corona blu, uraeus, collana ousekh, sandali e tiene per mano la regina anche lei in piedi, abito lungo plissettato, corona di Amarna, collana ousekh, orecchini e sandali. Questa meravigliosa coppia fu donata del filantropo americano, Athernon Curtis, nel 1910 e da sua moglie.

 La coppia è alta 22,4 cm; larghezza: 11,2 cm; profondità: 9.8 cm. di calcare colorato.
Dietro si vedono dei cartigli, con Amenhotep IV Akhenaton (1352 a.C. – 1335 a.C.). Mi hanno colpito anche i grossolani errori contenuti nella targhetta posta dal Museo (rigorosamente solo in francese). Il luogo di scoperta della statuina è stato a Tell el-Amarna. Scattando delle foto mi sono tenuto i riferimenti e delle immagini.

STORIA DELLA MOSTRA

ANTHONY LAWRENCE ~ L’UOMO CHE SUSSURRAVA AGLI ELEFANTI. UNA STORIA COMMOVENTE

ANTHONY LAWRENCE ~ L’UOMO CHE SUSSURRAVA AGLI ELEFANTI. UNA STORIA COMMOVENTE

 

Lawrence Anthony, nato il 17 settembre 1950, morto il 2 marzo 2012, è stato un ambientalista sudafricano, noto come “l’uomo che sussurra agli elefanti”. Nel suo paese natale, il Sudafrica. Quella di Anthony è stata una figura chiave nel promuovere il concetto di unire le terre tribali alle riserve di caccia per dare alle comunità tribali remote un interesse nella conservazione. Oltre a creare due nuove riserve di caccia africane, ha gestito una riserva privata di sua proprietà dove ha acquisito il suo soprannome dopo aver salvato un branco di elefanti ribelli destinati alla fucilazione.

Lawrence Anthony è nato a Johannesburg, dove suo nonno, un minatore di Berwick-upon-Tweed, era emigrato negli anni ’20 per lavorare nelle miniere d’oro. Suo padre fondò un’impresa di assicurazioni e, mentre apriva nuovi uffici in tutta l’Africa meridionale, Lawrence venne cresciuto in una serie di piccole città della Rhodesia rurale, dello Zambia, del Malawi e infine dello Zululand, in Sudafrica. Anthony seguì il padre nel settore assicurativo e in seguito lavorò nello sviluppo immobiliare. Ma il suo cuore è sempre rimasto nella savana africana che aveva amato da bambino. Si impegnò a lavorare con le tribù Zulu per cercare di ricostruire il loro rapporto storico con la savana e a metà degli anni ’90 decise di trasformare il suo hobby in una carriera, acquistando la riserva di caccia Thula Thula di 5.000 acri nel KwaZulu-Natal. In seguito ha fondato la Earth Organisation, un gruppo di conservazione che incoraggia un’azione pragmatica a livello locale, ed è stato determinante per la creazione di due nuove riserve, la Royal Zulu Biosphere nello Zululand e la Mayibuye Game Reserve nel Kwa Ximba, che danno lavoro e reddito alle popolazioni locali grazie al turismo, contribuendo al contempo a garantire il futuro della fauna selvatica della regione da uno sviluppo strisciante.

Gli elefanti non hanno mai fatto parte dei piani di Anthony per Thula Thula, ma nel 1999 fu chiamato da un’organizzazione per la conservazione della natura che gli chiese se fosse disposto a prendersi cura di un branco di nove animali che erano fuggiti da tutti i recinti in cui erano stati rinchiusi, creando scompiglio in tutto il KwaZulu-Natal ed erano considerati altamente pericolosi. Consapevole che gli elefanti sarebbero stati abbattuti se avesse rifiutato, Anthony accettò di dare loro una casa. “Erano un gruppo difficile, senza dubbio”, ha ricordato. “Erano tutti delinquenti. Ma potevo vedere anche molto di buono in loro. Avevano passato un periodo difficile ed erano tutti spaventati, eppure si prendevano cura l’uno dell’altro, cercando di proteggersi a vicenda”.

Anthony decise di trattare gli elefanti come se fossero dei bambini disubbidienti, lavorando per convincerli, con parole e gesti, che non dovevano comportarsi male e che potevano fidarsi di lui. Concentrò la sua attenzione su Nana, la matriarca del branco: “Andavo giù al recinto e pregavo Nana di non romperlo”, racconta. “Sapevo che non capiva l’inglese, ma speravo che capisse dal tono della mia voce e dal linguaggio del mio corpo quello che stavo dicendo”. E una mattina, invece di cercare di abbattere la recinzione, è rimasta lì. Poi ha attraversato la recinzione con la proboscide e si è diretta verso di me. Sapevo che voleva toccarmi. Quello fu un punto di svolta”. Presto fu permesso loro di uscire nella riserva.

Anthony e sua moglie, Françoise, si avvicinarono così tanto agli elefanti che in alcune occasioni dovettero quasi scacciarli dal loro salotto. Alcuni giorni dopo aver dato alla luce un figlio, Nana uscì dalla boscaglia per mostrare il neonato al suo amico umano. Qualche anno dopo, dopo la nascita del primo nipote, Anthony ricambiò il complimento, anche se ricorda che passò del tempo prima che la nuora gli rivolgesse nuovamente la parola.

Anthony balzò agli onori della cronaca nel 2003 quando è arrivato a Baghdad, devastata dalla guerra, per salvare gli animali dello zoo di Saddam Hussein.Nel 2003, mentre Anthony guardava le immagini televisive dei bombardamenti su Baghdad, ricordò di aver letto che la città aveva il più grande zoo del Medio Oriente: “Non potevo sopportare il pensiero che gli animali morissero nelle loro gabbie. Contattai gli americani e gli inglesi e chiesi: “Avete dei piani di emergenza? Nessuno era interessato”.

Nel giro di pochi giorni era al confine tra Kuwait e Iraq, a bordo di un’auto a noleggio carica di forniture veterinarie. Gli americani si rifiutarono di lasciarlo passare, ma le guardie di frontiera kuwaitiane glielo permisero e, insieme a due operatori zoologici kuwaitiani, Anthony si unì ai carri armati e ai convogli diretti a Baghdad. Quando arrivò a destinazione, tra le rovine del parco al-Zawra, un tempo maestoso, trovò una “storia dell’orrore”. Incontrando un Husham Hussan in lacrime, il vicedirettore dello zoo, Anthony fu inizialmente tentato di rinunciare. Nuvole di mosche brulicavano sulle carcasse degli animali morti. Babbuini e scimmie correvano liberi, mentre pappagalli, falchi e altri uccelli in fuga volteggiavano sopra la testa. Alcuni leoni erano fuggiti; un orso aveva ucciso alcuni saccheggiatori. Gli animali sopravvissuti, tra cui leoni, tigri e un orso bruno iracheno, erano affamati e profondamente traumatizzati. Non c’era cibo né acqua.

Con un manipolo di aiutanti, Anthony iniziò l’urgente lavoro di salvataggio degli animali sopravvissuti. Con le infrastrutture della città distrutte, l’acqua doveva essere trascinata con un secchio da un canale stagnante, mentre gli asini fornivano la carne per i carnivori. “Andavamo a comprare gli asini per strada e l’asino aveva sempre un carretto, quindi i ragazzi non vendevano l’asino senza il carretto”, ha ricordato. “Penso ancora a come abbiamo lasciato quei carretti in giro per Baghdad”.

Nel giro di poche settimane i soldati americani e anche quelli iracheni posarono le armi e si misero al lavoro: “Avevamo soldati della Guardia Repubblicana che lavoravano con le truppe americane nello zoo due settimane dopo che si stavano uccidendo a vicenda sul campo di battaglia”, ha ricordato Anthony. I mullah locali istruirono i loro seguaci affinché Anthony e la sua squadra fossero lasciati indisturbati. Lavorò a Baghdad per sei mesi, durante i quali trasformò il destino dello zoo. Quando se ne andò, gli animali sopravvissuti erano sani, le gabbie pulite e lo zoo era di nuovo un’attività redditizia.

Anthony ha ricevuto la medaglia della Giornata della Terra dalle Nazioni Unite per il suo lavoro ed è stato decorato con la medaglia reggimentale della 3a Divisione di Fanteria dell’esercito degli Stati Uniti per il suo coraggio. Ha raccontato la sua storia in Babylon’s Ark (2007, scritto insieme a Graham Spence). Quando uno studio di produzione di Los Angeles annunciò di aver commissionato un importante film hollywoodiano sul salvataggio dello zoo di Baghdad, il burbero e barbuto Anthony suggerì di chiedere a Brad Pitt – “una buona somiglianza” – di interpretare il suo ruolo.

Baghdad non è stata l’unica esperienza di Anthony nel lavorare in zone di guerra. Nel 2006 ha convinto i leader dell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), coinvolto in una sanguinosa lotta con il governo ugandese da oltre vent’anni, ad aderire a un progetto di conservazione per salvare il rinoceronte bianco settentrionale, uno degli animali più rari al mondo. L’LRA, nota per l’uso di bambini soldato e accusata di numerose atrocità, aveva stabilito una roccaforte nel Parco Nazionale di Garamba, nella Repubblica Democratica del Congo, dove vivono gli ultimi quattro esemplari di questa specie in libertà.

Subito dopo la sua morte, le sue amate mandrie di elefanti vennero a casa sua per dirgli addio.

Per 12 ore, due branchi di elefanti selvatici sudafricani si sono fatti lentamente strada nel bush dello Zululand fino a raggiungere la casa dello scrittore Lawrence Anthony, l’ambientalista che aveva salvato loro la vita. Gli elefanti, un tempo violenti e ribelli, destinati a essere abbattuti qualche anno fa come parassiti, sono stati salvati e riabilitati da Anthony. Per due giorni le mandrie si sono fermate nella tenuta rurale di Anthony, nella vasta riserva di caccia Thula Thula, nel KwaZulu sudafricano, per dire addio all’uomo che amavano. Ma come facevano a sapere che era morto? Noto per la sua capacità unica di calmare gli elefanti traumatizzati, Anthony era diventato una leggenda. È autore di tre libri: Babylon Ark, che racconta i suoi sforzi per salvare gli animali dello zoo di Baghdad durante la guerra in Iraq, il prossimo The Last Rhinos e il bestseller The Elephant Whisperer. A Thula Thula ci sono due branchi di elefanti.

Secondo il figlio Dylan, entrambi sono arrivati nella casa della famiglia Anthony poco dopo la sua morte. “Non visitavano la casa da un anno e mezzo e devono averci messo circa 12 ore per fare il viaggio”, dice Dylan in diversi resoconti giornalistici locali. “La prima mandria è arrivata domenica e la seconda un giorno dopo. Sono rimasti in giro per circa due giorni prima di tornare nella savana”.

“Gli elefanti sono noti perché  piangono i loro morti. In India, i cuccioli di elefante vengono spesso cresciuti con un ragazzo che sarà il loro “mahout” per tutta la vita. La coppia sviluppa un legame leggendario e non è raro che quando uno dei due si spegne,  l’altro non voglia più vivere.

 

Angelo Paratico

Viaggio lampo di papa Francesco in Mongolia, perché ci va?

Viaggio lampo di papa Francesco in Mongolia, perché ci va?

La domanda che ci poniamo è perché il papa vada in Mongolia, dato che egli severamente proibisce il proselitismo cattolico. Ci va per turismo? Non credo, perché è piuttosto acciaccato dal punto di vista fisico, e non potrà certo godersi lo spettacolo. Pensiamo che ci vada per esercitare la propria sempre più invasiva “power-politics” bergogliesca, come si fosse un presidente dell’ONU o della NATO. Cristo e il Vangelo, di solito, non sono nell’agenda di questo papa.

Papa Francesco sarà in Mongolia dal 31 agosto al 4 settembre. E sfrutterà l’occasione per inaugurare la “Casa della Misericordia”. Motto del viaggio sarà “Sperare insieme”, forse questa sua speranza riguarda il cambiamento climatico causato dall’uomo e i diritti degli LGBTQ+.

Il programma pare che sarà questo: “Il 31 agosto partirà, di sera, e arriverà la mattina dopo a Ulanbaatar. Dopo l’accoglienza ufficiale la giornata sarà dedicata al riposo. L’attività comincerà il 2 settembre, con la cerimonia di Benvenuto, la visita di cortesia al presidente nel Palazzo di Stato, e poi il consueto incontro con autorità, società civile e corpo diplomatico, dove il Papa terrà il suo primo discorso. Dopo il discorso, il Papa incontrerà il presidente del Grande Hural di Stato e quindi il Primo ministro. Nel pomeriggio, alle 16, un altro incontro: quello con vescovi, sacerdoti, missionari, consacrati, consacrate e operatori pastorali nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. Lì udiremo il secondo discorso. Il 3 settembre, alle 10,  avverrà l’incontro ecumenico e interreligioso all’Hun Theatre, dove il Papa terrà il suo ultimo discorso, e nel pomeriggio la Messa nella Steppe Arena”.

La Mongolia teme grandemente le mire espansionistiche della Cina popolare ed è uno stretto  alleato della Russia. Il nostro Angelo Paratico aveva pubblicato un romanzo storico ambientato in Mongolia, assai accurato per quanto riguarda le vicende dei suoi ultimi mille anni e veritiero al duecento per cento, approfittiamo dell’interesse sollevato dalla visita papale per consigliare la sua lettura a chi ci segue. Ripostiamo qui sotto una recensione al suo libro, uscita sul blod del Corriere della Sera, la Nostra Storia di Dino Messina, nel 2020.

Ambrogio Bianchi

 

Oggi (01/09/2023) ha trovato il tempo per inviare un messaggio al Presidente XI JINPING

(ANSA) – “Invio auguri di buoni auspici a Sua Eccellenza e al popolo cinese mentre attraverso lo spazio aereo del suo Paese in rotta verso la Mongolia. Assicurandovi la mia preghiera per il benessere della Nazione, invoco su tutti voi le benedizioni divine dell’unità e della pace”.

 

 

1 AGOSTO 2020 | di Ambrogio Bianchi

Il genocidio dei mongoli è poco conosciuto, eppure centinaia di migliaia d’innocenti vennero trucidati dai bolscevichi russi, affiancati dai loro complici mongoli. Ciò avvenne a partire dalla morte della massima autorità religiosa e politica del Paese, il Bogd Khan, conosciuto come il Budda Vivente, avvenuta il 17 aprile 1924. L’ultimo libro di Angelo Paratico, intitolato “Una Feroce Compassione” e pubblicato dall’editore Gingko di Verona ripercorre quegli avvenimenti, intrecciandoli con la vicenda di un ufficiale italiano che partecipò alla nostra spedizione armata, a Pechino, del 1900, stabilendosi poi a Macao e a Hong Kong.

La narrazione inizia con l’intervento del Barone Pazzo, l’austriaco Roman von Ungern-Sternberg (1886-1921) che, a capo di un piccolo esercito personale, composto essenzialmente da russi bianchi e di altre nazionalità, il 4 febbraio 1921 occupò Urga, la capitale della Mongolia, massacrandovi la guarnigione cinese. Nativo di Graz, in Austria, Unger-Sternberg condivideva alcuni tratti del suo carattere con il suo più celebre connazionale, Adolf Hitler. Credeva di essere la reincarnazione di Jamsaran, il dio tibetano della guerra. Per eliminarlo, alcune unità dell’esercito sovietico invasero la Mongolia e presero Urga il 6 luglio 1921. Il Barone Pazzo tentò di ritirarsi in Tibet, ma fu catturato e poi fucilato, il 15 settembre 1921. Fu grazie al principio della eterogenesi dei fini, ovvero grazie all’intervento del Barone Pazzo e della successiva invasione sovietica per eliminarlo, che la Mongolia oggi non fa parte della Repubblica Popolare Cinese. Questa resta una grossa perdita territoriale per la Cina, considerando che ha una superficie cinque volte maggiore dell’Italia e una popolazione di soli tre milioni e trecentomila abitanti, con un sottosuolo ricchissimo di minerali.

Il Bogd Khan era nato in Tibet, e fin dall’infanzia era stato riconosciuto come una reincarnazione dei suoi predecessori e posto sul trono della Mongolia nel 1911, quando i mongoli conquistarono l’indipendenza dalla Cina. Dopo che il Barone Pazzo venne fucilato, i bolscevichi accordarono solenni garanzie d’indipendenza alla Mongolia, promettendo di rispettare gli accordi che avevano sottoscritto a Kiakhta, ma quasi subito cominciarono a frapporre ostacoli tra il Budda vivente e i suoi sudditi. Dopo essersi sbarazzati del Bogd Khan, che forse avvelenarono, i bolscevichi diedero inizio al genocidio mongolo, radendo al suolo più di cinquecento monasteri, bruciando antiche biblioteche dedicate allo studio del pensiero buddista, fucilando migliaia di lama, distruggendo preziose opere d’arte sacra. Fu in quell’occasione che il vessillo spirituale di Gengis Khan, noto come Khara Sulde – un tridente d’acciaio, con degli anelli d’argento che portavano intrecciata la criniera nera del suo cavallo da guerra – scomparve per sempre dal monastero di Shankh a Ovorkhangai Aimag, nella Mongolia occidentale. Gli antichi mongoli, prima di abbracciare il buddismo tibetano, erano degli animisti e credevano che in quel tridente risiedesse l’anima di Gengis Khan e che il suo possesso garantisse il controllo del mondo intero. Anche Heinrich Himmler cercò di entrane in possesso, seguendo le indicazioni ricevute da Sven Hedin, il famoso esploratore svedese e ammiratore di Hitler e del nazismo. Questa è una leggenda che ricorda quella che circonda la lancia di Longino, conservata a Vienna e che fu sottratta da Hitler durante l’Anschluss del 1938.

I sovietici temevano la rinascita dello spirito d’indipendenza mongolo e portarono a compimento delle feroci purghe, anche di quei mongoli comunisti che non credevano abbastanza zelanti nel voler fare tabula rasa del passato e delle tradizioni. Solo quelle del 1937 portarono alla morte circa trentamila persone. La Mongolia si trasformò in uno stato che ricorda il libro “1984” di Orwell, o l’occupazione della Cambogia da parte dei Khmer Rossi, raggiungendo livelli di psicosi mai visti in precedenza. Basti come esempio ciò che accadde nel 1962, a Tomor-ochir, vicepresidente del Consiglio dei ministri mongolo, che incautamente approvò l’emissione di una serie di francobolli per commemorare gli ottocento anni dalla nascita di Gengis Khan e la costruzione di un piccolo monumento a lui dedicato. Questo causò una sanguinosa epurazione di accademici  e storici che avevano appoggiato quel piano. Lo stesso Primo ministro fu improvvisamente destituito e mandato a lavorare in una fabbrica, come accadde a Dubcek in Cecoslovacchia. Un giorno lo trovarono morto, con la testa spaccata da un colpo d’ascia, ma i suoi assassini non vennero mai trovati.

Dopo l’invasione giapponese della Manciuria nel 1931, anche il Giappone mise gli occhi sulla Mongolia, invadendola nel 1939, ma vennero pesantemente battuti. Si dice che  anche loro avessero formato un plotone di storici in divisa, incaricati di trovare il famoso tridente d’acciaio di Gengis Khan e poi portarlo a Tokyo. Ma non trovarono mai traccia della portentosa reliquia.

 

Ambrogio Bianchi

 

 

 

Un mio libro che, forse, verrà apprezzato fra 50 anni, o giù di lì…

Un mio libro che, forse, verrà apprezzato fra 50 anni, o giù di lì…

Questo libro, che, a differenza dei miei altri, non è stato apprezzato, né capito, forse un giorno verrà capito e apprezzato. Questo è un pensiero un poco vano e puerile, ma che mi conforta e mi fa credere che non abbia buttato tutto il tempo che mi è costato.

Ci avevo lavorato per anni, con grande impegno e svolgendo ampie ricerche storiche, quando abitavo a Hong Kong. Ma si tratta di poesia in forma di romanzo. Lo scrissi in inglese e uscì a Tempe, in Arizona, presso a una piccola casa editrice, sotto al titolo di The Dew of Heaven. La casa editrice era la Cactus Moon, che oggi non esiste più. Dunque, questa edizione in italiano è una traduzione, con modifiche, fatta da me.

Quando mi chiedono se mi manca la Hong Kong nella quale ho vissuto per quasi 40 anni, provando tanti momenti felici e anche tristi, rispondo di no, non mi manca. E, questo, indipendentemente dal fatto che quella città sia molto mutata.

In realtà non mi manca perché l’uomo che sono stato resta imprigionato in questo romanzo, come dentro una gabbia. Vive lì dentro nuovi tramonti e nuove albe, nuove primavere e nuovi autunni.

Angelo Paratico

 

 

 

Non sapevo di aver studiato per 5 anni in un edificio “brutalista”

Non sapevo di aver studiato per 5 anni in un edificio “brutalista”


Il Brutalismo è una corrente architettonica caratterizzata dai materiali che vengono lasciati a nudo, questa è una tendenza architettonica sviluppatasi nel dopoguerra.

Il primo epicentro per la formulazione dei principi brutalisti fu il Regno Unito. Gli edifici dovevano essere lasciati a nudo nell’oggettività dei loro materiali; cemento, vetro, mattoni, acciaio, e dovevano essere assemblati senza alcuna mediazione formale, con gli artifizi tecnici che dovevano essere lasciati in bella vista, tiranti, colonne, cerniere.  La prima ondata di ricerca brutalista condividerà infatti sia il periodo storico che le idee con i dipinti informali di Jackson Pollock e i sentimenti anti-artistici dell’art brut di Jean Dubuffet, ma soprattutto con quelle riflessioni sulla società del dopoguerra posta tra urbanizzazione, produzione e consumo di massa, automatizzazione e che apriranno la strada alla Pop Art, attraverso le opere come “Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?” (1956) di Richard Hamilton o la mostra “This is tomorrow” alla Whitechapel Gallery di Londra (1956). Alison e Peter Smithson furono di fatto le figure più rilevanti del brutalismo britannico.

Sembrerà un po’ assurdo ma questi movimenti artistici avevano una forte base trotzkista, volta a far apparire l’arte sovietica antiquata e rivolta al passato. I suoi padrini, tutti rigorosamente “liberal” erano filo trotzkisti celati nella amministrazione governativa statunitense.

Con il progredire della storia dell’architettura e l’espansione della nozione di scala globale, il termine “brutalismo” è stato sempre più collegato a una estetica caratterizzata da un uso massiccio del cemento a vista (béton brut) nel suo potenziale di potenza, di definizione dei volumi tettonici, tendenti alla monumentalità scultorea.

La mia scuola superiore, per 5 anni, fu un imponente edificio brutalista alle porte di Busto Arsizio, nel territorio di Castellanza, che fu inaugurata nel 1965. Gli architetti furono  Enrico Castiglioni e Carlo Fontana e tale Istituto tecnico statale industriale fu intitolato a Cipriano Facchinetti (1889-1952). Nato a Campobasso, deputato prima dell’avvento del fascismo e senatore dopo la guerra, padre costituente, presidente dell’aeroporto di Malpensa e grosso massone, appartenente al Grande Oriente d’Italia.

L’edificio,  inaugurato nel 1965, non era certo fatto per ispirare confidenza o fratellanza, con tutti quegli spigoli vivi. In effetti lo ricordo per tutto quello che feci fuori di lì, piuttosto che dentro lì, e ancor oggi mi fa tornare in mente i “falansteri” sognati dal Fourier e “1984” di George Orwell

Angelo Paratico

Un successo il convegno sul turismo ricettivo. Grande entusiasmo per il Ministro Santanchè

Un successo il convegno sul turismo ricettivo. Grande entusiasmo per il Ministro Santanchè

 

 

L’appuntamento tenutosi alla Gran Guardia promosso da Italy Discovery.

Notevole successo, sia come presenza di pubblico sia come partecipazione di relatori qualificati del settore, ha riscontrato il convegno internazionale ospitato  per due giorni alla Gran Guardia di Verona sul tema:  ” La campagna italiana: straordinaria risorsa per il turismo ricettivo”. Appuntamento promosso da Italy Discovery, introdotto dal responsabile del progetto “ Italy Discovery & Countryside” Roberto Perticone, che ha visto tra gli altri la presenza del Ministro del Turismo Daniela Santanchè la quale ha sottolineato come “ questo è uno dei segmenti del settore sul quale possiamo investire perché può darci grandi soddisfazioni, considerato che dobbiamo diversificare dalle destinazioni turistiche classiche a quelle appunto rurali che poi comprendono anche i piccoli borghi che in Italia sono 5.600 offrendo peraltro  il 90% delle eccellenze del settore enogastronomico”. Tra gli intervenuti l’assessore al turismo del Comune di Verona, Marta Ugolini e il sottosegretario all’Istruzione on. Paola Frassinetti, l’assessore regionale Elena Donazzan, l’on. Matteo Gelmetti, l’amministratore delegato di Enit Ivana Jelinic, il vice presidente della Camera di Commercio di Verona, Paolo Tosi, il presidente del gruppo giovani imprenditori di Confindustria Veneto Marco Dalla Bernardina, il ristoratore veronese e componente del gruppo di lavoro della Fisped onlus Antonio Leone e Leopoldo Ramponi per l’Associazione dei Ristoratori Veneto HoRe.Ca.

Un saluto è quindi giunto dal Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Ministro Urso e dal Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Tra le sessioni previste nell’ambito del convegno, anche quella delle associazioni Italiani nel Mondo a sostegno del progetto “ Italy Discovery” che hanno affrontato in particolare il tema dei percorsi territoriali di campagna quale risorsa inestimabile del turismo della radici. “ Il convegno ha ottenuto un grande successo in quanto è stato un felice incontro tra esperienze diverse tra le varie tipologie del mondo del turismo e le associazioni degli immigrati”, commenta il consigliere comunale di Verona di Fratelli d’Italia, Massimo Mariotti. Con l’obiettivo “di recuperare i valori culturali, artistici, architettonici ed anche ovviamente enogastronomici, il ritorno in patria di molti italiani che risiedono all’estero che potrebbero magari cogliere l’occasione per ristabilirsi nel nostro Paese”. Per Gianlugi Ferretti, membro del CGIE, “ di questi due giorni intensi tenutisi alla Gran Guardia ho apprezzato in maniera particolare la professionalità. Finalmente il turismo delle radici è stato affrontato da relatori di altissimo livello, ma questa è stata solo la prima tappa per cui nei prossimi appuntamenti si affronteranno nello specifico come poi concretizzare le idee che sono uscite dal convegno”.

Soddisfatto anche Luciano Corsi, presidente dell’associazione “Veronesi  nel Mondo”, auspicando che “ ogni Regione possa replicare  appuntamenti come quelli tenuti a Verona. E’ chiaro però che bisognerà lavorare anche per far conoscere località poco conosciute che finora non hanno avuto riscontri sotto il profilo mediatico e che invece meriterebbero maggior attenzione da parte dei turisti”.

Per Francesco Alfieri, rappresentante nel Liechtenstein  delle associazioni straniere presenti sul territorio, “Oggi  è emerso in maniera chiara che il turismo è una parte integrante dell’opera svolta dagli italiani nel mondo, perché, per un fattore  emozionale ma anche culturale e conoscitivo,  promuove all’estero l’interesse verso l’Italia deve essere un obiettivo primario. Io dico che dovrebbe anche sorgere  un interesse per  i corsi di lingua e cultura italiana, per  le nuove generazioni, perché, così facendo, sensibilizziamo gli oriundi nati  all’estero a scoprire la storia e le tradizioni della nostra Italia”.

Il sorgere del pensiero Politicamente Corretto

Il sorgere del pensiero Politicamente Corretto

 

A partire dagli anni 1990, è avvenuto un importante cambiamento all’interno delle democrazie occidentali industrializzate. Si tratta di un cambiamento che viene ora riconosciuto da molte persone, tante volte criticato, e spesso considerato divertente. Altrettante persone tendono a negare ciò che sta avvenendo o le conseguenze che comporta. Lo scrittore conservatore americano William Lind ha coerentemente riassunto il fenomeno con le seguenti parole:

“Viene chiamato politicamente corretto. Il nome è stato inventato quasi per scherzare, in un fumetto, e si tende ancora sottovalutare la gravità di questo fenomeno. Si tratta di una questione estremamente seria. È l’epidemia peggiore del nostro secolo, che ha causato la morte di decine di milioni di persone in Europa, in Russia, in Cina e in tutto il mondo. È l’epidemia dell’ideologia. Il politicamente corretto non fa ridere. Se osservata da un punto di vista critico o storico, si riesce a capire esattamente di cosa si tratta. Si tratta di marxismo culturale, di marxismo dell’economia applicato alla cultura. È un tentativo iniziato, non negli anni Sessanta, nell’era degli hippie e del movimento pacifista, ma durante la Prima Guerra Mondiale. Se consideriamo i principi fondamentali del politicamente corretto e quelli del marxismo classico, i parallelismi sono evidenti. Prima di tutto, entrambe le ideologie sono totalitarie. Questa caratteristica totalitaria del politicamente corretto è evidente nei contesti dei campus universitari, i quali al giorno d’oggi sono diventati sistemi nordcoreani mascherati, dove gli studenti o gli altri membri della facoltà si ritrovano ad affrontare problemi legali quando osano non rispettare i principi imposti dai gruppi di attiviste femministe, per i diritti delle persone omosessuali, delle persone di colore locali o con origini sudamericane o di altri gruppi elogiati attorno ai quali ruota il politicamente corretto. All’interno del sistema legale dell’università, si ritrovano ad affrontare accuse formali e punizioni”.

Sono venuto a conoscenza della questione del politicamente corretto completamente per caso. Come amico di elementi della sinistra, alla fine degli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘90, sono entrato in contatto con atteggiamenti esageratamente critici, così come atteggiamenti e azioni inquisitoriali e isterici che sono al giorno d’oggi eccessivamente diffusi tra i sostenitori del politicamente corretto e del cambiamento climatico antropico. Allora tendevo a sottovalutare certi avvenimenti, considerandoli semplici manifestazioni di un eccessivo entusiasmo da parte di persone che, altrimenti, avevano solamente delle buone intenzioni.

Nel corso del decennio successivo, mi sono reso conto che il politicamente corretto non era semplicemente una questione di atteggiamenti eccessivamente moraleggianti con una facciata progressista, ma il risultato di una tradizione antica all’interno della sinistra che esiste dai tempi della Rivoluzione francese. Il segno di riconoscimento del pensiero della sinistra è la sua insistenza sul concetto di uguaglianza universale tra le persone e la sacralità del progresso.

Questa è un’evidente tendenza tra queste persone verso una visione dualistica del mondo che considera il conflitto sociale e politico come uno scontro tra le forze di reazione e di progresso. La prima rappresenterebbe l’oscurità e il male, mentre la seconda la giustizia e l’onestà. Di conseguenza, i movimenti della sinistra spesso assumono un carattere religioso che rispecchia un’insistenza messianica o apocalittica che viene spesso associata al fondamentalismo. Come i crociati fondamentalisti sentono il bisogno di eliminare i peccati o le eresie del mondo, così le persone di sinistra sentono un bisogno simile di intraprendere una guerra santa contro una particolare situazione di apparente disuguaglianza. Alcuni esempi sono: razzismo, sessismo, omofobia, xenofobia, classismo, islamofobia, negazionismo del cambiamento climatico, transfobia, patriarcato, gerarchie, abilismo, specismo e discriminazioni dovute all’obesità e all’aspetto di una persona, così come qualunque altra cosiddetta offesa che porti a diseguaglianze. Nel frattempo, la lista di questo tipo di discriminazioni si sta allungando in modo sempre più irragionevole e inverosimile. Recentemente, è nata la moda di chiamare questo tipo di persone di sinistra, politicamente corrette ed eccessivamente entusiaste social justice warriors, ovvero “paladini della giustizia sociale”.

Tuttavia, questa denominazione è impropria, in quanto gli obiettivi di queste persone sono decisamente antisociali e non sono riconducibili ad alcun tipo di giustizia. Eppure il politicamente corretto è semplicemente una manifestazione della tendenza al totalitarismo politico della stessa tipologia che ha piagato il Novecento. Il politicamente corretto è una rappresentazione di una prospettiva ideologica che considera inaccettabile qualsiasi ostacolo alla corsa al potere in nome dell’eguaglianza. Ciò si può facilmente notare osservando il disprezzo da parte dei suoi sostenitori nei confronti dell’autonomia di una società civile, della separazione dei poteri, degli standard relativi al giusto processo, e delle libertà convenzionali di parola, religione, associazione, proprietà privata o di privacy.

 

 

Il progetto “1000 gru di Marica Fasoli”. Amo1999 srl lancia il progetto dell’artista veronese Marica Fasoli, una sfida artistica all’insegna della beneficenza

Il progetto “1000 gru di Marica Fasoli”. Amo1999 srl lancia il progetto dell’artista veronese Marica Fasoli, una sfida artistica all’insegna della beneficenza

Secondo una leggenda giapponese chi riuscirà a piegare mille gru, secondo la loro tecnica del Origami, vedrà realizzato un desiderio, quello dell’artista veronese non è solo un inno alla pace, ma una chiamata aperta al pubblico: infatti, una cospicua parte del ricavato delle vendite dei quadri sarà destinata infatti ai progetti sociali di Dynamo Camp.

Verona, 5 maggio 2023. Il 6 agosto 1945 un lampo di luce travolge la città giapponese di Hiroshima, poi la polvere nera copre ogni cosa, anche le speranze dei sopravvissuti. Tra loro c’era la piccola Sadako Sasaki che aveva appena 2 anni. La bambina cresce serena fino agli 11 anni quando uno svenimento porta alla luce il male che aveva intaccato il suo corpo, la leucemia, dai più chiamata “la malattia della bomba”.

La piccola Sadako però non si arrende e lotta, sostenuta anche da una leggenda giapponese. Si dice infatti che chi riesca a piegare 1000 gru di carta (senbazuru) e ad unirle in una ghirlanda vedrà realizzato un desiderio. Ma purtroppo la bambina non riesce nell’impresa e la morte la coglie quando aveva realizzato la 644esima gru.

Sadako da allora è diventata un simbolo di pace e per ricordare il suo coraggio il 5 maggio 1958, proprio nel giorno della festa dei bambini, è stata inaugurata nel Parco del Memoriale della Pace di Hiroshima una statua di nove metri che rappresenta Sadako: le sue braccia aperte reggono una gru d’oro e ogni anno giungono da tutto il mondo migliaia di gru piegate proprio in ricordo del suo gesto. Disposte intorno alla statua, sono diventate delle icone di pace per un mondo senza guerre.

Per unirsi a questo messaggio di speranza, l’artista veronese Marica Fasoli, in collaborazione con la società di marketing Amo1999 srl (www.amo1999.com) che ha ideato e promosso il lancio del progetto, si è imposta la sfida di realizzare il desiderio di Sadako, piegare 1000 gru che saranno poi aperte e colorate per diventare delle opere d’arte, numerate e firmate, che da oggi verranno vendute online (www.1000gru.it).

“Per la cultura orientale l’origami ha sempre avuto un forte significato simbolico, quello di rinascita, per questo ho voluto reinterpretarlo costruendo e decostruendo la gru per farla rinascere come opera d’arte, per rappresentare il senso di una ricerca continua che va oltre la forma e che assume un significato universale, in questo caso quello della pace”, spiega l’artista.

Alla fine del progetto Marica realizzerà la sua personale collana di mille gru, composta dai nomi di tutte le persone che hanno partecipato all’iniziativa, che sarà inviata in Giappone e apposta sulla statua di Sadako.

La forza di questo progetto sta anche nel fatto che parte del ricavato verrà donato alla Fondazione Dynamo Camp ETS (www.dynamocamp.org) che si occupa di bambini con patologie gravi o croniche e dei loro familiari. “A Dynamo Arte e fare Arte significa condivisione di emozioni, temi e obiettivi insiti nell’essere umano, attraverso un linguaggio accessibile e fruibile a tutti – afferma Sabrina Ventura, referente del progetto rete territoriale di Dynamo Camp -. Siamo molto grati di essere coinvolti come beneficiari in questo progetto che unisce l’Arte ad una finalità sociale e che, proprio attraverso lo spirito di gruppo, permette di raggiungere un obiettivo concreto e simbolico” – conclude Sabrina Ventura.

 

Marica Fasoli

Marica Fasoli nasce a Bussolengo, in provincia di Verona, nel 1977. Dopo aver conseguito il diploma di Maestra d’Arte presso il Liceo Artistico Statale di Verona, nel 1997 si specializza in Addetto alla Conservazione e Manutenzione dei manufatti artistici su legno e tela presso gli Istituti Santa Paola di Mantova. Nel 2006 ottiene anche la specializzazione in Anatomia Artistica presso l’Accademia “Cignaroli” di Verona dove è stata docente del corso libero di pittura iperrealista.

Dopo essersi dedicata per anni al restauro, dal 2006 intraprende un percorso che la porta a esprimere la sua espressività e ricerca artistica nell’ambito figurativo iperrealista, arrivando alla formulazione di due filoni espressivi: gli “Invisible Peolple” e i “3dipinti”. Dal 2015 si distacca dalla rappresentazione figurativa e didascalica della realtà per iniziare un processo di creazione/distruzione incentrato sulla costruzione manuale che vede il suo apice negli “Origami”.

Amo1999 srl

AMO1999 S.R.L. è una società multibrand di Verona che si occupa di produzioni televisive, editoria e servizi marketing per importanti multinazionali e per i propri brand. I suoi format e la sua comunicazione si fondano su principi etici e di trasparenza.

Dynamo Camp

Dynamo Camp sostiene il Diritto alla Felicità dei bambini con patologie gravi o croniche e dei loro famigliari, offrendo gratuitamente programmi di Terapia Ricreativa Dynamo®, che hanno obiettivo di divertimento ma anche e soprattutto di sostenere la fiducia in sé stessi, con benefici di lungo periodo sulla qualità di vita. Dal 2007 la Terapia Ricreativa Dynamo®️ ha raggiunto in modo completamente gratuito oltre 83.000 persone, accolte presso la struttura di Dynamo Camp – ubicata all’interno di un’oasi affiliata WWF di 1000 ettari in provincia di Pistoia – o con programmi condotti dallo Staff Dynamo nelle principali città del territorio italiano, presso strutture ospedaliere, associazioni patologia o di genitori e i Dynamo City Camp.

 

Amo1999 srl

 

Intervista a Frank J. Millich, autore del romanzo storico ZARA, edito da Gingko Edizioni di Verona

Intervista a Frank J. Millich, autore del romanzo storico ZARA, edito da Gingko Edizioni di Verona

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Essendo un nativo dell’antichissima città di Zara, (ribattezzata col nome di Zadar dai titini dopo la sua distruzione angloamericana), Frank J. Millich affonda le sue radici contemporanee nell’humus culturale italiano del dopoguerra. Strappato brutalmente dalla sua terra dalmata, egli frequenta l’ambiente internazionale, in particolare gli Stati Uniti e la Francia. Ne testimonia la sua prima opera letteraria: “Nandy, il ragazzo che venne dal freddo”, Gingko Editore, tradotta e pubblicata in Francia da Spinelle col titolo “Nad – L’Enfant de la Cité Perdue”. È seguita oggi dal suo secondo lavoro: “Zara – Il Complotto”, un romanzo biogra­fico dato alle stampe sempre da Gingko, ispirato dalle vicende storiche della prima metà del Ventesimo secolo. Contemporaneamente, l’Autore ha prestato la sua opera per 32 anni presso il Consiglio d’Europa, organizzazione politica pan-europea con sede a Strasburgo, svolgendo compiti di natura giuridica ed economica a favore del progresso sociale europeo. È sposato e padre di due ­figli nati in Francia.

 

Frank J. Millich, come è giunto alla scrittura ?

Avevo nove anni e non riuscivo ad emergere tra i ragazzini del mio rione: non riuscivo ad orinare più lontano degli altri, perdevo sempre ai giochi le mie biglie di vetro colorate, non possedevo la più bella collezione di capsule (noi le chiamavamo tollini) delle bottiglie di birra o di aranciata e non ero il più robusto e quindi il più rispettato tra di loro. Gli altri ragazzini erano sempre più bravi, più svelti, più furbi, più rispettati e temuti di me. “Hanno probabilmente un dono particolare”, mi dicevano gli adulti, “un dono che tu non possiedi”. La cosa mi rattristava. Finché un giorno si presentò nella mia classe un signore inviato dal Provveditorato, che ci lesse una storia commovente tratta dal libro “Cuore” di Edmondo de Amicis: “Il piccolo scrivano fiorentino”. Come tutti gli italiani sanno, era la storia di un bambino della mia età che, per aiutare la sua famiglia, di notte ricopiava di nascosto, con la penna, su delle buste gli indirizzi di decine e decine di destinatari imitando la calligrafia di suo padre che in quel modo aumentava il suo magro stipendio. Alla fine, quel signore ci distribuì un foglio di carta e ci chiese di scrivere ciò che ci aveva ispirato quella storia. Io avevo tante cose da dire, ma quell’unico foglio di carta fu subito riempito sulle due facciate, tanto che dovetti richiedere un altro, e presto un altro ancora. Non avevo ancora terminato di scrivere tutto quello che avevo in mente quando quel signore mi disse che ciò che avevo già scritto era più che sufficiente. Raccolse tutti fogli e se ne andò.

Qualche settimana dopo la nostra insegnante ci lesse un comunicato del Provveditorato secondo il quale tra tutte le scuole elementari di quella Provincia, ero io il vincitore del primo premio consistente in una bella pergamena con tanto di ghirigori dorati, un salvadanaio di metallo nichelato e un libretto di risparmio a mio nome contenente 300 Lire. A quell’epoca, erano già una bella sommetta per un bambino squattrinato quale io ero allora. In definitiva, quell’episodio ebbe il risultato di dimostrarmi che anch’io avevo un dono, quello della scrittura: sapevo tradurre in parole scritte le idee che mi frullavano nella testa.

Più tardi, al Liceo, ebbi modo di coltivare quel dono con delle letture degli autori più rinomati come Manzoni, Verga, Tomasi di Lampedusa, Moravia, oltre a quelli francesi, inglesi, americani, russi, tedeschi, che popolano la mia biblioteca personale.

Vinsi pure il “Concorso Veritas” indetto dalla Chiesa cattolica in tutte le scuole d’Italia. A dire il vero non avrei dovuto parteciparvi in quanto, avendo preso coscienza degli orrori inimmaginabili della Shoah, avevo perso per sempre la fede cristiana. Non poteva esistere un Dio che aveva permesso agli umani di commettere tali e tanti orrori senza reagire, senza intervenire; un Dio che permise a Hitler di sfuggire indenne all’attentato del 20 luglio 1944. La morte di quel mostro in quell’occasione avrebbe risparmiato la vita e indicibili sofferenze a centinaia di migliaia di esseri umani, di famiglie intere, di poveri bambini finiti nelle camere a gas, nei forni crematori e sotto i bombardamenti.

Quel Dio venerato come onnipresente, onnipotente, capace di schiacciare il demone del Male, e che manifestava una tale indifferenza di fronte a quegli eventi abominevoli era all’opposto di tutto ciò che le religioni ci avevano assennato dalla notte dei tempi. Divenni perciò irrimediabilmente e per sempre ateo. Volli comunque vincere quel concorso proprio perché consideravo la Chiesa come un’istituzione menzognera, per cui meritava di essere sfruttata da un giovane deluso di essere stato ingannato.

Volli, tra l’altro, aggiungere una J. al mio nome d’arte, in memoria di quanto il popolo ebraico aveva sofferto con l’Olocausto.

Potrebbe scrivere una sintesi del suo ultimo romanzo ?

Zara – Il Complotto contiene pagine aspre, eppure esaltanti, di vita vissuta intensamente nell’ambiente particolare di Zara, città di confine visceralmente vincolata alla civiltà latina. L’azione si svolge nel corso degli anni 30 e l’inizio degli anni 40. Marco, il giovane protagonista alto, attraente come un bronzo di Riace, ama con passione Irma, una ragazza-madre che vive da sola con la sua creatura nel suo esilio triestino. Ma è preso di mira e arrestato dal Regime fascista per la sua ostilità manifesta nei confronti delle angherie e dei soprusi messi in atto in particolare dal Capitano Terzi. Costui si ostina a voler provare con tutti i mezzi, compresa la più efferata tortura, l’esistenza di un vasto complotto ordito da Marco stesso in combutta con potenze nemiche, con lo scopo di rovesciare il governo mussoliniano. Di fronte alla minaccia del plotone di esecuzione che, come un’ombra sinistra plana sulle tetre giornate della sua cattività, il giovane antifascista cerca di guadagnare tempo, intuendo assurdamente che soltanto l’elemento temporale potrebbe giocare in suo favore. Ma il pensiero assillante di Irma, cinicamente imprigionata assieme ai loro due bimbi dallo spietato Capitano, non gli concede tregua.

La famiglia si salva effettivamente grazie al crollo del Fascismo, il 25 luglio del 1943. Ma, per vendicarsi dell’insuccesso del suo tentativo di incolpare Marco, il malvagio capitano ha già diffuso la truce menzogna secondo la quale il giovane avrebbe collaborato col Regime fascista per dare la caccia ai suoi amici partigiani comunisti, i quali ora lo arrestano e si preparano a fucilarlo senza un regolare processo. Marco riesce tuttavia a convincerli della propria innocenza e viene perciò accolto in seno all’esercito popolare di Tito. Ma la sua lunga permanenza tra di loro gli consente di aprire gli occhi sulle tragiche aberrazioni del Comunismo, negatore delle libertà più significative e determinanti per il viver civile. Profondamente deluso e disingannato egli non vede altra via d’uscita se non la fuga dalla Jugoslavia, inseguito dai sicari di Tito decisi, questa volta, a giustiziarlo sul posto, senza l’ombra di un regolare processo.

Come nascono le vicende che lei racconta? Quali le fonti d’ispirazione?

In primo luogo, naturalmente, la Storia, dai più semplici eventi locali ai grandi sconvolgimenti nazionali o planetari, come emergono nel mio ultimo romanzo, appunto. Poi, la vita di tutti i giorni con i suoi riflessi letterari, cinematografici e teatrali, ma anche la scienza con le sue continue scoperte e invenzioni. Insomma, il fermento costante della vita con i suoi aspetti ora positivi, come l’invenzione del cellulare, ora tragici, come l’uso che ne fa la società dell’illegalità, della delinquenza. Ad ogni progresso scientifico e sociale fa riscontro l’uso distorto che ne fanno i fuorilegge. Ma questo brulicare continuo non sfugge allo scrittore sensibile e attento che ne esplora i riflessi sul mondo reale nel quale deve vivere l’umanità nelle sue più svariate combinazioni. Il mondo intero è un gigantesco palcoscenico, diceva giustamente Shakespeare. Gli ingredienti delle vicende che vi si svolgono sono sempre gli stessi: amore/odio, egoismo/generosità, fedeltà/tradimento, onestà/disonestà, e poi ambizione, avidità, stoicismo, abnegazione, crudeltà, violenza, poesia, dolcezza. La gamma delle diverse forme di comportamento umano è infinita. La vita quotidiana è dunque un pozzo senza fondo nel quale trovare ciò che può servire a costruire dei personaggi “vivi” e delle storie di vita palpitanti, a volte grottesche, sinistre, altre volte sublimi. Penso a quanto si legge sui quotidiani e si vede sugli schermi televisivi ogni mattina all’ora della colazione, tra l’aroma del caffè e lo scricchiolio del coltello imburrato sulla fetta di pane tostato.

Come costruisce lei i suoi racconti? Quali sono i suoi metodi di lavoro?

Sostanzialmente i metodi per me sono due : il lavoro lineare, ossia il racconto che prosegue secondo l’ordine cronologico degli eventi narrati, e il metodo « per episodi » che consiste nel comporre le diverse scene come sorgono nella mente, e inserirle in seguito al loro posto nel cuore dell’opera narrata. Devo dire che questo secondo metodo richiede una maggiore attenzione per non cadere nell’anacronismo, ossia l’inserimento di certi aspetti della narrazione prima del momento nel quale devono apparire

Ha lei sviluppato certe attitudini nel contesto del suo lavoro? Ha bisogno del silenzio per lavorare? Della musica? Del computer?

Lavoro sempre e soltanto sul computer, col programma Word, e in un silenzio quasi assoluto. E’ così che ho sviluppato un modo di vita notturno e nell’ambiente rurale di un modesto villaggio di qualche migliaio di abitanti rispettosi della pace altrui. Il computer è lo strumento ideale al servizio dello scrittore per la facilità con la quale permette di correggere, sopprimere o aggiungere nuovi elementi senza dover riscrivere la pagina intera o aggiungere con la colla frasi intere o brani nuovi, come doveva fare il povero Marcel Proust che perse addirittura la vita in quel lavoro senza fine.

Che cosa rappresenta per lei la scrittura, una forma di svago o una necessità?

Direi entrambe le cose, ma con una preferenza per la necessità. Se fossi privato della possibilità di scrivere, non sopravvivrei a lungo. Penso in questo momento a Victor Klemperer, l’ebreo tedesco che, sotto il tallone nazista si vide privare progressivamente di tutto quanto può contribuire ad edificare un’esistenza, dal diritto di percorrere certe strade, a quello di possedere un’automobile, una radioricevente, il telefono e perfino una macchina da scrivere, che gli furono confiscati. Sopravvisse scrivendo con una penna il suo capolavoro: “LTI Lingua Tertii Imperii” in cui descrive quotidianamente, di nascosto, i neologismi creati dai teorici del Nazismo. Il tentativo di sopprimerlo negandogli la possibilità di scrivere fallì ed egli pubblicò il suo libro dopo la fine della guerra. Ho sempre presente la strenua lotta di quell’uomo per sopravvivere tramite la scrittura nelle condizioni allucinanti in cui era costretto a condurre la propria esistenza. Per lui, la scrittura era davvero una necessità vitale. Le condizioni in cui io scrivo non sono minimamente comparabili a quelle in cui viveva Victor Klemperer. Ci penso comunque quando qualche problema contingente mi fa perdere tempo prezioso che devo sottrarre alla scrittura. Oralmente sono più imbarazzato in quanto ho bisogno del tempo necessario per comporre razionalmente le mie frasi, analizzarle, eventualmente correggerle e adattarle alle circostanze nelle quali mi trovo a discutere. La tesi ha bisogno dell’antitesi per pervenire alla sintesi. L’improvvisazione permette raramente questa dialettica.

 

Oltre alla scrittura, si dedica ad altre attività?

Durante le vacanze scolastiche, assieme a mia moglie ci occupiamo dei nostri nipotini, della nostra grande casa e del giardino. Posseggo un’officina di bricolage ben fornita, ciò che mi obbliga ad occuparmi di qualche lavoretto che gli artigiani locali rifiutano. Ci sarebbe la possibilità di fare qualche viaggetto o qualche crociera, ma l’ondata di virus da un lato e la mia riluttanza a farmi inoculare il vaccino dall’altro, finiscono per ridurmi a rimanere confinato nella mia “reggia”.

Sta già pensando al suo prossimo libro?

Avendo appena terminato il romanzo su Zara, la mia città natale (regalata ai comunisti di Tito), ho deciso di concedermi un periodo di riposo e di riflessione prima di scegliere il genere di lavoro da affrontare dal prossimo autunno.

 

 

L’ottimo risultato della Mondadori è un segnale positivo per tutti gli editori italiani

L’ottimo risultato della Mondadori è un segnale positivo per tutti gli editori italiani

 

 

 

L’assemblea dei soci di Mondadori  ha approvato il bilancio dell’esercizio 2022, chiuso con un utile netto civilistico di 52,07 milioni di euro, e ha deliberato la distribuzione di un dividendo di 0,11 euro. La cedola sarà staccata lunedì 22 maggio 2023.

 

Dal loro bilancio:

Analizzando le vendite per canale si evidenzia:
• una ulteriore crescita dei ricavi delle librerie dirette (26,7% rispetto all’esercizio precedente) e delle librerie in franchising (4,3% rispetto all’esercizio precedente);
• il canale Online, dopo la crescita dei due anni precedenti, registra nel 2022 un calo di
fatturato in linea con il trend negativo dell’intero mercato e-commerce.

Per quanto riguarda le categorie merceologiche:
• il Book, core business del Gruppo Mondadori, è risultato la principale componente dei ricavi (oltre l’80% del totale del fatturato di prodotto), in crescita, a livello complessivo,
del 11,4% rispetto al 2021, trainato dalle ottime performance dei negozi fisici;
• il fatturato Extra Book ha mostrato un trend positivo (+13,1% rispetto all’esercizio
precedente), per l’effetto dell’azione di smaltimento di alcune categorie
merceologiche (nel primo semestre 2022) e grazie alla crescita del settore Impulse
(cartoleria, giocattolo e regalistica).

Margini operativi

Mondadori Retail ha registrato nel corso dell’anno una sensibile crescita del margine
operativo lordo rettificato al netto dei componenti non ordinari (EBITDA adjusted incl.
IFRS 16), attestatosi a 9,1 milioni di Euro (+4,0 milioni di Euro rispetto al corrispondente dato del 2021).
Le azioni strutturali introdotte negli ultimi anni hanno permesso una decisa inversione di tendenza della performance economica e finanziaria dell’’area come già evidenziato dai risultati dello scorso anno. Questo obiettivo è stato raggiunto grazie all’intensa attività di trasformazione dell’area nella propria integralità, al continuo rinnovamento e sviluppo della rete dei negozi fisici, nonché ad un’attenta gestione dei costi e a una profonda revisione di organizzazione e processi. A questo si è aggiunto un costante lavoro di innovazione di prodotto e di arricchimento dell’offerta editoriale, accompagnata da nuovi servizi, format di comunicazione per clienti e partner e dalla continua formazione del personale di sede e delle librerie.
Il margine operativo lordo (EBITDA incl. IFRS 16) si attesta ad Euro 8,2 milioni (+4,5 milioni di Euro rispetto al corrispondente dato del 2021) e include:

• oneri di ristrutturazione per Euro 0,3 milioni (Euro 0,9 milioni al 31 dicembre 2021);
• altri componenti non ordinari, tra cui i costi di chiusura negozi, per €0,6 milioni (€0,5 milioni al 31 dicembre 2021).

Il Risultato Operativo, pari a -0,9 milioni di Euro (inclusi costi di ristrutturazione,
accantonamento a fondi rischi e svalutazioni di asset), ha registrato a propria volta un sensibile miglioramento (+5,7 milioni di Euro rispetto all’esercizio precedente).
Il conto economico registra una perdita molto più contenuta rispetto agli ultimi esercizi,
chiudendo con un risultato netto di soli Euro 1,4 milioni, in miglioramento di +4,1 milioni rispetto alla perdita di Euro -5,5 milioni del 2021.