Intervista a Frank J. Millich, autore del romanzo storico ZARA, edito da Gingko Edizioni di Verona

Intervista a Frank J. Millich, autore del romanzo storico ZARA, edito da Gingko Edizioni di Verona

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Essendo un nativo dell’antichissima città di Zara, (ribattezzata col nome di Zadar dai titini dopo la sua distruzione angloamericana), Frank J. Millich affonda le sue radici contemporanee nell’humus culturale italiano del dopoguerra. Strappato brutalmente dalla sua terra dalmata, egli frequenta l’ambiente internazionale, in particolare gli Stati Uniti e la Francia. Ne testimonia la sua prima opera letteraria: “Nandy, il ragazzo che venne dal freddo”, Gingko Editore, tradotta e pubblicata in Francia da Spinelle col titolo “Nad – L’Enfant de la Cité Perdue”. È seguita oggi dal suo secondo lavoro: “Zara – Il Complotto”, un romanzo biogra­fico dato alle stampe sempre da Gingko, ispirato dalle vicende storiche della prima metà del Ventesimo secolo. Contemporaneamente, l’Autore ha prestato la sua opera per 32 anni presso il Consiglio d’Europa, organizzazione politica pan-europea con sede a Strasburgo, svolgendo compiti di natura giuridica ed economica a favore del progresso sociale europeo. È sposato e padre di due ­figli nati in Francia.

 

Frank J. Millich, come è giunto alla scrittura ?

Avevo nove anni e non riuscivo ad emergere tra i ragazzini del mio rione: non riuscivo ad orinare più lontano degli altri, perdevo sempre ai giochi le mie biglie di vetro colorate, non possedevo la più bella collezione di capsule (noi le chiamavamo tollini) delle bottiglie di birra o di aranciata e non ero il più robusto e quindi il più rispettato tra di loro. Gli altri ragazzini erano sempre più bravi, più svelti, più furbi, più rispettati e temuti di me. “Hanno probabilmente un dono particolare”, mi dicevano gli adulti, “un dono che tu non possiedi”. La cosa mi rattristava. Finché un giorno si presentò nella mia classe un signore inviato dal Provveditorato, che ci lesse una storia commovente tratta dal libro “Cuore” di Edmondo de Amicis: “Il piccolo scrivano fiorentino”. Come tutti gli italiani sanno, era la storia di un bambino della mia età che, per aiutare la sua famiglia, di notte ricopiava di nascosto, con la penna, su delle buste gli indirizzi di decine e decine di destinatari imitando la calligrafia di suo padre che in quel modo aumentava il suo magro stipendio. Alla fine, quel signore ci distribuì un foglio di carta e ci chiese di scrivere ciò che ci aveva ispirato quella storia. Io avevo tante cose da dire, ma quell’unico foglio di carta fu subito riempito sulle due facciate, tanto che dovetti richiedere un altro, e presto un altro ancora. Non avevo ancora terminato di scrivere tutto quello che avevo in mente quando quel signore mi disse che ciò che avevo già scritto era più che sufficiente. Raccolse tutti fogli e se ne andò.

Qualche settimana dopo la nostra insegnante ci lesse un comunicato del Provveditorato secondo il quale tra tutte le scuole elementari di quella Provincia, ero io il vincitore del primo premio consistente in una bella pergamena con tanto di ghirigori dorati, un salvadanaio di metallo nichelato e un libretto di risparmio a mio nome contenente 300 Lire. A quell’epoca, erano già una bella sommetta per un bambino squattrinato quale io ero allora. In definitiva, quell’episodio ebbe il risultato di dimostrarmi che anch’io avevo un dono, quello della scrittura: sapevo tradurre in parole scritte le idee che mi frullavano nella testa.

Più tardi, al Liceo, ebbi modo di coltivare quel dono con delle letture degli autori più rinomati come Manzoni, Verga, Tomasi di Lampedusa, Moravia, oltre a quelli francesi, inglesi, americani, russi, tedeschi, che popolano la mia biblioteca personale.

Vinsi pure il “Concorso Veritas” indetto dalla Chiesa cattolica in tutte le scuole d’Italia. A dire il vero non avrei dovuto parteciparvi in quanto, avendo preso coscienza degli orrori inimmaginabili della Shoah, avevo perso per sempre la fede cristiana. Non poteva esistere un Dio che aveva permesso agli umani di commettere tali e tanti orrori senza reagire, senza intervenire; un Dio che permise a Hitler di sfuggire indenne all’attentato del 20 luglio 1944. La morte di quel mostro in quell’occasione avrebbe risparmiato la vita e indicibili sofferenze a centinaia di migliaia di esseri umani, di famiglie intere, di poveri bambini finiti nelle camere a gas, nei forni crematori e sotto i bombardamenti.

Quel Dio venerato come onnipresente, onnipotente, capace di schiacciare il demone del Male, e che manifestava una tale indifferenza di fronte a quegli eventi abominevoli era all’opposto di tutto ciò che le religioni ci avevano assennato dalla notte dei tempi. Divenni perciò irrimediabilmente e per sempre ateo. Volli comunque vincere quel concorso proprio perché consideravo la Chiesa come un’istituzione menzognera, per cui meritava di essere sfruttata da un giovane deluso di essere stato ingannato.

Volli, tra l’altro, aggiungere una J. al mio nome d’arte, in memoria di quanto il popolo ebraico aveva sofferto con l’Olocausto.

Potrebbe scrivere una sintesi del suo ultimo romanzo ?

Zara – Il Complotto contiene pagine aspre, eppure esaltanti, di vita vissuta intensamente nell’ambiente particolare di Zara, città di confine visceralmente vincolata alla civiltà latina. L’azione si svolge nel corso degli anni 30 e l’inizio degli anni 40. Marco, il giovane protagonista alto, attraente come un bronzo di Riace, ama con passione Irma, una ragazza-madre che vive da sola con la sua creatura nel suo esilio triestino. Ma è preso di mira e arrestato dal Regime fascista per la sua ostilità manifesta nei confronti delle angherie e dei soprusi messi in atto in particolare dal Capitano Terzi. Costui si ostina a voler provare con tutti i mezzi, compresa la più efferata tortura, l’esistenza di un vasto complotto ordito da Marco stesso in combutta con potenze nemiche, con lo scopo di rovesciare il governo mussoliniano. Di fronte alla minaccia del plotone di esecuzione che, come un’ombra sinistra plana sulle tetre giornate della sua cattività, il giovane antifascista cerca di guadagnare tempo, intuendo assurdamente che soltanto l’elemento temporale potrebbe giocare in suo favore. Ma il pensiero assillante di Irma, cinicamente imprigionata assieme ai loro due bimbi dallo spietato Capitano, non gli concede tregua.

La famiglia si salva effettivamente grazie al crollo del Fascismo, il 25 luglio del 1943. Ma, per vendicarsi dell’insuccesso del suo tentativo di incolpare Marco, il malvagio capitano ha già diffuso la truce menzogna secondo la quale il giovane avrebbe collaborato col Regime fascista per dare la caccia ai suoi amici partigiani comunisti, i quali ora lo arrestano e si preparano a fucilarlo senza un regolare processo. Marco riesce tuttavia a convincerli della propria innocenza e viene perciò accolto in seno all’esercito popolare di Tito. Ma la sua lunga permanenza tra di loro gli consente di aprire gli occhi sulle tragiche aberrazioni del Comunismo, negatore delle libertà più significative e determinanti per il viver civile. Profondamente deluso e disingannato egli non vede altra via d’uscita se non la fuga dalla Jugoslavia, inseguito dai sicari di Tito decisi, questa volta, a giustiziarlo sul posto, senza l’ombra di un regolare processo.

Come nascono le vicende che lei racconta? Quali le fonti d’ispirazione?

In primo luogo, naturalmente, la Storia, dai più semplici eventi locali ai grandi sconvolgimenti nazionali o planetari, come emergono nel mio ultimo romanzo, appunto. Poi, la vita di tutti i giorni con i suoi riflessi letterari, cinematografici e teatrali, ma anche la scienza con le sue continue scoperte e invenzioni. Insomma, il fermento costante della vita con i suoi aspetti ora positivi, come l’invenzione del cellulare, ora tragici, come l’uso che ne fa la società dell’illegalità, della delinquenza. Ad ogni progresso scientifico e sociale fa riscontro l’uso distorto che ne fanno i fuorilegge. Ma questo brulicare continuo non sfugge allo scrittore sensibile e attento che ne esplora i riflessi sul mondo reale nel quale deve vivere l’umanità nelle sue più svariate combinazioni. Il mondo intero è un gigantesco palcoscenico, diceva giustamente Shakespeare. Gli ingredienti delle vicende che vi si svolgono sono sempre gli stessi: amore/odio, egoismo/generosità, fedeltà/tradimento, onestà/disonestà, e poi ambizione, avidità, stoicismo, abnegazione, crudeltà, violenza, poesia, dolcezza. La gamma delle diverse forme di comportamento umano è infinita. La vita quotidiana è dunque un pozzo senza fondo nel quale trovare ciò che può servire a costruire dei personaggi “vivi” e delle storie di vita palpitanti, a volte grottesche, sinistre, altre volte sublimi. Penso a quanto si legge sui quotidiani e si vede sugli schermi televisivi ogni mattina all’ora della colazione, tra l’aroma del caffè e lo scricchiolio del coltello imburrato sulla fetta di pane tostato.

Come costruisce lei i suoi racconti? Quali sono i suoi metodi di lavoro?

Sostanzialmente i metodi per me sono due : il lavoro lineare, ossia il racconto che prosegue secondo l’ordine cronologico degli eventi narrati, e il metodo « per episodi » che consiste nel comporre le diverse scene come sorgono nella mente, e inserirle in seguito al loro posto nel cuore dell’opera narrata. Devo dire che questo secondo metodo richiede una maggiore attenzione per non cadere nell’anacronismo, ossia l’inserimento di certi aspetti della narrazione prima del momento nel quale devono apparire

Ha lei sviluppato certe attitudini nel contesto del suo lavoro? Ha bisogno del silenzio per lavorare? Della musica? Del computer?

Lavoro sempre e soltanto sul computer, col programma Word, e in un silenzio quasi assoluto. E’ così che ho sviluppato un modo di vita notturno e nell’ambiente rurale di un modesto villaggio di qualche migliaio di abitanti rispettosi della pace altrui. Il computer è lo strumento ideale al servizio dello scrittore per la facilità con la quale permette di correggere, sopprimere o aggiungere nuovi elementi senza dover riscrivere la pagina intera o aggiungere con la colla frasi intere o brani nuovi, come doveva fare il povero Marcel Proust che perse addirittura la vita in quel lavoro senza fine.

Che cosa rappresenta per lei la scrittura, una forma di svago o una necessità?

Direi entrambe le cose, ma con una preferenza per la necessità. Se fossi privato della possibilità di scrivere, non sopravvivrei a lungo. Penso in questo momento a Victor Klemperer, l’ebreo tedesco che, sotto il tallone nazista si vide privare progressivamente di tutto quanto può contribuire ad edificare un’esistenza, dal diritto di percorrere certe strade, a quello di possedere un’automobile, una radioricevente, il telefono e perfino una macchina da scrivere, che gli furono confiscati. Sopravvisse scrivendo con una penna il suo capolavoro: “LTI Lingua Tertii Imperii” in cui descrive quotidianamente, di nascosto, i neologismi creati dai teorici del Nazismo. Il tentativo di sopprimerlo negandogli la possibilità di scrivere fallì ed egli pubblicò il suo libro dopo la fine della guerra. Ho sempre presente la strenua lotta di quell’uomo per sopravvivere tramite la scrittura nelle condizioni allucinanti in cui era costretto a condurre la propria esistenza. Per lui, la scrittura era davvero una necessità vitale. Le condizioni in cui io scrivo non sono minimamente comparabili a quelle in cui viveva Victor Klemperer. Ci penso comunque quando qualche problema contingente mi fa perdere tempo prezioso che devo sottrarre alla scrittura. Oralmente sono più imbarazzato in quanto ho bisogno del tempo necessario per comporre razionalmente le mie frasi, analizzarle, eventualmente correggerle e adattarle alle circostanze nelle quali mi trovo a discutere. La tesi ha bisogno dell’antitesi per pervenire alla sintesi. L’improvvisazione permette raramente questa dialettica.

 

Oltre alla scrittura, si dedica ad altre attività?

Durante le vacanze scolastiche, assieme a mia moglie ci occupiamo dei nostri nipotini, della nostra grande casa e del giardino. Posseggo un’officina di bricolage ben fornita, ciò che mi obbliga ad occuparmi di qualche lavoretto che gli artigiani locali rifiutano. Ci sarebbe la possibilità di fare qualche viaggetto o qualche crociera, ma l’ondata di virus da un lato e la mia riluttanza a farmi inoculare il vaccino dall’altro, finiscono per ridurmi a rimanere confinato nella mia “reggia”.

Sta già pensando al suo prossimo libro?

Avendo appena terminato il romanzo su Zara, la mia città natale (regalata ai comunisti di Tito), ho deciso di concedermi un periodo di riposo e di riflessione prima di scegliere il genere di lavoro da affrontare dal prossimo autunno.

 

 

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