Riportiamo qui il capitolo relativo ad Aldo Moro, contenuto nel libro “Camerata dove Sei?” pubblicato anonimamente a Roma nei primi anni Settanta e ripubblicato nel 2020 da Gingko Edizioni di Verona, con il titolo di Il “Paese dei Voltaggabana”.
La prima citazione ufficiale dell’attività fascista di Aldo Moro risale al 14 aprile del 1938, allorché, in una cronaca dei « Littoriali della Cultura e dell’Arte », qualcuno scrisse: « Le osservazioni più interessanti si sono avute, sempre nel senso universale del fascismo di fronte alla storia: e l’universalità della dottrina fascista come principio di dominio storico è stata posta in luce originariamente da Aldo Moro, di Bari ».
Ebbe inizio così una luminosa carriera, che doveva portare il Nostro alla cattedra universitaria. E sempre all’insegna della più rigorosa ortodossia fascista.
Alla vigilia della caduta di Mussolini il professor Aldo Moro raccolse le sue lezioni universitarie dell’anno 1942-’43 in un volume dal titolo: «Lo Stato». Le lezioni cominciavano con la ricerca di una «ideale sintesi dell’autorità con la libertà»: argomento che i dottrinari del fascismo per vent’anni avevano tenuto sul tappeto per sottrarre lo Stato mussoliniano al trabocchetto di Hobbes.
Se n’era autorevolmente interessato anche il Fanfani, in un libro sul Significato del corporativismo, pubblicato e ripubblicato dal 1936 al 1941, allo scopo di ribadirne i concetti nella mente dei buoni scolari del Littorio.
Quest’ideale sintesi, per Moro stava al centro della «evoluzione dallo Stato liberale allo Stato bolscevico»; non diceva che coincide col fascismo, ma altra ipotesi politica nel 1943 non si dava. Egli infatti respingeva tanto gli eccessi e gli squilibri del liberalismo, quanto la barriera della collettività che livella «in una mortificante eguaglianza la vera libertà».
Il professore Moro passava quindi a osservare che «lo Stato è nulla se non è inteso esso stesso come espressione di eticità». Ed è significativo che il tenace Aldo insistesse sino allo scorcio del 1943, in quei concetti sullo «Stato etico» che avevano irritato le più alte gerarchie della Chiesa quando Mussolini aveva osato esporli nello storico discorso del 1929 sui Patti Lateranensi. Ma più interessante ancora è trovare citato, a pagina 59 del dottissimo corso di lezioni, il filosofo fascista, Giorgio Del Vecchio; per suffragare la tesi di uno Stato inteso come «la società particolare» che soltanto in esso e per esso realizza « l’efficacia massima della vocazione sociale verso l’unità»: lo Stato, per colui che in nome del centrosinistra l’avrebbe poi distrutto nel 1943 era, in definitiva, l’unico e insostituibile e storico aggregato che assicurava ai popoli il compimento della spinta all’unità senza la quale non esiste vita civile.
Naturalmente non era possibile dimenticare il discorso all’Augusto di Mussolini: «Noi oggi vogliamo identificare la Nazione con lo Stato». E Moro: «Lo Stato, nella sua più tipica particolarità, si pone come Nazione»; e ancora: «Lo Stato nazionale è lo Stato nella sua concreta storicità».
Le impostazioni combaciano. Moro era nel solco della Rivoluzione. C’è di più: lo Stato, secondo un’altra nota intuizione di Mussolini, è un ente metagiuridico, cioè non nasce dal diritto, anzi si pone sopra di esso.
Ed ecco Moro: «Non è la Nazione che crea lo Stato, perché la Nazione è sempre Stato, anche se sembri sfornita di quelle caratteristiche di sovranità che dello Stato sono proprie»; ma essa finirà col conquistarle, e col realizzarsi in esse, così facendosi Stato, soltanto che abbia «coscienza e volontà di unità»: che abbia cioè a disposizione non strumenti giuridici, ma quella «coesiva volontà di potenza», che la democrazia rimprovera al fascismo perché non la intende lecita creatrice dello Stato. Moro, nel 1943, fascisticamente, pensava invece di sì.
Ma il capo antifascista, antitotalitario, antirazzista della DC non si fermava qui. A pagina 61 del corso egli prospettava «gli elementi costitutivi da cui la Nazione risulta». E avvertiva che essi possono, a volte, mancare in parte, ma sempre sostituendosi la minore efficacia di qualcuno con il maggiore vigore degli altri. Siffatti elementi sono: «La razza, la cultura, la lingua, la religione, la tradizione, le aspirazioni storiche».
La razza, per prima dunque; e al quarto posto la religione. E che cosa è la razza? Moro spiegava: «La razza è l’elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato».
Il discorso di Moro già nel 1943 era, come sempre, contorto e farraginoso. Ma si resta di stucco appena si comprende che, a suo parere, e almeno sino a quando il fascismo tirò l’ultimo respiro, l’elemento razziale dell’uomo condizionava l’aspirazione della società a diventare Stato.
Proseguendo nella lettura del testo delle lezioni morotee, leggeri brividi totalitari si avvertono a pagina 141, allorché, «nell’ordine etico-giuridico dello Stato», è concluso ed esaurito «un compiuto ordine etico del tutto», il cui contenuto non è che «totale realizzazione della dignità umana nella necessaria sua esperienza sociale».
Anche qui, si comincia con Moro e si finisce con Mussolini, o viceversa, con quel Mussolini che affermava che «lo Stato è uno, è una monade inscindibile», onde «tutto è nello Stato, e nulla è fuori dello Stato».
Non siamo proprio all’identità del sistema, si capisce. Ma siamo sulla buona strada. Se la bomba atomica fosse stata lanciata nel 1943 da un velivolo nazifascista, le premesse filosofiche per l’ulteriore e più deciso suffragio moroteo alle dottrine totalitarie dello Stato erano già poste.
Poi, come tutti sanno, le cose andarono male; ma Aldo Moro poté dire serenamente di aver fatto l’impossibile per convincere i giovani, dall’alto della sua cattedra, ad andare a uccidere, e farsi uccidere, in nome del fascismo. Infatti, nel 1943 la guerra, per Moro, era una «tipica realizzazione di giustizia», comprensibile nella sua ineluttabile storicità non soltanto allorché viene dichiarata «per reagire all’arbitrario inadempimento di un trattato», ma anche quando «si pone come reazione alla minaccia o alla lesione di supremi interessi dei quali non sia stata predisposta in termini espliciti la tutela, come violazione cioè di quella etica dignità degli Stati che non è meno valida né meno degna di rispetto se
pur non abbia trovato uno storico riconoscimento».
La spiegazione, evidentemente non riguarda soltanto guerre come quella etiopica, provocata dall’offesa di Ual-Ual, o come quella del 10 giugno 1940, legittimata dalle provocazioni anglo-francesi e dall’accerchiamento delle potenze dell’Asse da parte delle Grandi Democrazie: Moro sosteneva la validità della guerra anche quando fosse la «dignità» dello Stato tedesco a essere ingiuriata e mortificata dal rifiuto di Danzica.
E se, nelle pagine successive, la vocazione guerrafondaia del Moro si mimetizzava con un po’ di umanitarismo, ogni tanto rifugiandosi nel limbo di una perplessità crepuscolare, subito dopo egli riprendeva animo, tanto che, dopo le «terribili esperienze» lacrimate a pagina 274, riconferiva alla guerra patenti di legittimità in virtù della «giusta causa che con essa si serve».
L’onorevole Moro scrutava a questo punto, tra le tenebre dell’avvenire, a proposito della conclusione della guerra. Quando essa non è sancita da un trattato di pace che esprima solidarietà tra vinti e vincitori, ma da un ingiusto Diktat («il quale del trattato ha solo la forma esteriore»), allora, diceva, «la guerra non è con esso conclusa» (pagina 276), cioè la guerra non finisce, la guerra continua, anche se le armi sono per forza riposte dal popolo vinto.
Lungimirante adesione, questa, alle polemiche «neofasciste» dell’ultimo dopoguerra contro i governi ciellenisti che avevano accettato e applaudito il Diktat degli Alleati, riuscendo persino a ritenersi vincitori.
L’epilogo del libro ha uno splendore di profezia: «In definitiva l’anima più profonda della guerra, il suo significato vero, il suo valore, sono in questo suo immancabile protendersi verso l’armonia dei popoli che essa, nella forma provvisoria della lotta, dà opera a costruire. La sua verità non è nella rottura dell’unità che essa implica momentaneamente, ma proprio nell’unità cui essa serve con il terribile strumento della lotta. Per questo la guerra può essere grandissima e umanissima cosa; per il suo immancabile anelito verso l’unità e la giustizia, per il suo accettare ogni prova, e quella suprema del sangue, perché la giustizia sia, talché proprio nella guerra della verità universale si afferma il supremo valore, se proprio per realizzarla gli Stati, e cioè gli uomini che sono gli Stati, accettano tutte le prove e tutti i dolori. Questa attesa di una rivelazione della giustizia, che si paghi al prezzo del supremo dolore, che è in ognuno dei belligeranti, se è vero che nessuno possiede intera la verità, ma questa va sorgendo dal sacrificio di tutti, dall’amore di verità con cui tutti abbiamo combattuto, dall’esito del gioco delle libere forze, sì, ma soprattutto dal consenso dato alla verità così rivelatasi, dà grandezza veramente umana alla vicenda della guerra».
Così scrivendo Aldo Moro seguiva, ancora una volta, la scia del Capo con attenta perizia, anche se non citava la fonte. Aveva detto, infatti, Mussolini: «Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla». E, ancora, come Moro: «La storia ci dice che la guerra è il fenomeno che accompagna lo sviluppo dell’umanità. Forse è il destino tragico che pesa sull’uomo. La guerra sta all’uomo come la maternità alla donna. Perciò Proudhon diceva che la guerra è di origine divina, ed Eraclito, il malinconico di Efeso, trovava la guerra all’origine di tutte le cose».
Queste convergenze esaltatrici dei conflitti bellici tra Mussolini ed Aldo Moro, oggi sono, naturalmente, dimenticate. Così come sono dimenticati i giovani che, dopo avere ascoltato le lezioni di Moro, andarono al fronte e caddero combattendo, mentre il loro professore restava a casa, a prepararsi per il nuovo destino antifascista.
By gaetano.zanotto@alice.it
Lo devo rileggere è importante l’ argomento che riguarda il prof. Aldo Moro
Grazie Angelo Paratico mi hai fatto piacere infinitamente grande gaetano.zanotto@alice.it