I mongoli e la fine del Medioevo

I mongoli e la fine del Medioevo

La morte di Gengis Khan (1162-1227) non fermò l’avanzata mongola. Nel costruire il più vasto impero del mondo si muovevano con studiata ferocia, non solo seguendo la loro sete di bottino ma restando fermamente convinti di dover compiere una missione divina. Erano animisti e adoravano Tengri, la dea dell’eterno cielo blu. Più avanti, in parte, si convertirono al nestorianesimo, anche perché Yesu in mongolo vuol dire 9, il loro numero fortunato.

Le loro tecniche belliche avevano raggiunto la perfezione, e prima dell’arrivo delle armi da fuoco, si potevano dire invincibili. I cavalieri mongoli non furono mai più di centomila, anche se il loro termine per campo, urdu o orda, indica nella fantasia popolare milioni di armati.

I loro archi riflessi (con le punte in avanti in stato di riposo) erano straordinari dal punto di vista tecnologico, riuscendo a scagliare una freccia a seicento metri di distanza, contro i duecento metri massimi degli archi europei. Venivano addestrati sin da bambini a scoccarle da cavallo, mantenendo la cadenza di una ogni quindici secondi e riuscendo a rilasciarle quando l’animale è al galoppo, sollevato sulle quattro gambe, al massimo della sua stabilità aerea.

La loro superiorità bellica era dovuta alla mente straordinaria di Gengis Khan, una sorta di Leonardo da Vinci mongolo, un uomo che evidentemente s’era destato quando tutti gli altri dormivano. Pur essendo analfabeta, essendo di mente aperta, sapeva cogliere concetti complessi e adattarli ai propri fini. Non disdegnava di andare a discutere le proprie strategie con i suoi più umili cavalieri e aveva adottato nuove tecniche belliche rubate ai nemici.

 

Non nutriva pregiudizi razziali o religiosi, e fu lui a inventare il concetto di concedere pieni poteri decisionali ai propri generali, ciò che i tedeschi chiamano “auftragstaktik” e pure la tanto celebrata “blitzkrieg” caratterizzata da repentini attacchi, è un suo contributo. Non per nulla i nazisti furono suoi ammiratori, ma non riuscirono ad afferrare la sua essenza, il suo spirito ecumenico, ma ne studiarono solo le tattiche e la sua studiata ferocia. I mongoli crearono anche un dipartimento di disinformazione e di propaganda, in stile sovietico, per far credere ai nemici che erano più numerosi e terribili di quanto lo fossero in realtà. Gengis capì prima degli altri che il panico è l’arma più forte di cui dispone un esercito.

Promosse la fondazione di scuole e industrie e lo storico inglese Edward Gibbon scrisse che con la Pax Mongolica tutto il mondo conobbe un’epoca di grande progresso. Si diceva che una donna con in testa un cesto colmo di monete d’oro, potesse tranquillamente traversare le loro terre. Piantarono limoni e carote in Corea, insegnarono ai turchi ad annodare tappeti e ai tedeschi a preparare i crauti. Usarono cartamoneta fuori dalla Cina, per poter muovere più agevolmente tutto l’argento e l’oro che razziarono. Il grido hurra’! che ancora usiamo, è mongolo.

Senza aver davvero mire di conquista sull’Europa, raggiunsero Vienna, Budapest e Venezia. Avrebbero potuto occuparci facilmente con poche migliaia di cavalieri – non usavano mai fanteria – se lo avessero voluto, ma ci salvò la morte di Ogodei Khan (avvenuta l’11 dicembre 1241), terzo figlio di Gengis e la loro necessità di concentrarsi sulla conquista della Cina, molto più ricca dell’Europa occidentale.

Dopo aver messo a ferro e fuoco la Russia, il vecchio generale mongolo Subutai, nel marzo del 1241, entrò in Europa alla testa di una colonna di quarantamila cavalieri, avendo ricevuto la consegna di avanzare e saggiare la resistenza di quelle genti. Si divisero in due colonne, una andò verso la Germania, guidata da Baidar e Baidu, nipoti di Ogodei Khan e l’altra discese in Ungheria. Impiegarono la loro usuale tattica di incendiare i villaggi, per spingere avanti i contadini terrorizzati, a cercar rifugio nelle città, esaurendo le loro provviste e diffondendo il panico.

Il tedesco Enrico II of Silesia dispiegò il suo esercito, composto da trentamila fanti, tedeschi e polacchi e una formazione di nobili cavalieri teutoni, armati pesantemente, e attesero i misteriosi invasori a Leignitz.

Era il 9 aprile 1241.

 

I cavalieri teutoni partirono all’attacco ma furono respinti da sciami di frecce. Ci provarono una seconda volta e i mongoli voltarono i cavalli e fuggirono. I teutoni li inseguirono ma dopo alcuni chilometri, i mongoli trovarono i propri cavalli freschi, che montarono abbandonando quelli stanchi e, voltandosi, li accerchiarono. Questa era la loro strategia preferita, che attuavano alzando e abbassando delle bandiere e che Marco Polo descrisse nel Milione.

 

Quel giorno massacrarono il fiore della nobiltà polacca e tedesca. In pochi scamparono, lasciati andare per diffondere il terrore. Poi cambiarono direzione, muovendosi per andare incontro ai propri compagni in Ungheria. Alcuni storici credono ancora che il sacrificio di Enrico II, caduto sul campo, abbia salvato l’Europa, ma in realtà non fu così.

Nel frattempo la colonna guidata da Batu e Subutai si trovava già prossima a Pest e gli ungheresi andarono loro incontro, guidati da re Bela IV, con un esercito imponente per l’epoca: settantamila uomini e che comprendeva anche francesi, austriaci, serbi, tedeschi e italiani. I mongoli arretrarono per qualche giorno, fin quando non trovarono un terreno che giudicarono favorevole. Gli ungheresi s’accamparono a Mohi, sulla riva del fiume Sajò e fortificarono il proprio campo, con il nemico posto sull’altra sponda.

Subutai, di notte, trovò un punto più a sud, dove il corso d’acqua era guadabile. Lo passò e, all’alba del 11 aprile 1241, alle sette di mattina, piombando sugli ancora assonnati ungheresi. I mongoli, per snidarli dalle palizzate, usarono anche delle catapulte che lanciavano dei barili contenenti polvere da sparo: una tecnica cinese mai vista prima, come anche l’uso di razzi.

 

Quello fu il primo attacco d’artiglieria mai visto in Europa. Terrorizzati dalle esplosioni gli ungheresi si precipitarono fuori dai campi, ma i mongoli avevano preparato una sorta di grande “corral” come fanno i cow-boy con le vacche, illudendoli che la via della ritirata verso Pest fosse libera. Una volta infilatisi fra le palizzate, questi venivano colpiti con frecce o finiti a colpi di lancia. Ne massacrarono circa quarantamila quel giorno.

Nessuno sapeva chi fossero quei misteriosi cavalieri usciti dalle steppe asiatiche, che mandavano un puzzo bestiale, non lavandosi mai nella loro vita, dalle gambe storte, dal viso incartapecorito e cagnesco, che parlavano una lingua dai suoni gutturali. Sembravano tutti dei mostri invincibili, arrivati da un altro pianeta o usciti dall’inferno, infatti si dicevano tartari e questo confermò l’origine infernale, dal latino “tartarus”.

Entrarono a Pest e nella piazza della città allinearono 300 giovani vergini offerte dalle più nobili famiglie ungheresi come ostaggi, ragazzine dai 14 ai diciotto anni. Le decapitarono tutte sotto agli occhi esterrefatti del popolo. Quello fu il loro biglietto da visita, fatto per dissuadere chiunque a ribellarsi.

Il panico corse sul nostro continente, con i predicatori nelle chiese che li scambiarono per l’avanguardia dei cavalieri dell’Apocalisse e si misero a morte gli ebrei, accusati di averli attirati.

Quel giorno finì il Medioevo in Europa, con il concetto di superiorità dell’ordine cavalleresco, con l’idea della superiorità dell’Europa cristiana sul resto del mondo e iniziò la nostra epoca, feroce, veloce e aperta.

Articolo tratto dal blog
del Corriere della sera
Di Dino Messina

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