Il libro di Michael Prawdin che ebbe una terribile influenza sulle strategie naziste

Il libro di Michael Prawdin che ebbe una terribile influenza sulle strategie naziste

Nel mio romanzo storico “Una Feroce Compassione” accenno a un testo sulla vita di Gengis Khan che era stato apprezzato da Heinrich Himmler e dal suo capo Adolf Hitler, un accanito lettore, al punto di obbligare ciascuno degli ufficiali delle SS ad averne una copia.

Ignoravo che fosse stato tradotto in Italiano, nel 1939 ma ne ho pescato una copia al mercatino di San Zeno, domenica scorsa.

Pochi sanno che questo libro dedicato all’impero mongolo, opera di Michael Prawdin, pseudonimo di Michael Charol (1894 – 1970), uno scrittore russo-tedesco che  giunse in Germania  dopo la Rivoluzione Russa, abbia avuto tanta influenza sulle spietate strategie, altrimenti inspiegabili, utilizzate dai nazisti.

Studiò in Germania e scrisse in tedesco, terminando la sua esistenza negli USA.  Prawdin si fece una reputazione internazionale con due libri su Gengis Khan che influirono sulla feroce condotta della guerra nazista, durante la Seconda guerra mondiale, anche se non è del tutto accurato nella sua narrazione.

Tale libro è ancora in  stampa in tutto il mondo, risulta molto scorrevole e leggibile. Leggendolo, la lezione che se ne trae è che deve aver convinto i nazisti che il terrore sia l’arma più potente, e che per vincere serve alta mobilità combinata con strategie fatte per stupire e sorprendere. Le città che si sottomettevano ai mongoli venivano risparmiate, quelle che tentavano una resistenza venivano distrutte e gli abitanti uccisi. Per esempio gli abitanti di Bagdad ancor oggi ricordano il fato toccato alla loro città e al massacro di tutti i suoi abitanti, più di un milione e mezzo, incluse donne e bambini.

Nessuno prima dei mongoli aveva attuato queste strategie, sistematizzandole e che permisero loro di conquistare praticamente tutto il mondo conosciuto con un esercito composto esclusivamente da cavalieri e in un esiguo numero, che non superò mai i 150.000 cavalli. Erano divisi in varie unità indipendenti note come “tumen” composte da diecimila cavalieri, un po’ come le legioni romane. Bastarono 40.000 cavalieri per distruggere in rapida successione eserciti russi, polacchi, tedeschi e ungheresi e, una volta entrati a Budapest, chiesero che gli fossero consegnate 150 giovani vergini della nobiltà locale. Di fronte a tutta la cittadinanza le decapitarono, senza motivo. Questo era il loro messaggio e il loro biglietto da visita. Si trattennero per qualche mese e poi girarono i cavalli e tornarono in Mongolia, invece di conquistare Parigi, Roma e Berlino, perché pensando che non ne valesse la pena, e che era meglio per loro occuparsi della Cina.

Leggendo le pagine di questo libro pare di vedere le divisioni panzer correre per le pianure ucraine, con gli stuka che gli spianano la strada.

 

 

 

 

 

I mongoli e la fine del Medioevo

I mongoli e la fine del Medioevo

La morte di Gengis Khan (1162-1227) non fermò l’avanzata mongola. Nel costruire il più vasto impero del mondo si muovevano con studiata ferocia, non solo seguendo la loro sete di bottino ma restando fermamente convinti di dover compiere una missione divina. Erano animisti e adoravano Tengri, la dea dell’eterno cielo blu. Più avanti, in parte, si convertirono al nestorianesimo, anche perché Yesu in mongolo vuol dire 9, il loro numero fortunato.

Le loro tecniche belliche avevano raggiunto la perfezione, e prima dell’arrivo delle armi da fuoco, si potevano dire invincibili. I cavalieri mongoli non furono mai più di centomila, anche se il loro termine per campo, urdu o orda, indica nella fantasia popolare milioni di armati.

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