Un tempo i milanesi boicottarono il fumo per mostrare agli occupanti austriaci che non accettavano i loro soprusi. Lo stesso dovrebbero rifare con il “conte Sala”, che neppure possiede il calore umano di un Radezky. Al posto degli austrici ci saranno i “ghisa” milanesi che faranno multe, per questo motivo credo che i milanesi dovrebbero uscire fuori con una sigaretta o il sigaro in bocca, come si appresta a fare Vittorio Feltri. Solo così potranno eliminare quella la cappa di follia verde che sta ricoprendo la splendida capitale lombarda. Basta imposizioni per il “nostro bene”. Perché non del fumo delle sigarette dovrebbero temere i milanesi ma piuttosto della violenza diffusa e incontrollata che rende insicure le loro vite, la mancanza di rispetto per i loro costumi e della loro intelligenza. Siamo convinti che il fumo faccia male e andrebbe evitato, ma questo non può essere imposto per legge. Oltretutto il “conte Sala” appartiene a una fazione che vorrebbe ammettere il fumo di hashish e marijuana, non si vede dunque perché dovrebbe vietare il tabacco.
Il Comitato Patriottico Lombardo, verso la fine del 1847 per protestare contro la severa occupazione austriaca nei confronti del Lombardo Veneto, lanciò una campagna di boicottaggio delle entrate imperiali attraverso l’astensione dal gioco del lotto e dal consumo del tabacco. Particolarmente significativa fu la campagna di astensione dal consumo di tabacco, sia da fumo (75 tonnellate annue) che da naso (45 tonnellate annue), che comportava un’entrata erariale notevole per l’Austria.
Il boicottaggio si estese anche alle città vicine a Milano, sino a Verona, tanto che le autorità asburgiche, allarmate, reagirono cercando di provocare dei disordini che potessero giustificare un intervento militare repressivo. Così, il primo gennaio 1848, furono pagati dei provocatori che nelle strade invitavano insistentemente i passanti a fumare, gettando loro in faccia il fumo dei sigari. Il giorno seguente, anche i poliziotti e i soldati austriaci iniziarono a provocare e a insultare i passanti e in alcuni casi riuscirono a provocare dei disordini, dato che non tutti i milanesi accettavano passivamente le provocazioni. Così, il 2 gennaio, dei passanti schiaffeggiarono il capitano Neuperg che li insultava.
Si ricorda del figlio del maresciallo Radetzky, in abito borghese, che entrò in un bar di Milano e soffiava del fumo in faccia agli avventori. Si alzò l’abate Giani, uno storico nativo di Galliate, che lo redarguì per la provocazione. Il giovane austriaco, offeso, lo sfidò a duello pur vedendo che si trattava di un frate, lasciandogli la scelta dell’arma e del luogo. Al che il Giani gli disse: “IL posto è questa e l’arma è questa!” e gli assestò un ceffone in faccia che lo stese a terra. L’abate fu arrestato e due giorni dopo fu portato al cospetto di Radezky che gli chiese se era quello il modo di trattare gli ufficiali del suo esercito, al che il Giani gli disse che il ragazzo era in borghese. Il vecchio Maresciallo scoppiò a ridere, pensando alla lezione che aveva impartito al figlio, e lo fece liberare.
Quella brutta situazione continuò per un po’ di tempo e il podestà di Milano, il conte Gabrio Casati, andava in giro per la città invitando i cittadini a non reagire alle provocazioni, ma fu lui stesso malmenato in via dei Mercanti da alcuni poliziotti austriaci che poi lo portarono nel carcere di Santa Margherita. La notizia dell’arresto del podestà si diffuse rapidamente ed alcuni assessori comunali si recarono dal capo della polizia, il barone De Torresani Lanzefeld, per protestare per il comportamento dei poliziotti e per chiedere la liberazione di Casati, che fu subito concessa.
Il 3 gennaio 1848 il capo della polizia fece affiggere un manifesto che riportava un’ordinanza in base alla quale erano considerati “turbatori dell’ordine pubblico”, e quindi perseguibili penalmente, tutti coloro che invitavano ad astenersi dal fumo oppure inneggiavano al papa Pio IX, che in quel periodo aveva assunto un chiaro atteggiamento anti austriaco. Nel pomeriggio, nella Corsia dei Servi, un drappello di dragoni caricò con le sciabole sguainate i passanti, causando numerosi feriti. Gli incidenti più gravi si verificarono al corso di Porta Orientale, dove persero la vita alcune persone, tra le quali il consigliere Manganini, un magistrato di 74 anni, fedelissimo all’Austria, ed il cuoco del conte di Ficquelmont, inviato a Milano dal capo del Governo Metternich per consigliare il viceré, l’arciduca Ranieri, fratello dell’imperatore Ferdinando I°.
Il 6 gennaio 1848, l’arcivescovo Romilli, nella sua omelia in Duomo, invitò le autorità ad ascoltare le istanze dei cittadini. Andò anche a trovare i feriti ricoverati negli ospedali, portando loro la solidarietà del clero milanese. Promosse anche delle collette per dare un sostegno economico ad essi ed alle famiglie delle vittime. Il 9 gennaio, il viceré diffuse un nuovo proclama nel quale affermava che le richieste delle Congregazioni centrali sarebbero state accolte dall’imperatore. Lo stesso giorno, però giunse al viceré una lettera dell’imperatore, nella quale affermava che aveva già fatto il possibile per il Lombardo-Veneto per cui non era disponibile a fare ulteriori concessioni. Infine, faceva affidamento “sulla fedeltà e sul valore delle truppe” in caso di necessità. Si appellava cioè ai militari per il mantenimento dell’ordine. Un atteggiamento tipico del governo centrale austriaco che pure dal Lombardo-Veneto traeva grandi profitti.
Senza rinunciare al boicottaggio economico, i milanesi tennero dei comportamenti nonviolenti che indicavano chiaramente la loro avversione per gli Austriaci. In particolare, per molti giorni, in segno di lutto per coloro che erano stati uccisi, non si recarono a teatro e disertarono il corso di Porta Orientale, dove c’era stato il maggior numero di morti e di feriti, e che, per questo motivo, fu chiamato “corso scellerato”.
A sostegno economico delle famiglie dei feriti e delle vittime fu costituito un Comitato formato da oltre 50 nobildonne, che raccolse fondi anche nel Veneto. Il Comitato patriottico inviò alcune personalità cittadine (il conte Martini e il conte D’Adda) a Torino, dal re Carlo Alberto, per chiedere aiuto; il sovrano sabaudo promise che avrebbe presto dichiarato guerra contro l’Austria e così, maldestramente, fece nel 1849.
La protesta nonviolenta contro agli austriaci si diffuse rapidamente nelle città vicine ed anche nel Veneto, per iniziativa soprattutto dei patrioti Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che furono arrestati il 18 gennaio 1848. Le autorità decisero quindi di procedere alla repressione. Furono arrestati, senza una formale incriminazione, numerosi patrioti, poi deportati nelle carceri di altri Paesi dell’Impero, soprattutto a Lubiana, in Slovenia. Contro gli arresti e le deportazioni, il Municipio di Milano protestò davanti al governatore della Lombardia, il conte Spaur, lamentando anche la illegittimità dei provvedimenti dato che gli arrestati non avevano avuto una formale incriminazione.
Il 9 febbraio 1848, all’Università di Padova e di Pavia (le più importanti del Regno Lombardo-Veneto) ci furono degli scontri tra gli studenti ed i soldati austriaci e gli atenei furono chiusi. Per evitare rivolte dell’Impero asburgico, il 22 febbraio 1848 fu pubblicata una legge, con effetto retroattivo dal 14 novembre 1847, che comminava la pena di morte ai “perturbatori dell’ordine pubblico”. Nonostante questa legge, il 13 marzo 1848 scoppiò la rivolta nella stessa Capitale austriaca, Vienna, su iniziativa degli studenti universitari. L’imperatore Ferdinando I licenziò Metternich, e lo sostituì con il conte di Ficquelmont, abolì la censura sulla stampa, concesse la Guardia civica e promise la Costituzione. La notizia dei fatti di Vienna giunse anche a Milano, dove il 18 marzo iniziò, spontaneamente, la rivolta popolare delle Cinque giornate (18-22 marzo), che portò alla cacciata degli austriaci dalla città, anche se solo per cinque mesi. Sicuramente vi influì l’unità di azione anti austriaca e lo spirito di solidarietà che si erano formati tra la popolazione durante la campagna di boicottaggio economico, in particolare la campagna di astensione dal consumo di tabacco.