L’economista Michael Santi guarda alla crescita della Cina e si chiede per quanto continuerà

L’economista Michael Santi guarda alla crescita della Cina e si chiede per quanto continuerà

(Patrick Lefevre/BELPRESS)

Nessuno osa più affermare che la Cina diventerà presto la prima economia del mondo. Da Goldman Sachs, che quindici anni fa annunciava che sarebbe stata la numero 1 a partire dal 2026; a Nomura che lo prevedeva per il 2028 a JP Morgan che lo vedeva per il 2031… La domanda degli esperti non era tanto se, ma quando, l’economia statunitense sarebbe stata soppiantata nella sua pole position. Questa prospettiva appare ora molto incerta – anzi, non più rilevante – dal momento che le carte sono state rimescolate negli ultimi mesi, rimettendo fondamentalmente in discussione tutti i possibili parametri.

Prima di tutto, una constatazione impossibile da non fare: mentre tutte le banche centrali alzano i tassi di interesse, la Cina è l’unica nazione con una grande economia su scala planetaria che li sta abbassando. Le autorità cinesi non possono più nascondere il divario che si sta allargando sempre di più con gli Stati Uniti e che attualmente si aggira intorno agli 8,3 trilioni di dollari contro i 5,3 trilioni dello scorso anno, secondo i calcoli dell’ex capo della Banca Mondiale, Bert Hofman. L’inflazione insignificante e la debole crescita nazionale della Cina, ma soprattutto l’indebolimento dello Yuan e il sostanziale apprezzamento del biglietto verde, fanno sì che l’economia di questo Paese subisca addirittura una recessione, se i parametri vengono espressi in dollari! Non può più nemmeno affermare di essere la locomotiva asiatica perché – per la prima volta in 25 anni – la crescita di Indonesia, Malesia, Filippine e Vietnam supera quella della Cina.

All’esterno è quindi in discussione la credibilità di Xi, che non ha mai smesso di dichiarare, ogni volta che aveva la parola, che l’Oriente avrebbe presto superato un Occidente in declino e di ribadire che il suo Paese era sul punto di surclassare gli Stati Uniti. Visto dall’interno, il Congresso del Partito Comunista si è appena concluso offrendo una prova clamorosa del suo controllo assoluto. Il suo potere è oggi di fatto totale, dopo la sua eclatante campagna anticorruzione che è consistita principalmente nell’epurazione degli oppositori  di Xi e di coloro che dubitavano del suo governo. Dopo trent’anni di crescita straordinaria – la più imponente del mondo! -dopo la costruzione di città di un gigantismo stupefacente, la fabbricazione di treni ad alta velocità, il sistema messo in piedi dal grande Deng Xiaoping è stato ormai reso obsoleto da Xi che – di gran lunga – non è certo un primo tra pari, perché erige intorno alla sua persona un culto degno dell’era Mao.

Quando il Partito premiava la competenza, quando le successioni avvenivano per consenso, quando la strategia industriale veniva elaborata nelle province, la governance di Xi consiste essenzialmente nel favorire la fedeltà rispetto al merito, inducendo chiaramente una profonda distorsione all’interno dell’intero processo decisionale. Eliminando questa piccola apertura  che distingueva i talenti in tutto il Paese, reprimendo ogni critica, gli errori umani, quelli di un solo uomo – in questo caso lui – si sono trasformati in fallimenti dalle conseguenze disastrose: la sua discutibile decisione di abbandonare il mercato immobiliare al suo crollo, la sua caccia alle streghe contro i giganti tecnologici del Paese, la sua incredibile ostinazione nel perseguire una politica Zero-Covid che va di pari passo con la sorveglianza totalitaria, l’aver messo sotto lo stivale Hong Kong… Fiori all’occhiello come Alibaba e Tencent – oggi in disfacimento – erano comunque una prova indiscutibile di creatività da parte della Cina.

E se Xi stesse cambiando radicalmente la società cinese?

Michael Santi

https://michelsanti.fr/en

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