L’Italia impari da Hong Kong

L’Italia impari da Hong Kong

Gli sbarchi di migranti nell’Italia meridionale continuano a ritmo sostenuto e le previsioni dicono che – salvo improbabili provvedimenti radicali da parte italiana – continueranno, provocando una crescente instabilità sociale. Infatti, il serbatoio dei disperati, in Africa e in Medio Oriente, appare senza fondo.

Se lo scrivente fosse nato povero e disperato, come molti di questi migranti, avrebbe certamente tentato una traversata del mare di Sicilia, attratto dalla speranza d’una vita migliore.

Il problema, però, resta il fatto che nel mondo in cui viviamo uno Stato indipendente deve essere disposto a difendere i propri confini anche con le armi per poter continuare a essere definito tale. Lo deve fare per poter salvaguardare la propria indipendenza e le proprie istituzioni democratiche; le proprie tradizioni e il benessere dei propri cittadini, altrimenti si dissolverà come un castello di sabbia, trasformandosi prima in un agglomerato caotico e infine in una oligarchia dispotica.

Boat People

Per questo motivo possiamo osservare nel mondo vari stati che, pur non potendosi definire razzisti o fascisti, mettono una grande energia nel difendere i propri confini nazionali. Gli esempi in Asia sono molti: il Giappone, Singapore e la Tailandia.

E nella civilissima Australia tutti i rifugiati vengono rinchiusi in campi di raccolta e sottoposti a un accurato screening, al termine del quale, se non riescono a dimostrare di essere dei perseguitati politici, vengono rimandati indietro.

Solo questo genere di drastiche misure impedisce a un numero crescente di disperati di mettere a repentaglio la propria vita, e quella dei propri familiari, per sfidare le onde, navigando verso un futuro che loro vedono migliore ma che li porta spesso ad annegare miseramente.

Enumerati i rischi, quale potrà essere la soluzione di tale grave problema?

Prima di tutto una conoscenza precisa di chi sono questi rifugiati che sbarcano sulle coste italiane, da dove vengono, qual è la loro etnia e la loro religione, dati che personalmente non abbiamo mai letto sui giornali e che, forse, restano sconosciuti anche alle stesse autorità.

Secondo, promuovere la costruzione di campi di raccolta dai quali non potrà essere concessa l’uscita a nessuno fin quando il processo di controllo non sarà stato completato e non si saranno trovati altri paesi disposti a ospitarli.

Mancando questi, i rifugiati vanno rimandati indietro: una misura drastica che però costituirà un deterrente per scoraggiare nuove partenze e nuovi morti.

Come dicono in Toscana: ‘Il medico pietoso fa la piaga verminosa.’

Questo problema, in termini assai simili, fu affrontato e risolto dalle autorità coloniali e post-coloniali di Hong Kong, dopo la caduta del Vietnam del Sud nel 1975.

Un gran numero di disperati vietnamiti – si dice un milione – s’imbarcarono verso l’Indonesia, l’Australia e la Tailandia e un numero sconosciuto di loro perirono, annegati, assaltati da pirati e divorati dagli squali.

Il fiume di rifugiati vietnamiti diretti a Hong Kong divenne ingestibile dopo il 1979 con la ‘pulizia etnica’ effettuata dai Vietcong nei confronti di vietnamiti con radici cinesi o con coloro che venivano ritenuti compromessi con il regime filo-americano di Saigon.

Il tutto accadde fra l’indifferenza della intellighenzia mondiale, inclusa la nostra, che volle vedere nella conquista del Vietnam del Sud un passo avanti nel progresso democratico di quel Paese, affrancato dalla dominazione americana, quando in realtà fu l’esatto contrario: fu una tragedia.

E fu forse in risposta a questa onda emotiva che Margaret Thatcher decise di dichiarare Hong Kong ‘porto di primo asilo’ per i rifugiati vietnamiti ma la sua buona intenzione provocò un enorme influsso di rifugiati: prima perseguitati politici e poi economici, che divennero noti come i boat people.’

 Hong Kong era facilmente raggiungibile con le loro barche stracariche di persone: gli bastava navigare sotto costa, tenendosi sufficientemente lontani dalla Cina e mantenendo il timone verso Oriente.

I primi rifugiati furono 3.743 e sbarcarono a Hong Kong il 4 maggio 1975 – Saigon era caduta il 29 aprile di 40 anni fa – a bordo del mercantile danese Clara Maersk che li aveva soccorsi in alto mare. I primi rientri forzati vennero effettuati il 12 dicembre 1989.

Non appena sbarcavano a Hong Kong venivano rinchiusi in grandi campi di raccolta nei quali, alcuni di loro, restarono chiusi dentro per vent’anni, rifiutando cocciutamente di essere rimandati indietro, anche quando il regime comunista vietnamita promise di non maltrattarli una volta rientrati.

Gli ultimi vietnamiti lasciarono Hong Kong nel 2000, dopo l’handover alla Cina, caduto nel 1997. Questi furono i numeri: 143.700 vietnamiti erano stati trapiantati a Hong Kong e in altri paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti, e 67.000 sono stati rimpatriati.

Se non avremo la forza di seguire l’esempio di Hong Kong ci metteremo sempre più nei guai e, noi italiani, lasceremo in eredità ai nostri figli un Paese impoverito e dilaniato da esplosive tensioni sociali.

 

Angelo Paratico

One Reply to “L’Italia impari da Hong Kong”

  • Franca

    By Franca

    Reply

    Angelo Paratico ha detto la sacrosanta verita’ tutto vero, lasceremo ai ns. Figli un paese allo sbando senza identita’ esattamente come sta scritto nel PIANO KALERGI.

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