La scarsità del dollaro e le sue implicazioni storiche

La scarsità del dollaro e le sue implicazioni storiche

Abraham Lincoln

di Michael Santi

Il dollaro sta diventando scarso, perché tutto il mondo lo vuole e dunque manca. Questo problema – ricorrente dagli anni ’60 – di scarsità della moneta americana costituisce un incredibile grattacapo per i Paesi indebitati in questa valuta, quando quest’ultima si apprezza perché i loro debiti e i loro interessi diventano più costosi, secondo la stessa proporzione. Riviviamo questa sorta di quadratura del cerchio da qualche mese perché il dollaro sta ormai raggiungendo livelli storici di rialzo nei confronti di una moltitudine di valute e non ultimo lo yen giapponese, la sterlina e naturalmente nei confronti di quasi tutte le valute dei Paesi emergenti. La storia è comunque in grado di aiutarci a comprendere questi meccanismi che abbracciano i tassi di interesse, il debito pubblico, i prestiti ai privati, il tutto attraverso la cinghia di trasmissione del dollaro.

A questo proposito, l’abrogazione del sistema istituito nel 1944 a Bretton Woods ha avuto come conseguenza (intenzionale o meno da parte delle autorità statunitensi dell’epoca?) che in realtà erano i non americani a finanziare lo stile di vita dei cittadini americani! L’abbandono di Bretton Woods aprì così la strada a un’aberrante asimmetria della finanza universale, espressa in un principio semplice ma crudele: all’amministrazione statunitense costa appena qualche centesimo stampare una banconota da 100 dollari, mentre tutti gli altri Paesi – senza eccezioni – devono meritarsi questi stessi 100 dollari, guadagnandoli con il loro lavoro, o con le loro esportazioni, ecc…, (formula di Barry Eichengreen).

Da un punto di vista cronologico, fu la lungimiranza di Charles De Gaulle ad accelerare la fine di Bretton Woods, quando decise, nel 1965, di scambiare tutti i dollari di riserva in Francia con oro al tasso ufficiale di 35 dollari l’oncia. Questo colpo suonò la campana a morto per Bretton Woods, perché il presidente francese temeva (giustamente) di non poter più scambiare i suoi biglietti verdi con l’oro nel prossimo futuro. E a ragione, perché le riserve statunitensi in questo metallo prezioso ammontavano a circa 13,3 miliardi, mentre le banche centrali straniere ne detenevano… 14 miliardi!

Il voltafaccia americano, tuttavia, fu spettacolare e unilaterale poiché – al termine di uno storico soggiorno a Camp David nella massima segretezza attorno ai suoi principali collaboratori – Nixon annunciò il 15 agosto 1971 la rottura di questi accordi internazionali vecchi di 25 anni che consistevano principalmente nella conversione automatica di un’oncia d’oro al prezzo fisso di 35 dollari. Questo pilastro di Bretton Woods, adottato all’epoca all’unanimità alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu spazzato via dagli Stati Uniti, che diedero così al sistema monetario mondiale un orientamento rivoluzionario e dalle conseguenze tanto pesanti quanto impossibili da prevedere: l’imposizione dei tassi di cambio fluttuanti.

La storia permette, ancora una volta, di comprendere questa decisione di portata certamente universale, ma in realtà motivata da considerazioni interne agli Stati Uniti, che soffrivano di un’elevata inflazione, di un nascente squilibrio commerciale e di un blocco dei prezzi e dei salari. Non potendo onorare l’impegno di pagare 35 dollari per ogni oncia d’oro presentata, gli Stati Uniti eliminarono questo regime e poterono così continuare a spendere, a indebitarsi e, insomma, a crescere in modo illimitato perché la spada di Damocle della convertibilità automatica era venuta meno. L’appetito per il consumo americano poté quindi esprimersi in tutto il suo splendore e fu addirittura la locomotiva della produzione e della prosperità mondiale. Da quel momento in poi, i disavanzi commerciali e della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti non contarono più, in un contesto in cui le attività finanziarie statunitensi divennero il paradiso sicuro per eccellenza, nonché i principali fornitori di liquidità a livello mondiale. Le fluttuazioni della valuta americana sui mercati dei cambi non erano quindi più condizionate dalla loro situazione economica interna e di fondo, ma dalla bulimia di tutte le altre nazioni verso gli asset statunitensi e i rendimenti che essi offrivano.

Questo “shock di Nixon”, come fu definito nel 1971, ha quindi permesso di stabilire l’onnipotenza americana grazie a questa formidabile leva che è il loro dollaro, la cui impennata negli ultimi mesi ha posto problemi quasi esistenziali a diversi Paesi il cui debito pubblico è denominato in esso. Non importa: gli Stati Uniti e la loro moneta sono oggi e più che mai una meta di rifugio, anche se questa fiducia ancora e sempre accordata a questo Paese così dinamico e intraprendente viene spesso pagata a caro prezzo.

Michael Santi

https://michelsanti.fr/en

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