La Grande Muraglia Veronese

La Grande Muraglia Veronese

Questa sera alle 21 presso la sala della Biblioteca di San Rocco di Quinzano, Luca Dossi presenterà la storia e gli sviluppi del Serraglio Scaligero.

Pochi veronesi lo sanno, ma anche a Verona esisteva una “Grande Muraglia” simile (in scala ridotta) a quella cinese. Fu costruita nel XIII secolo, dunque ancora prima del rafforzamento della sezione Ming della Grande Muraglia cinese.

A Verona la chiamavano “serraglio” una parola che deriva dal latino volgare serrāculum da serāre (“rinchiudere, chiudere”), e da serà (“chiudere, sprangare”). Serviva a proteggere la signoria veronese dalle incursioni dei milanesi e dei mantovani. Il Serraglio consisteva in un’alta cortina merlata lunga circa 18 km e alta in certi punti anche 16 m. Era intervallata da 200 torri a circa 100 metri di distanza. Era protetto da un fossato, con un muro largo in media 12 metri e profondo 3 metri, che veniva inondato dalle acque del fiume Tione. Nel progetto originale doveva essere esteso per altri 15 chilometri, ma i lavori furono sospesi. Quando il muro correva lungo il fiume, si usava  il letto del fiume. Considerando i tempi si trattava di una notevole opera di ingegneria fortificatoria, un ramo in cui gli italiani erano sempre stati presi per specialisti, fino al sorgere di una potente artiglieria in grado di demolire le mura.

Lo stato veronese aveva quindi individuato nel corso del fiume Tione la perfetta linea di confine verso il mantovano, decisione che portò nel 1185 alla fondazione e fortificazione di Villafranca, dove oggi sorge un aeroporto internazionale e le rovine di due potenti castelli.

Per prevenire attacchi da Milano, Brescia e Mantova, furono costruiti i castelli difensivi di Ponti sul Mincio, Valeggio sul Mincio, Villafranca, Custoza e Sona a servizio del Serraglio. A partire dal 1284, Alberto I della Scala rafforzò queste fortezze, aggiungendo la fortificazione del villaggio di Borghetto e preparando, sulla base del sistema preesistente, il Serraglio che le univa tutte insieme. I lavori iniziarono nel 1345 con Mastino II della Scala, furono interrotti nel 1349 a causa della peste e ripresero nel 1353 essendo completati da Cangrande II.

Oggi rimangono solo i castelli e basse rovine del grande muro, nascoste dal fogliame e tagliate dal passaggio delle strade.

 

 

Oscar Wilde a Verona

Oscar Wilde a Verona

Monumento a Wilde a Galway, Irlanda.

Verona non fu sempre inclusa nell’itinerario classico del Grand Tour, una sorta di rito di passaggio per l’aristocrazia britannica, ma nel 800 divenne presto una meta preferita da tutti quei viaggiatori desiderosi di un luogo ricco di storia e di fascino. Per i viaggiatori di lingua inglese la città è stata identificata con le ambientazioni shakespeariane: è la scena de I due gentiluomini di Verona e dei due tragici amanti, Romeo e Giulietta. Diventa presto celebre con l’epiteto shakespeariano di “fair Verona”, dove l’amore giovane e infinito non muore mai. È anche la città che accolse Dante Alighieri, il quale dedicò il Paradiso della sua Divina Commedia a Cangrande della Scala; dunque è un luogo dove ogni appassionato studioso di Dante doveva transitare.

Nel giugno del 1875 il ventunenne Oscar Wilde (1854-1900), all’epoca studente ventenne all’Università di Oxford, intraprese il suo primo viaggio in Italia, in compagnia del suo ex-professore di greco al Trinity College di Dublino, il ministro protestante John Pentland Mahaffy e con l’amico William Goulding. L’Italia lo attraeva sia per ragioni culturali e religiose, perché proprio in quell’anno il suo caro amico, Hunter Blair, si era convertito al cattolicesimo romano e Wilde stesso era tentato di seguire i suoi passi, ma la sua conversione sarebbe avvenuta solo poco prima della sua morte, durante il grande Giubileo del 1900.

In Italia Wilde poté visitare tutte quelle città e quei luoghi che erano stati artisticamente descritti da John Ruskin (1819-1900), i cui libri Wilde apprezzava e aveva letto avidamente. John Ruskin usò il suo immenso talento per mostrare Verona, con la sua matita e con la sua penna. Visitò per la prima volta la città nel 1835 e poi vi ritornò molte volte, nel 1841, nel 1846, nel 1849, nel 1869, e ogni visita fu per lui occasione per studiare con minuziosa precisione e amorevole dedizione, un particolare monumento o palazzo, o chiesa: le Arche Scaligere, Piazza dei Signori, Piazza Erbe, Sant’Anastasia. Per l’artista che capiva la grandezza delle pietre di Venezia, Verona era comunque “squisita”.

Prima della metà di giugno 1875, Oscar Wilde e i suoi compagni partirono da  Oxford e raggiunsero Londra dove si imbarcarono su una nave che li portò a Livorno. Da Livorno i turisti andarono a Firenze dove rimasero dal 15 al 19 giugno.

Con molto rammarico, il 19 la piccola compagnia prese un treno da Firenze a Venezia. Si fermarono a Bologna, solo per una cena veloce, e continuarono il loro viaggio in treno fino a Venezia, dove arrivarono il giorno seguente. Nella città della laguna passeggiarono in Piazza San Marco, lungo gli stretti vicoli e poi andarono al Lido e all’isola di San Lazzaro, per visitare il monastero armeno dove Byron aveva soggiornato. A Venezia Wilde dedicò anche parte del suo tempo al circo e al teatro.

Nel pomeriggio del 22 giugno il trio aveva raggiunto Padova e Wilde vi ammirò gli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni.

Il 23 giugno Oscar Wilde e i suoi amici giunsero a Verona. In una lettera a sua madre egli scrisse: “Siamo andati a Verona alle sei, e nel vecchio anfiteatro romano (perfetto all’interno come ai vecchi tempi romani) abbiamo visto la rappresentazione dell’Amleto – e certamente in modo indifferente – ma potete immaginare quanto sia stato romantico sedersi nel vecchio anfiteatro in una bella notte di luna. La mattina andai a vedere le tombe degli Scaligeri – buoni esempi di ricco lavoro gotico florido e di ferro; una buona piazza del mercato piena dei più grandi ombrelloni che abbia mai visto – come giovani palme – sotto i quali sedevano i venditori di frutta”. Ricorda anche Dante “che, stanco di arrancare su per le ripide scale, come dice lui, degli Scaligeri quando era in esilio a Verona, venne a stare a Padova con Giotto in una casa che ancora si vede lì”.

Fu probabilmente durante quel breve soggiorno a Verona che Wilde fu ispirato a scrivere il sonetto At Verona, pubblicato nell’edizione del 1881 delle sue Poesie. Dopo Verona Wilde andò a Milano con i suoi amici, ma, avendo speso quasi tutto il suo denaro, dovette tornare verso casa. Prima di partire, il 25 giugno, visitò Arona, la città di San Carlo Borromeo, sul Lago Maggiore, e da lì si recò, in carrozza, attraverso il Passo del Sempione, a Losanna. Il 28 arrivò a Parigi e continuò il suo viaggio di ritorno verso l’Irlanda.

Nell’aprile 1900, Wilde sbarcò a Palermo dove trascorse otto giorni indimenticabili. Poi andò a Napoli per un breve soggiorno e si spostò a Roma. Il 15 aprile, domenica di Pasqua di quell’anno giubilare, Wilde ricevette la benedizione da Papa Leone XIII.

Il 30 novembre 1900 Oscar Wilde morì a Parigi all’Hôtel d’Alsace in rue des Beaux-Arts a causa di una meningite.

Verona per Wilde rappresentò la città dell’esilio dantesco, un esilio fatto di stenti e umiliazioni che ricordò facendo eco al libro di Giobbe. Ma Wilde stava certamente esagerando quando evocò l’immagine di un Dante in carcere. Questo non è mai accaduto e fu solo una sua licenza poetica. Forse l’idea del poeta incarcerato gli è stata suggerita dall’immagine romantica di Tasso nella prigione di Ferrara, di cui c’è un accenno in The Soul of Man under Socialism. Forse quando egli stesso fu in prigione, dal 1895 al 1897, accusato di sodomia, Wilde pensò a questa prima poesia profetica e al significato di essere un poeta imprigionato. Allora era pienamente consapevole, come dice nella sua lunga lettera, De Profundis (1897), indirizzata a Lord Alfred Douglas, che: “A tutti i costi devo mantenere l’Amore nel mio cuore. Se vado in prigione senza Amore cosa ne sarà della mia Anima?”. “Devo tenere l’Amore nel mio cuore oggi, altrimenti come farò a vivere tutto il giorno? E in tutta l’epistola ripete come un ritornello: “La superficialità è il vizio supremo”.

Il sonetto At Verona è direttamente collegato al lungo poema Ravenna (1878), attraverso l’influenza ispiratrice di Dante, e anche a La ballata del carcere di Reading (1898), in cui il poeta invoca il perdono per i prigionieri, rifiutando le condizioni infernali del carcere stesso e l’idea stessa di vendetta esercitata dalla società quando decreta la pena di morte per i criminali.

Il comune di Verona potrebbe pensare a un monumento anche per lui, qui nella nostra “fair Verona”.

 

Angelo Paratico

Giacomo Zerman, un artista veronese di grande talento

Giacomo Zerman, un artista veronese di grande talento

Giacomo Zerman, nato nel 1994 a Verona, ha iniziato a dipingere nel 2016. Il suo è un dono innato e si sta facendo conoscere con quadri “che fanno pensare” e lasciano chi li ammira con la certezza di avere di fronte un artista a tutto tondo, capace di interpretare il mondo classico greco e romano e coglierne i frutti migliori che poi offre al mondo moderno. Abbiamo postato alcuni suoi dipinti al termine di questo articolo. Predilige i colori acrilici su una base di tela.

 

 

 

 

 

Per farlo conoscere meglio ai nostri lettori gli abbiamo chiesto di completare il celeberrimo Questionario di Proust.

 

1) Il tratto principale del mio carattere

Energico e pensieroso

2) La qualità che desidero in un uomo.

Gentilezza

3) La qualità che preferisco in una donna.

Sensualità e fedeltà. Che sappia trasformare i miei difetti in punti di forza e che mi possa amare per quel che sono.

4) Quel che apprezzo di più nei miei amici.

L’essere alla mano, allegri e buoni 

5) Il mio più grande difetto

Non saper controllare la rabbia

6) Il mio sogno di felicità

Non dico nulla sennò non s’avvera

7) Quale sarebbe, per me, la più grande disgrazia:
Restare paralizzato o perdere un figlio o una figlia

8) Quel che vorrei essere.

Me stesso, con pregi e difetti

9) Il paese dove vorrei vivere.
Paesi caraibici, Spagna o Stati Uniti

10) Il colore che preferisco.

Blù in tutte le sue tonalità, rosso e giallo ocra.

11) Il fiore che amo.

Tutti quelli di colore blu

12) L’uccello che preferisco.

Il gufo

13) I miei autori preferiti in prosa.

Stevenson e Salgari

14) I miei poeti preferiti.

Leopardi

15) I miei eroi nella finzione.

Spiderman, Amleto, Dioniso, Achille, Naruto.

16) Le mie eroine preferite nella finzione.

Elettra

17) I miei compositori preferiti.

Paolo Conte

18) I miei pittori preferiti.

Leonardo da Vinci, Raffaello, Dagas, Delacroix, Giotto, De Chirico, Rubens, Turner.

19) I miei eroi nella vita reale.

Nessuno

20) Le mie eroine nella storia.

Giovanna D’Arco e Madam Curie.

21) I miei nomi preferiti.

Giacomo, Giovanni, Filippo…

22) Quel che detesto più di tutto.
Ce ne sono un’infinità

23) I personaggi storici che disprezzo di più.
Non sono abbastanza istruito

24) Il dono di natura che vorrei avere.
Capacità di danzare a 27 anni

25)  Come vorrei morire.
Di vecchiaia a 85 anni

26) Le colpe che mi ispirano maggiore indulgenza.
Quelle che comprendo

27) Il mio motto.

Niente è impossibile, mai arrendersi

Nel libro di Alberto Zucchetta si svela il mistero del ritrovamento del tesoro scaligero. Con una Lectio Magistralis di Vittorio Sgarbi

Nel libro di Alberto Zucchetta si svela il mistero del ritrovamento del tesoro scaligero. Con una Lectio Magistralis di Vittorio Sgarbi

L’Arena pubblicò la notizia del ritrovamento di un tesoro  il 20 novembre 1938 sotto al titolo “La pignatta del tesoro ovvero il tesoro nella cantina”.

Una quantità notevole di oggetti d’oro tempestati di pietre preziose, di chiara fattura veneziana – fra i quali la ormai celebre, stella a dodici punte che fu di proprietà di Cangrande I della Scala – furono ritrovati nelle fondamenta di una villetta di Verona, in via Gaetano Trezza, 21, angolo via Paradiso.

Al di là del valore puramente monetario dei pezzi, oggi conservati al museo di Castelvecchio, bisogna considerare il loro valore storico e mistico, che è enorme. Non sarebbe esagerato paragonarli al tesoro di Teodolinda, e alla Corona Ferrea.

Il Maestro Alberto Zucchetta, orafo e studioso, dopo decenni di ricerche e di studio  fa il punto sullo stato dell’arte riguardo alla loro origine e il motivo dell’essere stati celati nelle fondamenta d’una abitazione.

Ma non si limita a questo nel suo libro, cerca con successo di scogliere l’enigma della loro provenienza.

Il magnifico saggio di Vittorio Sgarbi, che impreziosisce questo volume di 113 pagine, ci offre un magistrale inquadramento artistico, riportiamo qui sotto l’incipit del suo intervento, che nel libro si estende per tre pagine e che è stato da lui opportunamente intitolato: “Giotto, o dell’intellettualizzazione dell’artista”.

Orafo e studioso. Non so quanti altri casi possano essere attualmente paragonati a quello di Alberto
Zucchetta. Una figura di altri tempi, si potrebbe dire, quando la dimestichezza con i metalli preziosi
fusi si mischiava alle conoscenze dell’alchimia, la parascienza esoterica che ricercava il segreto più
profondo della materia così come oggi farebbe la fisica nucleare. Ma anche in passato queste figure,
fra la chimica, l’arte, la filosofia e la magia, erano rare. Così, quando Zucchetta si propone in veste
di studioso come in questa circostanza, é difficile sottrarsi dalla tentazione di vederlo affermare i
diritti della sapientia tutta speciale che deriva dalla pratica diretta di un certo mestiere, un po’ come
gli alchimisti di una volta.

 

DANTE GIOTTO CANGRANDE e il fascino segreto delle stelle. Uno studio fra simbologia e matematica della stella scaligera in oro del XIV secolo. Con testi di Claudio Bellinati, Lionello Puppi, Vittorio Sgarbi, Alberto Zucchetta, Christian Zucchetta. Gingko Edizioni, 2021 Verona. Euro 22.