Il conte Gian Rinaldo Carli. Un grande erudito e uomo di scienza

Il conte Gian Rinaldo Carli. Un grande erudito e uomo di scienza

 

Ca’ Rezzonico Sala del trono ritratto di Gianrinaldo di Bartolomeo Nazzari

 

Gian Rinaldo Carli (Capodistria, 11 aprile 1720 – Milano, 22 febbraio 1795) è stato uno scrittore, economista, storico, filosofo e numismatico italiano, di origine istriana, fu molto celebre nei sui tempi.

Figlio del conte Rinaldo e della nobildonna Cecilia Imberti, entrambi capodistriani, Gian Rinaldo frequenta nella sua città natale l’Istituto Giustinopolitano, oggi liceo-ginnasio che porta il suo nome, rivelando una netta predisposizione sia per le Lettere sia per le Scienze. Quindicenne, verrà inviato a Flambro (oggi frazione di Talmassons), in Friuli, per seguire i corsi di Scienze esatte dell’abate Giuseppe Bini con il quale manterrà una relazione epistolare anche quando, un anno e mezzo più tardi, si trasferirà prima a Modena, dove avrà come maestro Ludovico Antonio Muratori, poi a Verona, dove entra in contatto con Scipione Maffei.

Nel 1738 intraprende gli studi di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, facendosi subito notare per l’intelligenza e la vastità di cultura tanto da essere ammesso, appena ventenne, nell’Accademia dei Ricovrati. I suoi interessi sono però orientati verso le scienze, la storia e le lettere classiche: di questo periodo sono i saggi l’Aurora Boreale (1738) le Antichità di Capodistria (1741) e l’Indole del teatro tragico antico e moderno 1743). È di quel periodo Osservazioni sulla musica antica e moderna, breve trattato scritto nel (1743, ma pubblicato solo quarant’anni più tardi), che indirizzò all’amico e corregionale, il violinista Giuseppe Tartini.

Nel 1744 viene rappresentato a Venezia un suo dramma mitologico: l’Ifigenia in Tauride. Un anno più tardi le autorità universitarie istituiscono una cattedra di Scienza nautica che affidano al giovane erudito capodistriano.

Trasferitosi a Padova, il Carli resterà fino al 1751, alternando la sua attività di insegnante e di letterato. In quegli anni vengono infatti dati alle stampe alcune importanti opere fra cui:  Andropologia, ovvero della società e della felicità, composizione didascalica in parte influenzata dagli ideali illuministi che in quegli anni si stavano diffondendo in Italia e nell’Europa tutta.

I suoi lavori giovanili nascono da interessi sviluppati negli ambienti dotti che aveva avvicinato, e in questi è notevole il proposito di rinnovare la storiografia tradizionale istriarna: nel Della spedizione degli Argonauti in Colco, (Venezia 1745, ma scritto tra il 1739 e il 1743)affronta dibattuti problemi di cronologia, dei quali si era occupato pure Newton, e insieme critica la tradizione secondo cui le cittadine dell’Istria sarebbero state fondate in conseguenza di quella mitica spedizione; nel Delle antichità di Capodistria (in Raccolta di opuscoli scient. e filologici…, XXVIII, Venezia 1743)confuta la tradizione del primato capodistriano sulla penisola, e asserisce che la città doveva il nome al solo fatto di essere situata al capo dell’Istria. La stesura di questa operetta gli dette occasione di farsi conoscere dal Muratori.

Nel 1751, il trentunenne professore pubblica due saggi che costituiranno la base delle sue concezioni economiche in età matura: Dell’origine e commercio delle monete e il Osservazioni preventive al piano delle monete.

Il Carli decide poi di abbandonare l’insegnamento e rientrare nella sua Capodistria natale. La morte della moglie, una nobildonna veneta spentasi di tubercolosi a soli venticinque anni di età (1749) (che egli commemorerà in un toccante manoscritto biografico), la responsabilità di un figlio, restato orfano di madre alla tenerissima età di un anno e mezzo e forse anche la nostalgia per la propria terra, lo spingono a prendere tale decisione. Ma nella città istriana Carli resterà solo due anni, alternando la quieta vita nella dimora paterna a frequenti soggiorni trascorsi a Pola e a Trieste. Nel 1753, le sollecitazioni di amici e conoscenti, unitamente al grande successo e diffusione che stanno ottenendo le sue opere, e principalmente i due saggi di economia recentemente pubblicati, lo inducono ad abbandonare nuovamente l’Istria e a stabilire la propria residenza prima a Milano, poi in Toscana, dove viene dato alle stampe il Saggio politico ed economico sopra la Toscana del 1757. In quest’opera di ampio respiro l’autore, prendendo spunto da situazioni di ambito locale, finisce con l’impostare un discorso di carattere generale sulla produzione della ricchezza in uno Stato moderno e su tutti gli ostacoli (dazi, balzelli, leggi anacronistiche o chiaramente inique, particolarismi locali ecc.) che ne impediscono lo sviluppo. L’incontro fra il pensatore capodistriano e le idee e i fermenti di matrice illuminista che percorrono l’Italia del tempo si realizza in questo saggio pienamente.

In quegli anni (1754-1760) vede la luce anche la sua opera più celebre: Delle monete e delle Istituzioni delle zecche d’Italia, opera monumentale e sintesi di storia, diritto e scienza delle finanze. L’opera, tradotta successivamente nelle grandi lingue di cultura dell’Europa del tempo diverrà essa stessa stimolo per un ulteriore sviluppo degli studi economici e finanziari in molte università italiane e straniere ed esercita ancora influenze sugli studi economici internazionali.

Lasciata anche la Toscana (1758) Carli si trasferisce prima a Venezia per occuparsi dei cospicui beni della defunta moglie, poi, dal 1763, nuovamente in Istria, e, nella primavera del 1765 a Parma. Nell’autunno di quello stesso anno il ministro austriaco Kaunitz-Rietberg gli propone di assumere la presidenza del Supremo Consiglio dell’Economia del Ducato di Milano, entità statuale dominata all’epoca dagli Asburgo.[2]. Lo studioso capodistriano accetta, e, presa una casa in affitto a Milano, svolgerà quest’incarico per ben quindici anni, al termine dei quali si ritirerà a vita privata.

È questo un periodo fondamentale per la sua attività di economista e di saggista. Nel 1765 sul n.2 de Il Caffè esce Della patria degli Italiani un celeberrimo articolo sui difetti e le idiosincrasie degli italiani del tempo. L’articolo, pubblicato sotto forma anonima e per lungo tempo attribuito all’amico Pietro Verri, riveste un’importanza storica decisiva perché verrà ripreso nell’Ottocento e sarà fonte di ispirazione per tanti patrioti italiani di convinzioni liberali. Vi si immagina di una persona anonima che, entrata in un caffè di Milano, venga apostrofata come “forestiera” da Alcibiade un altro avventore, non essendo Milanese, a cui il forestiero ribatterà: “Un italiano in Italia non è mai forestiero”.

Nella seconda metà degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta del settecento la sua produzione avrà un’attinenza sempre più stretta all’alto incarico da lui ricoperto vertendo soprattutto su temi di carattere economico-finanziario. Fra le numerose pubblicazioni di questo periodo una menzione particolare va fatta a: Osservazioni preventive intorno alle monete di Milano, le Nuove osservazioni sullo studio delle monete, Del libero commercio dei grani e, in polemica con Pietro Verri, Nuove osservazioni sulla riforma delle monete.

Nel 1780, dopo quindici anni di ininterrotto servizio come uno fra i massimi responsabili della politica economica e finanziaria imperiale nello Stato milanese, Carli rinuncia ad ogni incarico pubblico, potendosi in tal modo consacrare interamente ai suoi studi scientifici, economici e storici. Fra questi ultimi è doveroso citare le Lettere americane (1780) sullo sviluppo delle civiltà precolombiane e le similitudini fra queste e il mondo occidentale. Grande interesse in Italia e all’estero suscitano anche i cinque volumi Delle antichità italiche (1788), opera d’ampio respiro, in cui l’autore tratteggia un’erudita sintesi della storia delle passate grandezze dell’Italia, dagli Etruschi fino al XIV secolo. La rassegna comprende naturalmente anche Istria e Dalmazia, percepite come parte integrante d’Italia e in qualche modo riecheggia i grandi temi cari al Muratori, suo maestro in gioventù. Nel 1794 l’erudito dà alle stampe un polemico libello contro Jean Jacques Rousseau e il suo pensiero: Della disuguaglianza fisica, morale e civile fra gli uomini. Questa sarà la sua ultima fatica letteraria. Pochi mesi più tardi, nel febbraio del 1795, Gian Rinaldo Carli si spegne a Milano (secondo altre fonti, a Cusano, oggi Cusano Milanino) all’età di settantacinque anni, non ancora compiuti.

In politica Carli fu tuttavia un moderato, legato idealmente al pre-illuminismo del Muratori e del Maffei e profondamente influenzato dall’appartenenza a un’aristocrazia, quella istriana, di origine veneto-coloniale, fondamentalmente mercantile e cosmopolita.

Alieno da ideali rivoluzionari, polemizzò ripetutamente con Jean Jacques Rousseau e con lo stesso Verri. La sua indubbia italianità non gli impedì di vedere nella monarchia asburgica e nel riformismo moderato teresiano e giuseppino un fattore di progresso per Milano e gli altri paesi posti sotto il dominio austriaco. Egli stesso si fece portatore di una politica economica e finanziaria non audace, ma efficace, cercando sempre di raggiungere, nella sua veste di Presidente del Supremo Consiglio d’Economia dello Stato milanese compromessi accettabili sia con il governo vicereale che con quello centrale, a Vienna.

Nell’ultima parte della sua vita tuttavia, dopo aver rinunciato al prestigioso incarico che ricopriva, Gian Rinaldo Carli si allontanò gradualmente dal riformismo illuminato che aveva contraddistinto la sua attività di scrittore, economista e uomo politico, per arroccarsi su posizioni sempre più conservatrici. Lo scoppio della Rivoluzione francese e il cieco furore mostrato dai patrioti giacobini nei confronti delle classi aristocratiche determinarono una vera e propria rottura con gli ideali dei Philosophes, testimoniato dal suo ultimo pamphlet contro Jean Jacques Rousseau e lo spirito dei lumi.

Dobbiamo ringraziare uomini come Gian Rinaldo Carli per il progresso filosofico e scientifico che contraddistingue la nostra epoca moderna.

I danni collaterali fatti dai virologi d’assalto e dagli economisti conniventi

I danni collaterali fatti dai virologi d’assalto e dagli economisti conniventi


Foto: dreamstime_l_1074074

Una certa mentalità vede nell’economia un gigantesco casinò in cui i suoi manager possono aprire o chiudere le porte a piacimento senza grosse conseguenze. Le entrate che si perdono oggi si possono recuperare domani. In questa prospettiva semplificata, è troppo facile dimenticare le catene di approvvigionamento, le piccole imprese, l’industria dei servizi, l’alimentazione e l’energia, e persino la fornitura di assistenza sanitaria. La vasta e globale matrice di scambi che costituisce il mercato globale viene caricaturizzata come un semplice progetto ingegneristico che può essere posto in stand by e poi riavviato a piacimento.

Questa potrebbe sembrare una posizione morale, come ci hanno detto: prima vengono le vite umane e poi l’economia, ma questo avviene solo se si separa l’economia dalla vita umana. Questo è sbagliato! L’economia è una preoccupazione umana legata all’intera esperienza della vita sulla terra. Non può essere accantonata. Del resto, la stessa erogazione dell’assistenza sanitaria non può essere separata dall’economia, come gli eventi hanno duramente rivelato.
I ministri si sono sottomessi alle direttive dei Centri per il controllo e di prevenzione delle malattie, e hanno ordinato agli ospedali di terminare gli interventi chirurgici selettivi, dando priorità ai pazienti COVID. Questo è stato un errore enorme, che sicuramente è costato molte vite.
Ogni volta che si parlava di danni collaterali e di dubbi sul fatto che le chiusure avrebbero potuto mitigare il virus, si veniva liquidati e caratterizzati come ignoranti e no vax. Nel frattempo, gli economisti che sapevano dei danni provocati, tacevano, schiacciati dalla paura di essere giudicati insensibili alle vite umane. Queste persone avevano una formazione eccellente in alcuni settori, ma pochi avevano studiato la storia delle malattie infettive o sapevano qualcosa sulle traiettorie dei virus, tanto meno avevano una conoscenza pratica della biologia cellulare. Erano ignoranti su questi argomenti come lo erano sull’astronomia e sulla divisione dell’atomo. Così la maggior parte di loro si è rassegnata e ha lasciato che i professionisti della salute pubblica facessero il loro corso. Si tratta di rimanere nella propria corsia, proprio come il mondo accademico moderno addestra le persone a fare e come i Big Media e le Big Tech svergognano le persone che non lo fanno.
Questo pensiero altamente settoriale ha causato gravi danni durante tutta la pandemia. Gli economisti avevano sbagliato a caratterizzare la salute pubblica che aveva alterato l’economia come una preoccupazione per domani. Il risultato è stato un disastro, e sono passati molti mesi durante i quali la vita come la conoscevamo è stata distrutta con la forza.
Le due persone che alla fine esercitarono una profonda influenza nel riaprire e sostanzialmente salvare il mondo furono i dottori Scott Atlas e Jay Bhattacharya. Atlas aveva una formazione medica e scientifica e aveva scritto diversi libri sulle politiche pubbliche che esploravano l’intersezione di entrambe le discipline. Bhattacharya aveva conseguito un dottorato in economia e una laurea in medicina. Questi due pensatori erano e sono unici nel comprendere che la separazione tra “denaro e vite” è davvero artificiale. Entrambe le discipline hanno a che fare con la vita umana, le scelte, i vincoli e i compromessi.
Sono stati impavidi nell’intrecciare le due preoccupazioni. L’economia non è un progetto ingegneristico. Si occupa della vita stessa. Lo stesso vale per la salute pubblica: la povertà e la disperazione portano alla morte con la stessa sicurezza di un virus mortale. Non è possibile riflettere sull’una senza includere le preoccupazioni dell’altra.
Il dollaro americano ha perso il 13,5% del suo valore da quando sono iniziati i blocchi, il che è un altro modo per dire che i salari stanno diminuendo, le tasse nascoste stanno aumentando e i risparmi vengono erosi. Improvvisamente, gli economisti si mettono in mostra per spiegare cosa fare al riguardo, mentre gli esperti di salute pubblica si affannano a cercare qualche altra malattia in libertà per riguadagnare il loro profilo pubblico. Sono in competizione con i climatologi che vengono arruolati per affrontare il problema del cambiamento climatico, anche se i media continuano a chiedere alla classe di magnati guidata da Bill Gates di intervenire su tutto nella speranza di ottenere sovvenzioni dalla sua fondazione.

Non possiamo vivere in questo modo. È ridicolo. Dite quello che volete degli scolastici del tardo Medioevo; almeno loro sapevano che c’era un’unità nella verità. Di conseguenza, studiavano tutto, cercando sempre interrelazioni tra le discipline. Fu in quel periodo che nacque la disciplina dell’Economia, non come branca dell’ingegneria o della tecnologia, ma come percorso per comprendere come le vite umane possano prosperare e per esaminare le forze all’opera nel mondo che lo rendono possibile. Non è che ogni intellettuale debba avere una conoscenza universale di tutto; dovrebbe averne quanto basta per non farsi abbindolare dalla falsa competenza degli altri.

Ancora oggi, la letteratura del 18° secolo offre ampie conoscenze. Adam Smith scrisse un libro sulle forze economiche e un altro sulle norme, la morale e la comunità umana. L’intera generazione di intellettuali che lo seguì fece un’impollinazione incrociata delle proprie idee. Per loro imparare da tutti era un obbligo morale.
Gli intellettuali della sanità pubblica non possono semplicemente fornire indicazioni per il futuro, settorializzando e liquidando le preoccupazioni economiche come una mera questione di dollari e centesimi. E allo stesso tempo, non ci si può aspettare che l’economia, come disciplina, dia un grande contributo alla comprensione umana fingendo che l’ignoranza delle questioni di base della salute e del benessere sia totalmente irrilevante per il loro compito.
Queste discipline hanno bisogno l’una dell’altra. L’isolamento intellettuale di qualsiasi tipo, specialmente quando è legato al potere governativo, dà vita a una pericolosa miopia, all’intolleranza e al fanatismo.