Testo del IL RACCONTO DELL’ANTICRISTO di Vladimir Sergeevic Soloviev. Con la presentazione del Cardinale Biffi

Testo del IL RACCONTO DELL’ANTICRISTO di Vladimir Sergeevic Soloviev. Con la presentazione del Cardinale Biffi

 

 

La Presentazione dell’Arcivescovo Giacomo Biffi (1928-2015)

Roma, 27 febbario 2007

 

1. Un pensatore e un profeta da riscoprire

La cultura filosofica occidentale non ha prestato finora molta attenzione a Vladimir Sergeevic Solovëv. Eppure Von Balthasar – cui nessuno vorrà disconoscere l’ampiezza dell’informazione e la perspicacia del giudizio – non teme di indicare il pensiero soloveviano come «la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna» (Gloria III, 266).
Solovëv è in realtà un autore di grande vigore e di indubbia originalità, che conosce e mette a frutto praticamente tutta la letteratura filosofica degli ultimi secoli. Ma fede cristiana e razionalità sono in lui ugualmente limpide e vive; anzi si illuminano e si alimentano reciprocamente: tanto basta a spiegarci perché al suo pensiero non sia riuscito di superare le censure del dogmatismo laicistico dominante.
Chi però lo avvicina senza pregiudizi, ne rimane di solito affascinato. È sperabile perciò che il suo benefico influsso possa crescere, ora che anche in Russia può irradiarsi liberamente.
Non intendo qui proporre neppure la più schematica introduzione alla riflessione soloveviana. Vorrei invece limitarmi a raccogliere da lui un ammonimento profetico, che mi pare di qualche rilevanza per la cristianità dei nostri giorni; un ammonimento che è espresso nell’ultima opera che egli ci ha lasciato: I tre dialoghi sulla guerra, il progresso, la fine della storia universale, e il racconto dell’Anticristo; un ammonimento che potrebbe appunto essere espresso con queste parole: Attenti all’Anticristo !

2. Il tema dell’Anticristo nella tradizione cristiana
Il discorso sull’Anticristo appartiene al patrimonio della Rivelazione e tutte le generazioni cristiane ne hanno sentito il fascino conturbante.
Già il Signore Gesù aveva preannunziato: «Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli» ( Mt 24,24). San Paolo parla dell’«uomo iniquo», del « figlio della perdizione», di « colui che si contrappone», che dovrà manifestarsi alla fine (cfr. 2 Ts 2,3.4). L’appellativo di «anticristo», che poi entrerà in tutta la tradizione, è usato solo da san Giovanni nella sua prima lettera: «Come avete udito, deve venire l’anticristo; di fatto ora molti anticristi sono apparsi» (1 Gv 2, 18).
Si vede da questi testi che dall’origine si sviluppa una interpretazione, per così dire, pluralistica: si tratta di molti oppositori al disegno salvifico del Padre, che nelle varie epoche si presentano camuffati da annunciatori del Vangelo e da portatori della salvezza.
Nella coscienza religiosa russa il tema dell’Anticristo ebbe sempre un rilievo notevole, almeno a partire dall’epoca del «raskol», cioè dello scisma del secolo XVII. Per il campo specificamente letterario basterà ricordare che la celebre trilogia di Merežkovskij, Cristo e l’Anticristo, è praticamente contemporanea allo scritto soleveviano che qui ci interessa.
Solovëv affronta esplicitamente l’argomento dell’Anticristo solo negli ultimi mesi di vita. Ma esso è sempre stato ben vivo in lui, addirittura a partire dall’età infantile. Si riferisce press’a poco al settimo anno di sua vita quanto egli rivela nell’autobiografia: «L’esaltazione religiosa mi spingeva a diventare monaco; e, in vista della possibile imminente venuta dell’Anticristo, desiderando il martirio per la fede, cominciai a infliggermi dei tormenti» .
Da che cosa è connotata la figura dell’Anticristo nel comune sentimento ecclesiale? Ci sono alcuni elementi propri e determinanti.
– È sostanzialmente e radicalmente un personaggio al servizio del male: il suo scopo è portare l’umanità alla perdizione; il suo mezzo è l’inganno. Poiché l’unico Salvatore del mondo è Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, primariamente contro la persona di Cristo sarà rivolta la sua azione malefica (cfr. 1 Gv 4,3).
– L’Anticristo esternamente appare come arruolato al servizio del bene e della nostra salvezza. E dal momento che la salvezza nel piano di Dio è contenuta nel Vangelo, egli si ammanta di cristianesimo, propugna «valori» che possono essere intesi come evangelici, usa un linguaggio abbastanza conforme a quello di Gesù, «così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» ( Mt 24,24). San Paolo parla di «falsi apostoli» che «si mascherano da apostoli di Cristo» (2 Cor 11,13); e aggiunge: «Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce» (2 Cor 11,14).
– Per riconoscere l’Anticristo nella sua vera natura, l’elemento decisivo è il suo rapporto con la persona dell’Uomo-Dio crocifisso e risorto. Su tutti gli argomenti egli può parlare quasi come un autentico discepolo del Signore, anzi come il Signore stesso di cui assumerà le sembianze e il linguaggio; ma a proposito dell’evento salvifico dell’incarnazione e della redenzione non gli è consentito di assimilarsi. Si sa che il cristianesimo non è primariamente un sistema di idee, è un fatto: può dirsi cristiano senza ambiguità non chi condivide in qualche misura e per qualche aspetto la dottrina evangelica, ma chi accoglie il fatto cristiano. Finché si discorre di concetti e di «valori», l’astuzia demoniaca può sempre avere buon gioco, ma davanti all’avvenimento non ci si può travestire.

3. La personalità di Solovëv
A evitare possibili malintesi, credo utile premettere all’esposizione del pensiero Solovëviano circa l’Anticristo il richiamo di alcuni tratti della stessa concreta personalità del filosofo.
Solovëv è stato un uomo che ha lavorato tutta la vita, a prezzo di molte incomprensioni e sofferenze, al servizio della unificazione del genere umano e della pace tra i popoli. Pur conservando sempre un grande amore per la sua terra e pur avendo una concezione altissima della missione storica del popolo russo, ha lottato decisamente contro le prevaricazioni del nazionalismo e contro ogni forma di rifiuto degli «altri». È tipica a questo proposito la posizione non conformistica da lui tenuta nella questione polacca e nella questione ebraica. Per la gente di Israele, che già ai suoi tempi raccoglieva una vastissima antipatia in Russia e fuori di Russia, ha elevato la sua ultima preghiera, pochi istanti prima di morire.
Ha affrontato con grande impegno speculativo i problemi sociali generali e ha propugnato prospettive audacissime di giustizia e di solidarietà. Al tempo stesso ha costantemente nutrito un grande amore per il «prossimo» nel senso evangelico del termine, cioè per l’uomo in carne e ossa che ci ritroviamo accanto nella vicenda della vita. La sua generosità coi poveri era proverbiale: arrivava perfino a cedere, durante il rigido inverno russo, scarpe e cappotto ai mendicanti che incontrava per la strada.
Lungo tutto l’arco dell’esistenza si è adoprato per l’unità delle Chiese cristiane, tanto che il moderno ecumenismo deve riconoscere in lui uno dei suoi più determinanti ispiratori.
Era di grande mitezza, del tutto alieno da ogni violenza. La sua critica alla pena di morte, e in genere a ogni sistema penale che non si proponga con la difesa della società anche la rinascita interiore del delinquente, è acuta e stringente. Dopo l’uccisione dello zar Alessandro II, egli pubblicamente indica al figlio -il nuovo zar -il dovere cristiano del perdono, sollevando l’indignazione dell’opinione pubblica e guadagnandosi la perdita della cattedra.
I bambini e gli animali erano misteriosamente attratti da lui: gli uccelli parevano addirittura aver ritrovato un redivivo Francesco d’Assisi.
Si nutriva quasi esclusivamente di legumi e di tè. Nella discussione della sua tesi di dottorato del 1880 ammette che sia lecito cibarsi anche di carne, o almeno che la questione è discutibile, ma ribadisce che non è affatto eticamente consentito all’uomo infliggere sofferenze agli animali .
Aveva un grande amore per la natura, e si rattristava nel vederla a poco a poco perire sotto i colpi dell’egoismo imprevidente e del potere distruttivo del moderno tecnicismo .
La pubblicazione di alcuni versi appassionati per «Saimaa» gli valse la diceria di una sua tardiva infatuazione per qualche fanciulla finlandese; ed egli fu costretto a chiarire che Saimaa era un lago di cui – come spesso gli capitava con le bellezze naturali – si era perdutamente innamorato. Tener presenti queste sparse note della sua biografia sarà utile a valutare al meglio e senza equivoci fastidiosi la sua raffigurazione dell’Anticristo.

4. Le ultime persuasioni di Solovëv
Quando comincia a scrivere i Tre dialoghi , Solovëv ha già perso la speranza di veder realizzati i grandiosi progetti per i quali aveva tanto faticato e patito: la libera teocrazia, la riconciliazione delle Chiese, l’instaurazione in terra del Regno di Dio; ideale, quest’ultimo, che egli aveva condiviso con il suo amico Dostoevskij, come egli stesso afferma nel primo dei tre discorsi commemorativi: «Egli [Dostoevskij] credeva non soltanto al passato Regno di Dio, ma anche a quello futuro, e comprendeva la necessità del lavoro e del sacrificio eroico per il suo avveramento» .
A quarantasei anni – quando stende queste pagine – è fisicamente stremato e spiritualmente deluso. Ma scoraggiamento non significa affatto perdita della fede. Anzi: nella pena la sua fede si è piuttosto affinata ed essenzializzata, e il suo carisma profetico sembra essersi fatto più penetrante, almeno a giudicare da alcune sue previsioni.
Puntando lo sguardo sull’incipiente secolo XX, Solovëv lo preannunzia come «l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni».
Poche settimane prima di morire confida a un amico: «Sento che si avvicinano tempi in cui i cristiani dovranno radunarsi per la preghiera nelle catacombe. La fede sarà perseguitata dappertutto, forse meno brutalmente che ai giorni di Nerone, ma più sottilmente e crudelmente: per mezzo della menzogna, dell’inganno, della falsificazione» .
Nella prefazione ai Tre dialoghi (datata alla domenica di Pasqua del 1900) egli coglie con perfetta lucidità – contro il naturalismo tolstojano che non conosce nè demòni, nè redentori – che il problema vitale per l’uomo è quello di prendere sul serio il potere del male e di credere nella necessità di un intervento salvifico trascendente: «È forse il male soltanto un difetto di natura, un’imperfezione che scompare da se con lo sviluppo del bene, oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe, sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto d’appoggio in un altro ordine di esistenza?» . Questo è l’interrogativo semplice e drammatico che è posto in apertura del libro; e questa è ancora oggi una delle questioni che più radicalmente turbano e dividono la famiglia umana.
Le persuasioni circa la fine della storia, che presiedono alla stesura di queste sue ultime pagine, sono esposte con chiarezza già in una lettera scritta nel 1896 al suo amico Eugenio Tavernier. Si riassumono in tre affermazioni, che sgombrano il campo da ogni illusorio ottimismo nel quale egli stesso si era precedentemente cullato.
– «Il vangelo sarà predicato in tutta la terra; vale a dire, la verità sarà proposta a tutto il genere umano, o a tutte le nazioni». (Cfr. Mt 24,14: «Questo Vangelo del Regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine»).
– «Il Figlio dell’uomo troverà soltanto poca fede sulla terra; vale a dire: i veri credenti formeranno una minoranza insignificante, mentre la maggior parte dell’umanità seguirà l’Anticristo ». (Cfr. Lc 18,8: « Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? »; Mt 24,13: «Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà fino alla fine, sarà salvato»; 2 Ts 2,1: «Prima dovrà venire l’apostasia»; 2 Tm 4,3: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina,… Gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole»). Perciò, nota a questo punto Solovëv, «bisogna abbandonare l’idea della potenza e della grandezza esteriore della teocrazia come scopo diretto e immediato della politica cristiana».
– «Tuttavia, dopo una lotta breve e accanita, il partito del male sarà vinto e la minoranza dei veri credenti trionferà completamente». (Cfr. Mt 24,31: «Manderà i suoi angeli… e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli»).
Ma – aggiunge Solovëv – «La certezza del trionfo definitivo per la minoranza dei credenti non deve condurci a un’attitudine passiva. Questo trionfo non può essere un atto puro e semplice, un atto assoluto dell’onnipotenza di Cristo, perché se così fosse tutta la storia del cristianesimo sarebbe superflua. È evidente che Gesù Cristo, per trionfare giustamente e ragionevolmente dell’Anticristo, ha bisogno della nostra collaborazione…» .
Queste idee, comunicate a Tavernier nel 1896, sono le stesse che, in forma di dramma, saranno sceneggiate quattro anni dopo ne “Il racconto dell’Anticristo”.

5. L’Anticristo
Siamo così arrivati al centro del nostro argomento.
Solovëv prevede che, dopo le grandi guerre del secolo XX, i popoli, persuasi dei gravi danni derivati dalle loro rivalità, daranno origine agli Stati Uniti d’Europa. «Ma… i problemi della vita e della morte, del destino finale del mondo e dell’uomo, resi più complicati e intricati da una valanga di ricerche e di scoperte nuove nel campo fisiologico e psicologico, rimangono come per l’addietro senza soluzione. Viene in luce soltanto un unico risultato importante, ma di carattere negativo: il completo fallimento del materialismo teoretico» .
Non è a dire però che ciò comporti l’estendersi e l’irrobustirsi della fede. Al contrario, l’incredulità sarà dilagante. Sicché, alla fine si profila per la civiltà europea una situazione che potremmo definire di vuoto. In questo vuoto appunto emerge e si afferma la presenza e l’azione dell’Anticristo.
Più che la vicenda immaginata da Solovëv – nella quale l’Anticristo prima viene eletto Presidente degli Stati Uniti d’Europa, poi è acclamato imperatore romano, si impadronisce del mondo intero, e alla fine si impone anche alla vita e all’organizzazione delle Chiese – mette conto di richiamare le caratteristiche che sono qui attribuite a questo personaggio.
Era – dice Solovëv – «un convinto spiritualista». Credeva nel bene e perfino in Dio, «ma non amava che se stesso». Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava « altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza» .
Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da parte dell’università di Tubinga.
Ma il libro che gli ha procurato fama e consenso universali porta il titolo: La via aperta verso la pace e la prosperità universale ; dove « si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di princìpi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche» .
È vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: «Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?» .
D’altronde egli «non aveva per Cristo un’ostilità di principio» . Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento.
Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili.
Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. «Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi» . Poi non gli andava «la sua assoluta unicità» .
Egli è uno dei tanti; o meglio – si diceva – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo di oggi. Soprattutto non poteva sopportare il fatto che Cristo sia vivo, tanto che istericamente si ripeteva: «Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto! È marcito, è marcito nel sepolcro…» .

6. Pacifismo, ecologismo, ecumenismo dell’Anticristo
Ma dove l’esposizione di Solovëv si dimostra particolarmente originale e sorprendente, tanto da meritare la più approfondita riflessione, è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista.
– Già s’è visto che la pace e la prosperità sono gli argomenti del capolavoro letterario del nostro eroe. Ma sono idee che egli riuscirà anche ad attuare. Nel secondo anno di regno, come imperatore romano e universale, potrà emettere il proclama: «Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e io ve l’ho data» . E proprio a questo proposito matura in lui la coscienza della sua superiorità sul Figlio di Dio: «Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace».
A ben capire il pensiero di Solovëv su questo punto gioverà citare quanto egli dice nel terzo dialogo per bocca del Signor Z., l’interlocutore che lo rappresenta: «Cristo è venuto a portare sulla terra la verità, ed essa, come il bene, innanzi tutto divide». «C’è dunque la pace buona, la pace cristiana, basata su quella divisione che Cristo è venuto a portare sulla terra, precisamente con la separazione tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna; e c’è la pace cattiva, la pace del mondo, fondata sulla mescolanza o unione esteriore di ciò che interiormente è in guerra con se stesso» . Quanto al pensiero di Solovëv sulla guerra nel senso più comune e ovvio del termine, ricordiamo che il primo dei tre dialoghi è tutto dedicato alla critica del pacifismo tolstojano e della dottrina della non-violenza. La guerra – vi si afferma – è certamente un male, ma bisogna riconoscere che sia nella vita dei singoli sia in quella delle nazioni si danno situazioni in cui alla violenza malvagia non basta rispondere con gli ammonimenti e le buone parole. Possiamo dire che, secondo Solovëv, mentre gli ideali di pace e di fraternità sono valori cristiani indiscutibili e vincolanti, tali non possono essere ritenuti il pacifismo e la teoria della non-violenza che finiscono col risolversi troppo spesso in una resa sociale alla prevaricazione e in un abbandono senza difesa dei piccoli e dei deboli alla merce degli iniqui e dei prepotenti.
– L’Anticristo sarà un ecologista o almeno un animalista. Sono termini moderni che ovviamente Solovëv non usa; ma la sua descrizione è abbastanza chiara: «li nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione, non solo amico degli uomini ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi» .
– L’Anticristo infine si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare «con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza» . Convocherà i rappresentanti di tutte le confessioni cristiane a «un concilio ecumenico da tenere sotto la sua presidenza» .
La sua azione mirerà a cercare il consenso di tutti attraverso la concessione dei favori concretamente più apprezzati.
«Se non siete capaci di mettervi d’accordo tra voi – dirà ai convenuti dell’assise ecumenica – spero di mettere d’accordo io tutte le parti, dimostrando a tutti il medesimo amore e la medesima sollecitudine per soddisfare la vera aspirazione di ciascuno» . Attuerà praticamente questo disegno, ridonando ai cattolici il potere temporale del papa, erigendo per gli ortodossi un istituto per la raccolta e la custodia di tutti i preziosi cimeli liturgici della tradizione orientale, creando a vantaggio dei protestanti un centro di libera ricerca biblica lautamente finanziato.
È un ecumenismo «quantitativo», che gli riuscirà quasi perfettamente: le masse dei cristiani entreranno nel suo gioco. Soltanto un gruppetto di cattolici con a capo il papa Pietro II, un esiguo numero di ortodossi guidati dallo staretz Giovanni e alcuni protestanti che si esprimono per bocca del professor Pauli resisteranno al fascino dell’Anticristo.
Costoro arriveranno ad attuare l’ecumenismo della verità, radunandosi in un’unica Chiesa e riconoscendo il primato di Pietro. Ma sarà un ecumenismo «escatologico», realizzato quando ormai la storia è pervenuta alla sua conclusione: «Così – racconta Solovëv – si compì l’unione delle Chiese nel cuore di una notte oscura su un’altura solitaria. Ma l’oscurità della notte venne a un tratto squarciata da un vivido splendore e in cielo apparve un grande segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» .

7. L’allusione al tolstojsmo
In questa descrizione dell’Anticristo, così ricca di particolari suggestivi e inattesi, Solovëv ha avuto presente qualche modello concreto? È innegabile che in queste pagine si alluda soprattutto al «nuovo cristianesimo» di cui in quegli anni si taceva efficace banditore Lev Tolstoj.
Tra il filosofo e il romanziere ci sono stati incontri, scambi di lettere, qualche reciproco positivo apprezzamento. Ma in definitiva l’incomprensione tra i due grandi uomini e l’incompatibilità tra le loro rispettive posizioni sono state nette e sostanziali. Il che è tanto più significativo, se si pensa che su molte questioni specifiche (come la pena di morte, l’aspirazione alla pace universale, la lotta al gretto nazionalismo, il vivo sentimento della natura) le loro prospettive appaiono largamente coincidenti.
In una lettera del 1894, che costituisce forse il massimo tentativo di riavvicinamento Solovëv scriveva al suo antagonista: «Le ragioni del nostro contendere possono essere tutte condensate in un punto concreto: la risurrezione di Cristo» . Ma questo è in realtà il cuore non solo del cristianesimo, ma di ogni totale visione del mondo, almeno nella prospettiva soloveviana.
Nel suo «Vangelo» Tolstoj riduce tutto il cristianesimo alle cinque regole di comportamento, che egli desume dal Discorso della montagna:
1 . Non solo non devi uccidere, ma non devi neanche adirarti contro il tuo fratello.
2 . Non devi cedere alla sensualità, al punto che non devi desiderare neanche la tua propria moglie.
3 . Non devi mai vincolarti con giuramento.
4 . Non devi resistere al male, ma devi applicare fino in fondo e in ogni caso il principio della non-violenza.
5 . Ama, aiuta, servi il tuo nemico.
Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono bensì da Cristo, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale del Figlio del Dio vivente. Perciò nel «Vangelo» di Tolstoj Cristo è a ben guardare superfluo, e anzi non c’è posto ne per l’Uomo-Dio ne per il Risorto dai morti .
La celebre risposta dello staretz Giovanni all’Anticristo, nel racconto soloveviano, è anche risposta a Tolstoj e confutazione diretta della sua predicazione: «Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da lui, giacche noi sappiamo che in lui dimora corporalmente la pienezza della Divinità» . Tutti i «valori» – ivi compreso quello di una moralità elevatissima e raffinata come quella tolstojana – non hanno per noi senso alcuno, se ci sono dati avulsi dall’unica vera ricchezza che è la persona adorabile del Salvatore e l’avvenimento della nostra redenzione.
Certo Solovëv non identifica materialmente il grande romanziere con la figura «storica» dell’Anticristo, se non altro perché il Padrone del mondo è delineato come un uomo di molto senso pratico e di scarse preoccupazioni moralistiche. Ma ha intuito con straordinaria chiaroveggenza che proprio il tolstojsmo sarebbe diventato lungo il secolo XX il veicolo dello svuotamento sostanziale del messaggio evangelico, sotto la formale esaltazione di un’etica e di un amore per l’umanità che si presentano come «valori» cristiani.
In effetti, il dramma di molti giovani generosi dei nostri tempi, affascinati per esempio dall’idea della non-violenza e dell’antimilitarismo, è appunto che sono convinti in buona fede di essersi posti alla scuola di Cristo, in modo anche più autentico e coerente di quello tradizionale, mentre sono discepoli inconsapevoli di uno scrittore eccelso, nobile, ben intenzionato, ma radicalmente pagano.

8. L’ammonimento profetico di Solovëv
Qual è allora l’«ammonimento profetico» di cui parlavamo all’inizio?
Verranno giorni, ci dice Solovëv – e anzi sono già venuti, diciamo noi – quando nella cristianità si tenderà a risolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso e razionale della fede, in una serie di «valori» facilmente esitabili sui mercati mondani.
Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso, nell’esortazione a rispettare la natura; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (cfr. 1 Tm 3,15), scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo.
Da questo pericolo, ci avvisa il più grande dei filosofi russi, noi dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo «tolstojano» ci renderebbe infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, il cristianesimo che ha al suo centro lo «scandalo» della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore dell’uomo, non è «traducibile» in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. Gesù Cristo è una «pietra», come egli ha detto di sè: su questa «pietra», o affidandosi, si costruisce o ci si va a inzuccare: «Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà» ( Mt 21,44).

9. « Avvenimento » e « valori »
È indubitabile che il cristianesimo sia prima di ogni altra cosa «avvenimento»; ma è altrettanto indubitabile che questo avvenimento propone e sostiene dei «valori» irrinunciabili. Non si può, per amore di dialogo, sciogliere il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più; ma non si può neppure disistimare i valori autentici, quasi fossero qualcosa di trascurabile. Occorre dunque un discernimento.
– Ci sono dei valori assoluti (o, come dicono i filosofi, trascendentali): tali sono, ad esempio, il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora, ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede anche ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza.
-Ci sono valori relativi (o categoriali), come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura l’atteggiamento di dialogo ecc. Questi meritano un giudizio più articolato, che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi all’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla strada della salvezza.
Allo stesso modo, nel cristiano, questi stessi valori – solidarietà, pace, natura, dialogo – possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia; è, per esempio, il caso di san Francesco d’Assisi. Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nella esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari , allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia, si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo .

10. « Isba mia, buco mio, salvatemi! »
Nella prefazione ai Tre dialoghi Solovëv racconta che, ai suoi tempi, in qualche governatorato della Russia aveva cominciato a diffondersi una nuova religione, che aveva estremamente semplificato la sua attività di culto. I suoi adepti «dopo aver praticato in qualche angolo buio nella parete dell’isba un buco di media grandezza… applicavano ad esso le labbra e ripetevano molte volte con insistenza: isba mia, buco mio, salvatemi!» .
In questa incredibile aberrazione – nota Solovëv – c’era almeno il pregio di un uso corretto dei termini: «l’isba la chiamavano isba e il buco… lo chiamavano buco».
Nel nostro mondo c’è invece di peggio, continua implacabilmente il filosofo. «L’uomo ha perduto l’antica schiettezza. La sua isba ha ricevuto la denominazione di “regno di Dio in terra”; quanto al buco, si è cominciato a chiamarlo “nuovo evangelo”». [Qui la polemica con Tolstoj è scoperta e addirittura feroce ].
Ma il cristianesimo senza Cristo e senza la buona notizia di una reale e personale risurrezione «è poi la stessa cosa di uno spazio vuoto, come un semplice buco, praticato in una isba di contadini» .
Ebbene, a me pare che anche e soprattutto oggi siamo alle prese con la cultura della pura e semplice «apertura», della libertà senza contenuti, del niente esistenziale. Questa è la più grande tragedia del nostro tempo. Ma la tragedia diventa ancora più grande quando a questo «niente», a queste «aperture», a questi «buchi» si attribuisce per amore di dialogo qualche ingannevole etichetta cristiana.
Fuori di Cristo – persona concreta, realtà viva, avvenimento – c’è solo il «vuoto» dell’uomo e la sua disperazione. In Cristo, che è il «plèroma» del Padre, l’uomo trova la sua pienezza e la sua sola speranza.

 

 

IL RACCONTO DELL’ANTICRISTO

di Vladimir Sergeevic SolovievMosca,

(16 gennaio 1853 – Uzkoe, 31 luglio 1900)

Il Signor Z. (legge) C’era in questo tempo, tra i credenti spiritualisti, un uomo ragguardevole – molti lo chiamavano superuomo -, il quale era lontano dall’infanzia della mente e dall’infanzia del cuore.

Egli era ancor giovane, ma grazie al suo genio eccelso a trentatré anni godeva fama di
grande pensatore, di scrittore e di riformatore sociale. Cosciente di
possedere in sé una grande forza spirituale, era sempre stato un
convinto spiritualista e la sua vivida intelligenza gli aveva sempre
indicato la verità di ciò a cui si deve credere: il bene. Dio, il Messia. Egli
credeva in ciò, ma non amava che se stesso. Credeva in Dio, ma nel
fondo dell’anima involontariamente e senza rendersene conto preferiva
se stesso a Lui. Credeva nel Bene, ma l’Occhio dell’Eternità, che vede
tutto, sapeva che quest’uomo si sarebbe inchinato davanti alla potenza
del male, appena appena questa riuscisse a corromperlo, non con
l’inganno dei sentimenti e delle basse passioni e nemmeno con la
suprema attrattiva del potere, ma solleticando il suo smisurato amor
proprio. Del resto questo amor proprio non era ne un istinto
incosciente ne una folle pretesa. A parte il suo talento eccezionale, la
sua bellezza e la sua nobiltà, anche le altissime dimostrazioni di
moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza, parevano
giustificare a sufficienza lo sconfinato amor proprio che nutriva per sé il
grande spiritualista, l’asceta, il filantropo. Se gli si rinfacciava di essere
così in abbondanza fornito di doni divini, egli vi scorgeva i segni
particolari di una eccezionale benevolenza dall’alto verso di lui e si
considerava come secondo dopo Dio, il figlio di Dio, unico nel suo
genere. In una parola egli riconosceva in sé quelle che erano le
caratteristiche del Cristo. Ma la coscienza della sua alta dignità all’atto
pratico non prendeva in lui l’aspetto di un obbligo morale verso Dio e il
mondo, ma piuttosto l’aspetto di un diritto e di una superiorità in
rapporto agli altri e soprattutto in rapporto al Cristo. Ma non aveva per
Cristo una ostilità di principio. Gli riconosceva l’importanza e la dignità
di Messia; però con tutta sincerità vedeva in lui soltanto il suo augusto
precursore. Per quella mente ottenebrata dall’amor proprio erano
inconcepibili l’azione morale del Cristo e la Sua assoluta unicità. Egli
ragionava così: “Cristo è venuto prima di me; io mi manifesto per
secondo, ma ciò che viene dopo in ordine di tempo, in natura è primo.
Io giungo ultimo alla fine della storia precisamente perché sono il
salvatore perfetto, definitivo. Quel Cristo è il mio precursore. La sua
missione era di precedere e preparare la mia apparizione”. E in base a
quest’idea, il grande uomo del secolo XXI applicava a se tutto ciò che è
detto nel Vangelo circa il secondo avvento, spiegando questo avvento
non come il ritorno di Cristo stesso, ma come la sostituzione del Cristo
precursore col Cristo definitivo, cioè se stesso.
In questo stadio «l’uomo del futuro» si presenta ancora in modo ben
definito e originale. Considerava il suo rapporto con Cristo alla stessa
guisa di Maometto, un uomo retto che non si può accusare di nessuna
cattiva intenzione.
La preferenza piena di amor proprio, che egli fa di se stesso nei
confronti del Cristo, verrà giustificata da quest’uomo con un
ragionamento di questo genere: «Il Cristo è stato il riformatore
dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io
invece sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità, in
parte emendata e in parte incorreggibile. Darò a tutti gli uomini ciò che
è loro necessario. Il Cristo, come moralista ha diviso gli uomini secondo
il bene e il male, mentre io li unirò con i benefici che sono ugualmente
necessari ai buoni e ai cattivi. Sarò il vero rappresentante di quel Dio
che fa sorgere il suo sole e per buoni e per i cattivi e distribuisce la
pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Il Cristo ha portato la spada, io porterò
la pace. Egli ha minacciato alla terra il terribile ultimo giudizio. Però
l’ultimo giudizio sarò io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di
giustizia ma anche un giudizio di clemenza. Ci sarà anche la giustizia ma
non una giustizia compensatrice bensì una giustizia distributiva.
Opererò una distinzione fra tutti e a ciascuno darò ciò che gli è
necessario.
E in questa magnifica disposizione, egli attende un chiaro appello di
Dio che lo chiami all’opera della nuova salvezza dell’umanità, una
testimonianza palese e sorprendente che lo dichiari il figlio maggiore, il
primogenito diletto da Dio. Attende e nutre il suo amor proprio con la
coscienza delle proprie virtù e delle proprie doti sovraumane; infatti egli
è, come si dice, un uomo di una moralità irreprensibile e di un genio
straordinario.
Questo giusto, pieno di orgoglio, attende la suprema sanzione per
cominciare la propria missione che porterà alla salvezza del l’umanità,
ma è stanco di aspettare. Ha già compiuto trent’anni e altri tre anni
trascorrono. Ed ecco gli balena nella mente un pensiero e con un
brivido ardente gli penetra fino al midollo delle ossa: «E se?… E se non
fossi io, ma quell’altro… Il Galileo… S’egli non fosse il mio precursore,
ma il vero primo ed ultimo? Però in tal caso dovrebbe essere vivente…
Dov’è dunque Lui?… Se a un tratto mi venisse incontro… in questo
momento, qui… Che Gli direi? Dovrei inchinarmi davanti a lui come
l’ultimo cristiano scimunito e borbottare stupidamente come un
qualsiasi cittadino russo: “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me
peccatore”, oppure prostrarmi a terra come una donnetta polacca? Io
che sono un genio luminoso, il superuomo. No, mai! ». E a questo
punto al posto dell’antico ragionevole e freddo rispetto per Dio e per il
Cristo, germoglia e si sviluppa nel suo cuore dapprima una specie di
timore e poi l’invidia ardente che opprime e contrae tutto il suo essere;
infine l’odio furioso si impadronisce della sua anima. «Sono io, io, non
Lui! Lui non è tra i viventi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è
risorto, non è risorto! È marcito, è marcito nel sepolcro, come
l’ultima…».
Con la schiuma alla bocca, a balzi convulsi, si lancia fuori dalla sua casa
e dal suo giardino e fugge nella notte fonda e buia per un sentiero
roccioso… Si placa il suo furore e ad esso succede una disperazione
arida e pesante come quelle rocce, oscura come quella notte. S’arresta
sull’orlo di un precipizio che cade a picco e ode di lontano il confuso
fragore di un torrente che scorre in basso fra le rocce. Un’angoscia
intollerabile gli opprime il cuore. A un tratto qualcosa si agita dentro di
lui. «Lo chiamerò per chiedergli ciò che debbo fare?». E nell’oscurità gli
appare un volto dolce e triste. «Egli ha compassione di me… No, mai!
Non è risorto, non è risorto! ». E si getta nell’abisso. Ma qualche cosa di
elastico come una colonna d’acqua, lo trattiene sospeso nell’aria, egli si
sente sconvolto come da una scossa elettrica, e una forza arcana lo
ributta indietro. Per un istante perde la conoscenza e si risveglia, in
ginocchio a qualche passo dal precipizio. Davanti a lui si stagliava una
figura avvolta in un nebuloso nimbo fosforescente e due occhi gli
trapassavano l’anima con un sottile insopportabile bagliore…
Vede quei due occhi penetranti e senza darsi conto se provenga dal suo
intimo o dall’esterno ode una strana voce sorda, perfettamente
contenuta e nello stesso tempo netta, metallica e priva affatto di anima
come quella di un fonografo. E questa voce gli dice: «Mio amato figlio,
in te è riposto tutto il mio affetto… Perché non sei ricorso a me? Perché
hai onorato l’altro, il cattivo e il padre suo! Io sono dio e padre tuo. Ma
quel mendicante, il crocifisso è estraneo a me e a te. Non ho altri figli
all’infuori di te. Tu sei l’unico, il solo generato, uguale a me. Io ti amo e
non esigo nulla da te. Così tu sei bello, grande, possente. Compi la tua
opera nel tuo nome e non nel mio. Io non provo invidia nei tuoi
confronti.
Ti amo e non richiedo nulla da parte tua. L’altro, colui che tu
consideravi come dio, ha preteso dal suo figlio obbedienza e una
obbedienza illimitata fino alla morte di croce e sulla croce lui non lo ha
soccorso. Io non esigo nulla da te, ma parimenti ti aiuterò. Per amor
tuo, per il tuo merito, per la tua eccellenza e per il mio amore puro e
disinteressato verso di te, io ti aiuterò. Ricevi il mio spirito. Come prima
il mio spirito ti ha generato nella bellezza, così ora ti genera nella forza».
A queste parole dello sconosciuto, le labbra del superuomo si sono
involontariamente socchiuse, due occhi penetranti si sono accostati
vicinissimi al suo volto ed ha provato la sensazione come se un getto
pungente e ghiacciato penetrasse in lui e riempisse tutto il suo essere. E
nel medesimo tempo si è sentito pervaso da una forza inaudita, da un
vigore, da una agilità e da un entusiasmo mai provati. In quello stesso
istante sono scomparsi a un tratto il fantasma luminoso e i due occhi e
qualcosa ha sollevato il superuomo sopra la terra e d’un colpo lo ha
deposto nel suo giardino.
Il giorno dopo, non solo i visitatori del grande uomo, ma perfino i
servitori furono stupiti per il suo aspetto particolare, quasi ispirato. Ma
sarebbero rimasti ancora più colpiti se avessero potuto vedere con quale
rapidità e facilità soprannaturali, rinchiuso nel suo studio, egli scriveva la
sua celebre opera La via aperta verso la pace e la prosperità universale.
I precedenti libri e l’azione sociale del superuomo avevano incontrato
dei severi critici, ancorché essi fossero per la maggior parte soprattutto
religiosi e perciò privi di qualsiasi autorità; infatti quello di cui parlo è il
tempo dell’Anticristo. E così, pochi erano stati coloro che avevano
potuto ascoltare questi critici, quando indicavano in tutti gli scritti e in
tutti i discorsi «dell’uomo del futuro» i segni di un amor proprio
assolutamente intenso ed eccezionale ed esprimevano dubbi di fronte
all’assenza di una vera semplicità, di rettitudine e di bontà di cuore.
Ma con questa sua nuova opera egli riuscì ad attirare a sé perfino alcuni
che in precedenza erano stati suoi critici ed avversari. Questo libro,
scritto dopo l’avventura dell’abisso, manifesta in lui la potenza di un
genio senza precedenti. È qualcosa che abbraccia insieme e mette
d’accordo tutte le contraddizioni. Vi si uniscono il nobile rispetto per le
tradizioni e i simboli antichi con un vaste e audace radicalismo di
esigenze e direttive sociali e politiche, uni sconfinata libertà di pensiero
con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto
individualismo con una ardente dedizione al bene comune, il più elevato
idealismo in fatte di principi direttivi con la precisione completa e la
vitalità delle soluzioni pratiche. Tutto questo risultava così unito e legato
insieme con tale genialità d’arte che ogni singolo pensatore, ogni uomo
d’azione, poteva facilmente scorgere ed accettare l’insieme soltanto
sotto l’angolo particolare del proprio personale punto di vista. E questo
senza nulla sacrificare della verità in se stessa, senza elevarsi per essa
effettivamente al di sopra del proprio io, senza assolutamente rinunciare
di fatto al loro esclusivismo, senza nulla correggere circa gli errori di
opinione o di tendenza, senza colmare per nulla possibili lacune. Questo
libro meraviglioso è subito tradotto nelle lingue di tutte le nazioni
progredite e anche il alcune di quelle arretrate. Per un anno intero, in
tutte le parti del mondo, migliaia di giornali sono pieni zeppi della
pubblicità degli editori e dell’entusiasmo dei critici. Edizioni
economiche, col ritratto dell’autore, si diffondono a milioni di esemplari
e l’intero mondo civile (a quell’epoca cioè quasi tutto il globo terrestre)
si riempie della gloria dell’uomo incomparabile, grande, unico! Nessuno
osa ribattere a questo libro che appare a ciascuno come rivelazione della
verità integrale. Tutto il passato vi è trattato con così perfetta giustizia,
tutto il presente apprezzato con tanta imparzialità, sotto tutti gli aspetti
e il futuro migliore è accostato in modo così evidente e palpabile, che
ciascuno dice: «Ecco qui ciò di cui abbiamo bisogno; ecco un ideale che
non è utopia, ecco un progetto che non è una chimera». E il prodigioso
scrittore non se lo trascina tutti, ma ognuno lo trova gradevole e in tal
modo si compie la parola del Cristo.
«Sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accoglierete, un
altro verrà nel suo proprio nome e voi l’accoglierete». Infatti per essere
accolto bisogna essere piacevole.
Veramente alcune pie persone, pur lodando con calore il libro, si stanno
a domandare perché mai non vi sia nominato nemmeno una volta il
Cristo, ma altri cristiani ribattono: «Sia lodato Iddio! Nei secoli passati
tutte le cose sacre sono state rese logore da ogni sorta di zelatori senza
vocazione ed ora uno scrittore profondamente religioso deve essere
molto circospetto. E visto che il contenuto del libro è permeato dal
vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale,
che volete ancora?».
Questa risposta fa tornare l’accordo fra tutti. Poco dopo la
pubblicazione della Via aperta, che fece del suo autore l’uomo più
popolare che fosse mai comparso al mondo, si doveva tenere a Berlino
l’assemblea costituente internazionale dell’Unione degli Stati Uniti
d’Europa. Questa Unione, istituita dopo una serie di guerre esterne ed
interne, collegate con la liberazione dal giogo dei Mongoli e che aveva
mutato in modo considerevole la carta dell’Europa, questa Unione era
esposta al pericolo di uno scontro, ora non più tra le nazioni, ma tra i
partiti politici e sociali. I reggitori della politica generale europea,
appartenenti alla potente confraternita dei framassoni, si rendevano
conto della carenza di una autorità generale esecutiva. Raggiunta al
prezzo di tanta fatica, l’Unione europea era ad ogni istante sul punto di
disgregarsi. Nel consiglio dell’Unione o tribunale universale (Comité
permanent universel) non si era raggiunta l’unanimità, perché i veri
massoni, votati alla causa, non erano riusciti a impadronirsi di tutti i
seggi. I membri indipendenti del Comitato stringevano fra loro degli
accordi separati e questo fatto prospettava la minaccia di una nuova
guerra. Allora gli «adepti» decisero di rimettere il potere esecutivo nelle
mani di una sola persona, munita dei pieni poteri necessari. Il principale
candidato era un membro segreto dell’ordine, «l’uomo del futuro». Era
l’unica personalità che godesse di una rinomanza universale. Era per
professione scienziato nel ramo della balistica e per posizione sociale un
ricco capitalista; per questo aveva potuto annodare ovunque amichevoli
relazioni con uomini appartenenti alla finanza e all’esercito. In altri
tempi meno civili si sarebbe levata contro di lui la circostanza che la sua
origine era coperta da una densa nube di incertezza. Sua madre, donna
di facili costumi, era largamente nota in tutti e due gli emisferi, e troppi
uomini di diverse condizioni avevano uguale motivo di ritenerlo loro
figlio. Queste circostanze non potevano certo avere alcuna importanza
in un secolo così progredito che perfino gli era toccato in sorte di essere
l’ultimo. L’uomo del futuro fu eletto presidente a vita degli Stati Uniti
d’Europa con la quasi unanimità di suffragi e, quando comparve alla
tribuna in tutto lo splendore della sua sovrumana giovanile bellezza e
della sua forza e con eloquenza ispirata espose il suo programma
universale, l’assemblea sedotta ed affascinata, in uno slancio di
entusiasmo, decise di conferirgli senza votazione l’onore supremo: il
titolo di imperatore romano. Il congresso si chiuse fra il tripudio
generale e il grande eletto emanò un proclama che cominciava così:
«Popoli della terra! Vi do la mia pace! » e terminava con queste parole:
«Popoli della terra! Si sono compiute le promesse! L’eterna pace
universale è assicurata! Ogni tentativo di turbarla incontrerà
immediatamente una insuperabile resistenza. Giacché d’ora in poi c’è
sulla terra una potenza centrale più forte di tutte le altre potenze, sia
prese separatamente che prese insieme. Questa potenza, che nulla può
vincere e che prevale su tutti, appartiene a me il plenipotenziario, l’eletto
dell’Europa, l’imperatore di tutte le sue forze. Il diritto internazionale
possiede finalmente quella sanzione che fino adesso gli mancava. E
d’ora innanzi nessuna potenza oserà dire: guerra, quando io dico: pace.
Popoli della terra, la pace sia con voi!». Questo manifesto produsse
l’effetto desiderato. Ovunque fuori dell’Europa, specialmente in
America, sorsero dei forti partiti fautori dell’impero che costrinsero i
loro governi ad unirsi, a condizioni diverse, con gli Stati Uniti di
Europa, sotto l’autorità suprema dell’imperatore romano. Qua e là in
Asia e in Africa rimanevano ancora delle tribù e dei sovrani
indipendenti. L’imperatore, con un esercito poco numeroso, ma scelto,
formato da truppe russe, tedesche, polacche, ungheresi e turche, compie
una passeggiata militare dall’Asia orientale fino al Marocco e senza
grande spargimento di sangue sottomette tutti i recalcitranti. In tutte le
regioni di queste due parti del mondo, egli nomina dei governatori, presi
tra i magnati indigeni educati all’europea e a lui devoti. In tutti i paesi
pagani, la popolazione, abbagliata ed affascinata, ne fa una divinità
superiore. In un anno egli fonda la monarchia universale nel senso vero
e proprio della parola. I germi della guerra vengono estirpati fin dalla
radice. La lega universale della pace si riunisce per l’ultima volta,
pronuncia un entusiastico panegirico per il grande fondatore della pace
e poi si scioglie, non avendo più ragione di esistere. Nel secondo anno
di regno, l’imperatore romano e universale emette un nuovo proclama:
«Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e ve l’ho data. Ma la pace
è bella soltanto con la prosperità. Colui che nella pace è minacciato dai
mali della miseria non ha che una pace senza gioia. Venite dunque ora a
me tutti voi che avete fame e freddo che io vi sazierò e vi riscalderò». E
poi annuncia la semplice e completa riforma sociale che aveva già
tracciata nel suo libro e aveva ormai affascinato tutti gli spiriti nobili e
sensati. Ora grazie alla concentrazione nelle sue mani di tutte le finanze
del mondo e di colossali proprietà fondiarie, egli poté realizzare questa
riforma, venendo incontro ai desideri dei poveri, senza scontentare in
modo sensibile i ricchi. Ciascuno cominciò a ricevere secondo le sue
capacità.
Il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di
compassione e non solo amico degli uomini, ma anche amico degli
animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose
i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali
furono da lui incoraggiate in tutti i modi. La più importante di queste
sue opere fu la solida instaurazione in tutta l’umanità dell’uguaglianza
che risulta essere la più essenziale: l’uguaglianza della sazietà generale.
Questo evento si compì nel secondo anno del suo regno. La questione
sociale, economica, fu definitivamente risolta. Ma se la sazietà
costituisce il primo interesse per chi ha fame, per quelli che sono sazi
sorge il desiderio di qualche cosa d’altro.
Perfino gli animali, quando sono sazi, vogliono di solito dormire, ma
anche divertirsi. Tanto più l’umanità, che sempre post panem ha reclamato
circenses.
L’imperatore-superuomo comprende bene che cosa occorre per le
moltitudini a lui sottoposte. In quel tempo giunge in Roma a lui
dall’Estremo Oriente un grande operatore di miracoli, circondato da
una fitta nube di strane avventure e di bizzarri racconti fiabeschi.
Questo operatore di miracoli si chiamava Apollonio; era senza alcun
dubbio un uomo di genio, metà asiatico metà europeo, vescovo
cattolico in partibus infidelium, riuniva in sé in modo meraviglioso il
possesso delle conclusioni più recenti e delle applicazioni tecniche della
scienza occidentale, con la conoscenza e la capacità di servirsi di tutto
ciò che è veramente fondato e importante nel misticismo dell’Oriente.
Strabilianti saranno i risultati di una combinazione di tal genere!
Apollonio giunge fra l’altro all’arte mezzo scientifica e mezzo magica di
captare e di guidare a propria volontà l’elettricità dell’atmosfera, e fra il
popolo si dice che egli fa discendere il fuoco dal cielo. Del resto, pur
colpendo l’immaginazione della folla con svariati inauditi prodigi, non è
sceso ancora ad abusare della propria potenza per scopi particolari. Così
ecco che quest’uomo viene incontro al grande imperatore, lo saluta
chiamandolo vero figlio di Dio; e gli dichiara di aver trovato nei libri
segreti dell’Oriente predizioni che designano direttamente lui,
l’imperatore, come ultimo salvatore che giudicherà l’universo e propone
di mettere al suo servizio la propria persona e tutta la propria arte.
Affascinato, l’imperatore lo accoglie come un dono del cielo e, dopo
averlo decorato con titoli fastosi, non si separerà mai più da lui. E così i
popoli della terra, colmati di benefici dal loro signore, ottengono, oltre
la pace universale e la generale sazietà, anche la possibilità di dilettarsi
costantemente con i prodigi e le apparizioni più sorprendenti. Intanto
finisce il terzo anno di regno del superuomo.
Dopo la felice soluzione del problema politico e sociale, viene alla
ribalta la questione religiosa. Fu lo stesso imperatore a sollevarla,
affrontandola anzitutto nei suoi rapporti col cristianesimo. Questa era la
situazione del cristianesimo in quel tempo. Nonostante una fortissima
diminuzione del numero dei suoi fedeli — su tutto il globo terrestre
non rimanevano più di quarantacinque milioni di cristiani — esso si era
elevato e reso più compatto moralmente, guadagnando in qualità ciò
che aveva perduto in numero. Non si contavano ormai fra i cristiani
degli individui che non avessero più per il cristianesimo alcun interesse
spirituale. Le diverse confessioni religiose avevano subito una
diminuzione abbastanza similare nel numero dei fedeli, cosicché si era
approssimativamente mantenuta fra di esse la stessa proporzione
numerica di prima; per quanto concerne i loro sentimenti reciproci,
anche se all’inimicizia non era subentrato un ravvicinamento completo,
quella si era notevolmente addolcita e le opposizioni avevano perduto la
loro primitiva asprezza. Il Papato da tempo era stato scacciato da Roma
e dopo lunghe peregrinazioni aveva trovato un asilo a Pietroburgo, alla
condizione di non svolgere propaganda nella città e nell’interno del
paese. Il Papato si era notevolmente semplificato in Russia. Senza
modificare nella sostanza il rigoroso ordinamento dei suoi collegi e dei
suoi uffici, aveva dovuto rendere maggiormente spirituale il carattere
della loro attività e similmente ridurre al minimo la fastosità del suo
rituale e delle sue cerimonie. Molte costumanze strane ed allettanti,
anche se non erano state abolite formalmente, andarono in disuso da sé.
In tutti gli altri paesi, specialmente nell’America del Nord, la gerarchia
cattolica possedeva ancora molti rappresentanti di forte volontà, di
infaticabile energia e in una posizione indipendente: questi con maggior
forza di prima stringevano in pugno l’unità della Chiesa cattolica e le
conservavano il suo carattere internazionale cosmopolita. Per quanto
concerne il protestantesimo, in testa al quale continuava a mantenersi la
Germania, specie dopo che una parte considerevole della Chiesa
anglicana si era riunita alla Chiesa cattolica, esso si era sbarazzato delle
sue tendenze negatrici estreme, i cui sostenitori erano passati
apertamente all’indifferentismo religioso e all’incredulità. Nella Chiesa
evangelica erano rimasti soltanto i sinceri credenti, in testa ai quali
stavano uomini che riunivano in sé una vasta dottrina insieme ad una
profonda religiosità e che sempre più rafforzavano in sé l’aspirazione a
riprodurre in se stessi la viva immagine del vero cristianesimo primitivo.
L’ortodossia russa, dopo che gli avvenimenti politici avevano mutato la
posizione ufficiale della Chiesa, aveva perduto molti milioni di sedicenti
fedeli, adepti solo di nome; in compenso provava la gioia di essere unita
alla parte migliore dei vecchi credenti e perfino ai seguaci di molte sette
animate da uno spirito religioso positivo. Questa Chiesa rinnovata,
senza aumentare di numero, prese a sviluppare le sue forze spirituali,
che manifestava in particolar modo nella sua lotta interna contro le sette
estremiste che si erano moltiplicate tra il popolo e nella società e non
esenti da elementi demoniaci e satanici.
Durante i primi due anni del nuovo regime, tutti i cristiani ancora
impauriti e stanchi dalla serie di guerre e rivoluzioni precedenti,
dimostravano, nei riguardi del nuovo sovrano e delle sue pacifiche
riforme, in parte una benevola aspettativa, in parte una decisa simpatia e
perfino un ardente entusiasmo. Ma, al terzo anno, con la comparsa del
grande mago, molti, ortodossi, cattolici ed evangelici, cominciarono a
provare serie apprensioni e antipatie. Ci si pose a leggere con maggiore
attenzione e a commentare con più vivacità i testi evangelici e apostolici
che parlavano del principe di questo mondo e dell’Anticristo.
L’imperatore, subodorando da certi indizi che si stava addensando una
tempesta, decise di mettere le cose in chiaro al più presto. Al principio
del quarto anno di regno, egli pubblicò un manifesto indirizzato a tutti i
fedeli cristiani di ogni confessione, invitandoli a scegliere o nominare
dei rappresentanti muniti di pieni poteri, in vista di un concilio
ecumenico da tenere sotto la sua presidenza. La residenza imperiale a
quel tempo era stata trasferita da Roma a Gerusalemme. La Palestina
era allora una provincia autonoma, abitata e governata in prevalenza da
Ebrei. Gerusalemme era una città libera diventata in seguito città
imperiale. I luoghi sacri ai cristiani erano rimasti intatti; ma sulla vasta
piattaforma di Haram-es-Scerif, partendo da Birket-Israin e dall’attuale
caserma da un lato fino alla moschea di El-Aksa e alle «Scuderie di
Salomone» dall’altro lato, s’innalzava un enorme edificio che
comprendeva oltre a due piccole moschee antiche, uno spazioso
«tempio» imperiale, destinato all’unione di tutti i culti, due fastosi palazzi
imperiali con biblioteche, musei e dei locali particolari per esperimenti
ed esercizi di magia. In questo edificio mezzo tempio e mezzo palazzo,
doveva aprirsi, alla data del 14 settembre, il concilio ecumenico. Poiché
la confessione evangelica non ha clero nel vero senso della parola, i
prelati cattolici e ortodossi, per dare, conforme al desiderio
dell’imperatore, una certa omogeneità alla rappresentanza di tutte le
confessioni della cristianità, decisero di permettere che partecipasse al
concilio un certo numero di laici, noti per la loro pietà e la loro
dedizione agli interessi della Chiesa; e una volta ammessi i laici non si
poteva escludere il basso clero, secolare e regolare. In tal modo il
numero complessivo dei mèmbri del concilio superò i tremila, ma circa
mezzo milione di pellegrini cristiani invase Gerusalemme e tutta la
Palestina. Fra i mèmbri del concilio tre erano posti in particolare
evidenza.
In primo luogo il papa Pietro II che stava per diritto a capo della
sezione cattolica del concilio. Il suo predecessore era morto mentre era
in viaggio per recarsi al concilio e il conclave, riunitesi a Damasco, aveva
eletto all’unanimità il cardinale Simone Barionini che aveva assunto il
nome di Pietro II. Proveniva da una povera famiglia della provincia di
Napoli ed era diventato famoso come predicatore dell’ordine dei
Carmelitani e inoltre per aver reso grandi servizi nella lotta contro una
setta satanica, che si era affermata a Pietroburgo e nei suoi dintorni
pervertendo non solo gli ortodossi ma anche i cattolici. Divenuto
arcivescovo di Moghilev e in seguito fatto cardinale, era già in anticipo
designato alla tiara. Era un uomo di cinquant’anni di media statura, di
costituzione robusta, di colorito rosso, naso adunco, folte sopracciglia.
Era ardente e impetuoso, parlava con foga con ampi gesti e trascinava,
più che non li persuadesse, i suoi uditori. Verso il padrone del mondo, il
nuovo Papa dimostrava diffidenza e antipatia, specie dopo il fatto che il
defunto pontefice, mentre si recava al concilio, aveva ceduto alle
insistenze dell’imperatore e aveva nominato cardinale l’esotico vescovo
Apollonio, già cancelliere imperiale e gran mago universale, che Pietro
riteneva dubbio cattolico, ma autentico impostore. Capo effettivo degli
ortodossi, benché in forma non ufficiale era lo starets Giovanni assai
noto fra il popolo russo. Benché figurasse ufficialmente come vescovo
«a riposo» egli non viveva in nessun monastero e andava sempre m giro
da tutte le parti. Sul suo conto correvano varie leggende. Alcuni
assicuravano che era Fjodor Kuzmic risorto, vale a dire l’imperatore
Alessandro morto circa tre secoli prima. Altri andavano più avanti e
affermavano che egli era il vero starets Giovanni, cioè l’apostolo
Giovanni il Teologo che non era mai morto e si era manifestato
apertamente negli ultimi tempi. Da parte sua egli non diceva nulla circa
la sua origine e circa la sua giovinezza. Era adesso un vecchio di molti
anni ma aitante, con la canizie dei capelli ricciuti e della barba che tirava
ad una tinta giallastra e perfino verde; era di statura alta e corpo magro,
ma aveva guance piene e leggermente rosee occhi vivi e scintillanti e
un’espressione dolcemente bonaria ne!la faccia e nel modo di parlare;
portava sempre una tunica bianca e un candido mantello. A capo della
delegazione evangelica del concilio stava l’eruditissimo teologo tedesco,
professor Ernst Pauli. Era un vecchietto di bassa statura, asciutto, con
fronte spaziosa naso aguzzo, mento rasato e liscio. I suoi occhi
brillavano di una particolare fiera bonomia. Ad ogni momento si
stropicciava le mani, scuoteva la testa, aggrottava le ciglia in modo
terribile e spingeva ‘in avanti le labbra; intanto con occhi sfavillanti
pronunciava con voce cupa dei suoi interrotti: «So! Nun! Ja! So also!».
Indossava l’abito di cerimonia: cravatta bianca, e lunga redingote da
pastore con alcune decorazioni.
L’apertura del concilio fu imponente. Per due terzi dell’immenso tempio
consacrato «all’unione di tutti i culti» erano disposte panche e altri sedili
per i mèmbri del concilio, l’altro terzo era occupato da un alto palco,
dove oltre al trono dell’imperatore e ad un altro un po’ più basso
destinato al gran mago – egli era infatti cardinale cancelliere imperiale –
si trovavano più indietro file di poltrone riservate ai ministri, ai dignitari
di corte e ai segretari di Stato. Ai lati c’erano ancor più lunghe file di
poltrone di cui non si conosceva la destinazione. Nelle tribune si
trovavano delle orchestre di musicanti e nella piazza vicina erano
schierati due reggimenti della guardia e una batteria per le salve d’onore.
I membri del concilio avevano già celebrato i loro servizi divini nelle
varie chiese in quanto l’apertura del concilio doveva avere un carattere
completamente laico. Quando l’imperatore fece il suo ingresso insieme
al gran mago ed al seguito, e l’orchestra attaccò “la marcia dall’umanità
unita” che serviva da inno imperiale e internazionale, tutti i membri del
concilio si alzarono m piedi e agitando i loro cappelli gridarono tre volte
a gran voce: «Vivat! Urrah! Hoch!». L’imperatore, ritto in piedi accanto
al trono, tese il braccio con maestosa affabilità e disse con voce sonora e
gradevole: «Cristiani di tutte le confessioni! Miei amatissimi sudditi e
fratelli! Fin dagli inizi del mio regno, che l’Altissimo ha benedetto con
opere così meravigliose e gloriose, non una volta ho avuto motivo di
essere scontento di voi; voi avete sempre fatto il vostro dovere secondo
fede e coscienza. Ma questo per me non basta. Il sincero amore ch’io
provo per voi, fratelli amatissimi, anela di essere ricambiato. Voglio che
non per senso di dovere, ma per un sentimento di amore che viene dal
cuore, voi mi riconosciate per vostro vero capo, in ogni azione
intrapresa per il bene dell’umanità. E così oltre alle cose che faccio per
tutti, vorrei darvi un segno di particolare benevolenza. Cristiani, come
potrei io rendervi felici? Che posso darvi non come miei sudditi, ma
come miei correligionari, miei fratelli? Cristiani! Ditemi ciò che vi sta
più a cuore nel cristianesimo affinché io possa dirigere i miei sforzi in
questa direzione». Egli si arrestò ed attese. Nel tempio correva un
brusio soffocato. I mèmbri del concilio bisbigliavano tra loro. Papa
Pietro, gesticolando con calore, spiegava qualcosa a quelli che gli
stavano attorno. Il professor Pauli scuoteva la testa e faceva schioccare
le labbra con accanimento. Lo starets Giovanni, piegandosi verso un
vescovo d’Oriente e un cappuccino, suggeriva loro qualcosa con voce
sommessa. Dopo aver atteso qualche minuto, l’imperatore si rivolse di
nuovo al concilio con lo stesso tono affabile di prima, ma in cui
risonava appena un’impercettibile nota di ironia: «Cari cristiani, disse,
comprendo come vi riesca difficile darmi una risposta diretta. Voglio
darvi una mano. Disgraziatamente da tempo così immemorabile voi vi
siete frazionati in sette e partiti diversi che forse tra voi non c’è
nemmeno un argomento che susciti la vostra comune simpatia. Ma se
non siete capaci di mettervi d’accordo tra voi, spero di mettere
d’accordo io tutte le parti, dimostrando a tutti il medesimo amore e la
medesima sollecitudine per soddisfare la vera aspirazione di ciascuno.
Cari cristiani! So che molti fra voi, e non gli ultimi, hanno più caro di
tutto nel cristianesimo quell’autorità spirituale che esso da ai suoi
legittimi rappresentanti e non per loro particolare vantaggio, ma senza
dubbio per il bene comune, poiché su questa autorità si basa il giusto
ordine spirituale, nonché la disciplina morale, indispensabile per tutti.
Cari fratelli cattolici! Oh, come capisco il vostro modo di vedere e come
vorrei appoggiare la mia potenza sull’autorità del vostro capo spirituale!
E perché non crediate che si tratti di lusinghe e di vane parole, noi
dichiariamo solennemente: per nostra autocratica volontà, il vescovo
supremo di tutti i cattolici, il papa romano, da questo momento è
reintegrato nel suo seggio di Roma, con tutti i diritti e le prerogative di
un tempo, inerenti a questa condizione e a questa cattedra e che un
giorno gli furono conferiti dai nostri predecessori a cominciare da
Costantino il Grande. Ma per questo, fratelli cattolici, voglio soltanto
che dall’intimo del cuore riconosciate in me il vostro unico difensore ed
unico protettore. Coloro che per coscienza e sentimento mi
riconoscono tale vengano qui vicino a me». E indicava i posti vuoti sul
palco. Con esclamazioni di gioia — «Gratias agimus! Domine! Salvum fac
magnum imperatorem» — quasi tutti i principi della Chiesa cattolica,
cardinali e vescovi, la maggior parte dei credenti laici e più della metà
dei monaci salirono sul palco e dopo essersi profondamente inchinati
davanti all’imperatore, andarono ad occupare le poltrone loro destinate.
Ma giù, in mezzo all’assemblea, diritto e immobile come una statua di
marmo, il papa Pietro II rimase al suo posto. Tutti coloro che prima gli
stavano intorno ora si trovavano sul palco. Allora la schiera ormai
diradata dei monaci e dei laici, che era rimasta in basso, si spostò e si
strinse attorno a lui in un anello serrato da cui si udiva un mormorio
contenuto: «Non praevalebunt, non praevalebunt portae inferi».
Guardando con sorpresa il papa immobile, l’imperatore alzò di nuovo la
voce: «Cari fratelli! So che fra voi ci sono di quelli per i quali le cose più
preziose del cristianesimo sono la sua santa tradizione, i vecchi simboli,
i cantici e le preghiere antiche, le icone e le cerimonie del culto. E in
realtà che cosa vi può essere di più prezioso di questo per un’anima
religiosa? Sappiate dunque, miei diletti, che oggi ho firmato lo statuto e
fissata la dotazione di larghi mezzi per il museo universale
dell’archeologia cristiana che verrà fondato nella nostra gloriosa città
imperiale di Costantinopoli, con lo scopo di raccogliere, studiare e
conservare tutti i monumenti dell’antichità ecclesiastica, principalmente
quelli della Chiesa orientale; vi prego poi che domani eleggiate fra voi
una commissione con l’incarico di studiare con me le misure da
prendere per riavvicinare, quanto più possibile, i costumi e le usanze
della vita attuale, alla tradizione e alle istituzioni della Santa Chiesa
Ortodossa! Fratelli ortodossi! quelli che hanno in cuore questa mia
volontà, quelli che per intimo sentimento mi possono chiamare loro
vero capo e signore vengano qui sopra». E la maggior parte dei prelati
dell’Oriente e del Nord, la metà dei vecchi credenti e più della metà dei
preti, dei monaci e dei laici ortodossi salirono sul palco e con grida di
gioia, dando uno sguardo di sfuggita ai cattolici che già vi stavano assisi
con aria di importanza. Ma lo starets Giovanni non si mosse e diede un
forte sospiro. E quando la folla attorno a lui si fu alquanto diradata,
lasciò il suo banco e andò a sedersi vicino a papa Pietro e al suo gruppo.
Dietro di lui si avviarono anche tutti gli altri ortodossi che non erano
saliti sul palco. L’imperatore prese di nuovo a parlare: «Mi sono noti fra
voi, cari cristiani, anche coloro che nel cristianesimo apprezzano più di
tutto la personale sicurezza in fatto di verità e la libera ricerca riguardo
alla Scrittura. Non occorre che mi diffonda su quello che ne penso io.
Voi sapete forse che fin dalla mia prima giovinezza ho scritto sulla
critica biblica una voluminosa opera, che a quel tempo ha fatto un certo
rumore e ha dato inizio alla mia notorietà. Ed ecco che probabilmente
in ricordo di questo fatto l’università di Tubinga in questi giorni mi ha
rivolto la richiesta di accettare la sua laurea ad honorem di dottore in
teologia. Ho ordinato di rispondere che accettavo con gioia e
gratitudine. E oggi, insieme al decreto per la fondazione del museo
d’archeologia cristiana, ho firmato quello per la creazione di un istituto
universale per la libera ricerca sulla Sacra Scrittura in tutte le sue parti e
da tutti i punti di vista, nonché per lo studio di tutte le scienze ausiliarie,
con un bilancio annuale di un milione e mezzo di marchi. Quelli di voi
che hanno a cuore queste mie sincere disposizioni e che con puro
sentimento possono riconoscermi per loro capo sovrano, li prego di
venire qui, accanto al nuovo dottore in teologia». E le belle labbra del
grande uomo si allungarono lievemente in uno strano sorriso. Più della
metà dei sapienti teologi si mosse verso il palco, sia pure con qualche
indugio e qualche esitazione. Tutti volsero lo sguardo verso il professor
Pauli che pareva abbarbicato al suo seggio. Egli abbassava
profondamente il capo, curvandosi e contraendosi. I sapienti teologi che
erano saliti sul palco rimasero confusi, anzi uno di essi a un tratto agitò
il braccio e saltò giù direttamente in basso accanto alla scala e,
zoppicando un po’, corse a raggiungere il professor Pauli e la minoranza
rimasta con lui. Pauli sollevò il capo, si alzò con un movimento un po’
indeciso, si diresse verso i banchi rimasti vuoti e, accompagnato dai suoi
correligionari che avevano tenuto fermo, venne con essi a sedersi
accanto allo starets Giovanni, al papa Pietro e ai loro gruppi.
La grande maggioranza dei mèmbri del concilio si trovava sul palco, ivi
compresa quasi tutta la gerarchia dell’Oriente e dell’Occidente. In basso
erano rimasti soltanto tre gruppi di uomini che si erano avvicinati gli uni
agli altri e che si stringevano accanto allo starets Giovanni, al papa
Pietro e al professor Pauli.
Con accento di tristezza, l’imperatore si rivolse a loro dicendo:«Che
cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io
non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla
maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento
popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?». Allora simile a
un cero candido si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con
dolcezza: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel
cristianesimo è Cristo stesso. Lui Stesso e tutto ciò che viene da Lui,
giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza
della Divinità. Da te, o sovrano, noi siamo pronti a ricevere ogni bene,
ma soltanto se nella tua mano generosa noi possiamo riconoscere la
santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi tu fare per noi,
eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù
Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è resuscitato e che verrà di
nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore, come il vero
precursore del suo secondo glorioso avvento». Egli tacque e piantò lo
sguardo nel volto dell’imperatore. In costui avveniva qualche cosa di
tremendo. Nel suo intimo si stava scatenando una tempesta infernale,
simile a quella che aveva provato nella notte fatale. Aveva perduto
interamente il suo equilibrio interiore e tutti i suoi pensieri si
concentravano nel tentativo di non perdere la padronanza di se stesso
anche nelle apparenze esteriori e di non svelare se stesso prima del
tempo. Fece degli sforzi sovrumani per non gettarsi con urla selvagge
sull’uomo che gli aveva parlato e sbranarlo coi denti. A un tratto sentì la
voce ultraterrena a lui ben nota che gli diceva: “Taci e non temere
nulla”. Egli rimase in silenzio. Pero il suo volto, rabbuiato e col pallore
della morte, era divenuto convulso, mentre i suoi occhi sprizzavano
scintille. Frattanto durante il discorso dello starets Giovanni il gran
mago che stava seduto tutto ravvolto nel suo ampio mantello tricolore
che ne nascondeva la porpora cardinalizia, sembrava occupato a
compiere sotto di esso arcane manipolazioni, i suoi occhi dallo sguardo
concentrato scintillavano e le sue labbra si movevano. Dalle finestre
aperte del tempio si scorgeva avvicinarsi un’enorme nuvola nera. Lo
starets Giovanni che non staccava i suoi occhi sbigottiti e spaventati dal
volto dell’imperatore rimasto ammutolito a un tratto diede un sussulto
per lo spavento e voltandosi indietro gridò con voce strozzata: «Figlioli,
è l’Anticristo!». Nel tempio scoppiò un tremendo colpo di tuono e
simultaneamente si vide saettare una folgore enorme a forma di cerchio
che avviluppò il vegliardo. Per un istante tutti rimasero come annichiliti
e quando i cristiani si furono ripresi dallo stordimento, lo starets
Giovanni giaceva a terra cadavere.
L’imperatore, pallido ma calmo, si rivolse all’assemblea dicendo: «Voi
avete veduto il giudizio di Dio. Io non volevo la morte di alcuno, ma il
mio Padre celeste vendica il suo figlio prediletto. La questione è risolta.
Chi oserà contestare i voleri dell’Altissimo? Segretari! Scrivete: il
concilio ecumenico di tutti i cristiani, dopo che il fuoco venuto dal cielo
ebbe folgorato un insensato avversario della maestà divina, riconosce
all’unanimità il regnante imperatore di Roma, come suo capo e supremo
sovrano».
A un tratto una parola squillante e distinta si propagò per il tempio:
«Contradicitur». Il papa Pietro II si alzò in piedi e col volto imporporato,
tutto tremante di collera, sollevò il pastorale in direzione
dell’imperatore: «Nostro unico Sovrano è Gesù Cristo, il Figlio del Dio
vivente. Ma ciò che tu sei l’hai sentito. Vattene da noi Caino fratricida!
Via da noi, vaso del demonio! Per l’autorità di Cristo, io, servo dei servi
di Dio, ti scaccio per sempre dal recinto divino, cane schifoso, e ti
consegno al padre tuo, Satana! Anatema, anatema, anatema!».
Mentre egli parlava, il gran mago si agitava inquieto sotto il suo
mantello: più fragoroso dell’ultimo anatema rimbombò un colpo di
tuono e l’ultimo papa cadde a terra inanimato. «Così per mano del padre
mio periscono i miei nemici», disse l’imperatore. «Pereant, pereant!», si
misero a gridare tremanti i principi della Chiesa. Egli si volse e,
appoggiandosi alla spalla del gran mago uscì lentamente dalla porta che
stava dietro il palco, accompagnato dalla folla dei suoi seguaci. Nel
tempio eran rimasti i due cadaveri e un cerchio ristretto di cristiani
mezzo morti dalla paura. L’unico che non aveva perduto il suo sangue
freddo era il professor Pauli. Il terrore generale pareva stimolare tutte le
forze del suo spirito.
Era mutato anche nel suo aspetto esteriore e aveva assunto un’aria
maestosa e ispirata. Con passo risoluto, salì sul palco e, sedutosi su uno
dei seggi lasciati liberi dai segretari di stato, prese un foglio di carta e si
mise a scrivere. Quando ebbe terminato, si alzò in piedi e a voce alta
lesse: «Alla gloria del nostro unico Salvatore Gesù Cristo. Il concilio
ecumenico delle chiese di Dio, riunito a Gerusalemme, poiché il nostro
beatissimo fratello Giovanni, rappresentante della cristianità orientale,
ha convinto il grande impostore e nemico di Dio di essere l’autentico
Anticristo, predetto dalla Sacra Scrittura e poiché il nostro beatissimo
padre Pietro, rappresentante della cristianità occidentale, con la
scomunica lo ha secondo legge e giustizia scacciato per sempre dalla
Chiesa di Dio oggi davanti ai corpi di questi due martiri della verità,
testimoni di Cristo, delibera: di rompere ogni rapporto con lo
scomunicato e la sua esecrabile accozzaglia, di ritirarsi nel deserto e
attendere l’immancabile venuta del nostro vero sovrano Gesù Cristo»
Una grande animazione s’impadronì della folla ed echeggiarono voci
possenti che dicevano: «Adveniat, adveniat cito! Komm, Herr Jesu, komm!».
Il professor Pauli aggiunse ancora un poscritto e poi lesse.
«Approvando all’unanimità questo primo ed ultimo atto dell’ultimo
concilio ecumenico, apponiamo le nostre firme» e fece un gesto d’invito
all’assemblea. Tutti si affrettarono a salire sul palco e a firmare. Alla fine
lui pure firmò a grossi caratteri gotici: Duorum defunctorum testium
locum tenens Ernst Pauli. «Ora andiamocene con la nostra arca
dell’alleanza dell’ultimo Testamento! », disse indicando i due cadaveri.
I corpi furono issati su barelle. Lentamente al canto di inni in latino in
tedesco e in slavonico ecclesiastico, i cristiani si avviarono alla porta di
Haram-es-Scerif. Qui il corteo fu fermato da un messo dell’imperatore,
un segretario di stato, accompagnato da un ufficiale con un plotone
della guardia. I soldati si schierarono presso la porta e da un podio il
segretario di stato lesse quanto segue: «Ordine di sua maestà divina: per
istruire il popolo cristiano e metterlo in guardia contro uomini
malintenzionati fomentatori di discordie e di scandali, abbiamo ritenuto
opportuno disporre che i corpi dei due sediziosi, uccisi dal fuoco del
cielo, siano esposti in pubblico nella strada dei Cristiani (Haret-enNazàra) vicino alla porta principale del tempio di questa religione
chiamata Santo Sepolcro o altrimenti Resurrezione, perché tutti possano
persuadersi della realtà della loro morte.
I loro ostinati partigiani, poiché malignamente respingono ogni nostro
beneficio e da insensati chiudono gli occhi davanti alle evidenti
manifestazioni della Divinità stessa, grazie alla nostra misericordia e alla
nostra intercessione presso il Padre celeste, sono esenti dalla pena di
morte, mediante il fuoco del cielo, che si sono meritata e rimangono in
completa libertà, con l’unica proibizione per il bene comune, di abitare
nelle città e negli altri luoghi popolati affinché non possano sviare e
sedurre con le loro malvagie invenzioni la gente ingenua e semplice».
Quando ebbe finito, otto soldati a un cenno dell’ufficiale si avvicinarono
alle barelle dove giacevano i corpi.
«Si compia ciò che è scritto», disse il professor Pauli, e i cristiani che
portavano le barelle le cedettero senza una parola ai soldati i quali si
allontanarono dalla porta di nord-ovest; dal canto loro i cristiani,
uscendo dalla porta di nord-est, si diressero rapidamente dalla città
verso Gerico, passando accanto al monte degli Ulivi, per la strada che i
gendarmi e due reggimenti di cavalleria avevano in precedenza
sgombrato dalla folla del popolo. Essi decisero di aspettare alcuni
giorni, sulle colline deserte vicino a Gerico. L’indomani mattina
giunsero da Gerusalemme dei pellegrini cristiani loro amici e
raccontarono ciò che era accaduto a Sion. Dopo il pranzo di corte, tutti
i mèmbri del concilio erano stati convocati nell’immensa sala del trono
(dove si supponeva sorgesse il trono di Salomone) e l’imperatore,
rivolgendosi ai rappresentanti della gerarchia cattolica, aveva dichiarato
che il bene della Chiesa esigeva da essi l’immediata elezione di un degno
successore dell’apostolo Pietro, ma che nelle presenti circostanze di
tempo l’elezione doveva avvenire con procedura sommaria. La presenza
di lui, l’imperatore, capo e rappresentante di tutto il mondo cristiano,
valeva largamente a compensare l’omissione delle formalità rituali, e che
in nome di tutti i cristiani, egli proponeva al Sacro Collegio di eleggere il
suo diletto amico e fratello Apollonio, affinché lo stretto legame
esistente fra loro rendesse duratura e indissolubile l’unione della Chiesa
con lo Stato per il bene comune. Il Sacro Collegio si ritirò in una camera
particolare per il conclave e dopo un’ora e mezzo ritornò col nuovo
papa Apollonio. Frattanto mentre si procedeva all’elezione, l’imperatore
con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza, cercava di
persuadere i rappresentanti degli ortodossi e degli evangelici a mettere
fine ai vecchi dissidi in vista di una nuova grande epoca storica del
cristianesimo, rendendosi garante con la sua parola che Apollonio
avrebbe saputo abolire una volta per sempre gli abusi storici del potere
papale. Convinti da queste sue parole, i rappresentanti dell’ortodossia e
del protestantesimo avevano steso l’atto di unione delle Chiese e
quando Apollonio comparve nella sala con i cardinali tra le grida di
giubilo di tutta l’assemblea, un vescovo greco e un pastore evangelico gli
presentarono il loro documento. «Accipio et approbo et laetificatur cor
meum», disse Apollonio apponendo la sua firma. «Io sono del pari un
vero ortodosso e un vero evangelico, come sono un vero cattolico» —
aggiunse egli, scambiando un amichevole abbraccio col Greco e col
Tedesco. Poi si avvicinò all’imperatore, il quale lo abbracciò e lo tenne a
lungo tra le braccia. In quel momento dei puntini luminosi
cominciarono a volteggiare in tutte le direzioni nel palazzo e nel tempio;
essi ingrandirono e si mutarono in ombre luminose di esseri strani; fiori
mai veduti sulla terra cadevano dall’alto, riempiendo l’aria di un
profumo arcano. Si diffondevano dall’alto deliziosi suoni di strumenti
musicali fino allora sconosciuti che andavan dritto all’anima e
afferravano il cuore, mentre voci angeliche di invisibili cantori
glorificavano i nuovi sovrani del cielo e della terra. Frattanto uno
spaventoso rumore sotterraneo echeggiava nell’angolo nord-ovest del
palazzo centrale, sotto il kubbet-el-aruach vale a dire sotto la cupola
delle anime, dove secondo la tradizione musulmana, si trova l’entrata
dell’inferno. Quando gli astanti, su invito dell’imperatore, si mossero
verso quella parte, tutti intesero chiaramente innumerevoli voci acute e
penetranti — mezzo fanciullesche e mezzo diaboliche — che
esclamavano: «È giunta l’ora, liberateci o salvatori, o salvatori!». Ma
quando Apollonio stringendosi verso la rupe, per tre volte gridò verso il
basso qualcosa in una lingua sconosciuta, le voci tacquero e il rumore
s’interruppe. Frattanto una folla immensa di popolo proveniente da
tutte le parti, aveva circondato Haram-es-Scerif. Al calar della notte
l’imperatore, col nuovo papa, aveva fatto la sua apparizione sulla
gradinata orientale, sollevando «una tempesta di entusiasmo». Egli
salutò affabilmente in tutte le direzioni, mentre Apollonio traeva da
grandi canestri, postigli innanzi dai cardinali segretari, e lanciava in aria
senza interruzione magnifiche candele romane, razzi e fontane di fuoco
che accendendosi al tocco delle sue mani si trasformavano in perle
fosforescenti e in luminosi arcobaleni; tutto questo toccando terra si
mutava in innumerevoli fogli di carta di vari colori, con indulgenze
plenarie senza condizioni per tutti i peccati passati, presenti e futuri.
L’esultanza popolare sorpassò ogni limite. A dire il vero alcuni
affermavano di aver visti coi propri occhi quei fogli d’indulgenza
trasformarsi in rospi e serpenti estremamente schifosi. Nondimeno
l’enorme maggioranza della gente andava in visibilio e la festa popolare
si protrasse ancora alcuni giorni; durante questo tempo il nuovo papataumaturgo arrivò a compiere dei prodigi così sbalorditivi e incredibili
che sarebbe del tutto inutile darne una narrazione. Nello stesso tempo
sulle alture deserte di Gerico i cristiani si dedicavano al digiuno e alla
preghiera. La sera del quarto giorno sull’imbrunire, il professor Pauli e
nove compagni, cavalcando degli asini e trainando una carretta,
penetrarono in Gerusalemme; passando per vie traverse, vicino a
Haram-es-Scerif, sboccarono a Haret-en-Nazàra e raggiunsero l’entrata
del tempio della Resurrezione, dove sul pavimento giacevano i corpi di
papa Pietro e dello starets Giovanni. A quell’ora la via era deserta: tutta
la città al completo si era riversata a Haram-es-Scerif. I soldati di guardia
erano immersi in un sonno profondo. I nuovi arrivati trovarono che i
corpi non erano stati toccati dal processo di decomposizione e
addirittura non erano diventati rigidi e grevi. Li issarono su barelle, li
ricoprirono con mantelli che avevano E portato con sé e, percorrendo
le stesse vie traverse, ritornarono dai loro fratelli, ma non appena
ebbero posate a terra le barelle lo spirito della vita rientrò nei due morti.
Essi si agitarono, cercando di sbarazzarsi dei mantelli che li
avviluppavano. Tutti presero ad aiutarli con grida di gioia e ben presto i
due resuscitati si alzarono in piedi sani e salvi. E il redivivo starets
Giovanni prese così a parlare: «Ecco dunque, figlioli miei, che noi non
ci siamo lasciati. Ed ecco ciò che vi dirò adesso: l’ora è giunta che si
adempia l’ultima preghiera di Cristo per i suoi discepoli: che essi siano
uno, come Lui stesso col Padre è uno. Così per questa unità in Cristo,
figlioli miei, veneriamo il nostro carissimo fratello Pietro. Gli sia
concesso finalmente di pascere le pecore di Cristo. Proprio così,
fratello!». Ed egli abbracciò Pietro. A questo punto si avvicinò il
professor Pauli: «Tu es Petrus!» — disse rivolto al papa —. «Jetzt ist es ja
gründlich erwiesen und ausser jeden Zweifel gesetzt». Gli strinse forte la mano
con la destra, mentre tendeva la sinistra allo starets Giovanni,
dicendogli: «So also, Väterchen, nun sind wir ja Eins in Christo». Così si
compì l’unione delle Chiese nel cuore di una notte oscura, su un’altura
solitaria. Ma l’oscurità della notte venne a un tratto squarciata da un
vivido splendore e in cielo apparve il grande segno: una donna vestita di
sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle.
L’apparizione restò per qualche tempo immobile, poi si mosse
lentamente verso sud. Il papa Pietro alzando il pastorale, esclamò:
«Ecco la nostra insegna! Andiamo sulle sue orme!». Ed egli si
incamminò nella direzione indicata dall’apparizione insieme ai due
vegliardi e a tutta la folla dei cristiani, verso il monte di Dio, verso il
Sinai…
(A questo punto il lettore si ferma).
La Dama. Perché dunque non continuate?
Il Signor Z. Il manoscritto non va più avanti. Il padre Pansofio non ha
potuto portare a termine il suo racconto. Già ammalato mi narrava ciò
che aveva in mente di scrivere in seguito — «non appena sarò guarito»
— diceva. Ma non guarì e la parte finale del suo racconto è sepolta con
lui nel monastero di Danilovo.
La Dama. Ma voi ricorderete certamente quello che vi ha narrato:
raccontatecelo dunque.
Il Signor Z. Ne ricordo soltanto i tratti principali. Dopo che i capi
spirituali e i rappresentanti della cristianità si furono ritirati nel deserto
dell’Arabia, dove da ogni parte affluirono a loro folle di fedeli zelatori
della verità, il nuovo papa poté senza alcun ostacolo corrompere,
attraverso i suoi prodigi e miracoli, tutto il resto dei cristiani superficiali
che non si erano ricreduti circa l’Anticristo. Egli dichiarò che, con la
potenza delle sue chiavi, aveva aperto le porte fra il mondo terrestre e
quello d’oltretomba e in effetti divenne un fenomeno abituale la
comunicazione dei vivi coi morti e anche degli uomini coi demoni;
inoltre si svilupparono nuove forme inaudite di orgia mistica e di
demonolatria. Ma non appena l’imperatore cominciò a credere di essere
saldamente sistemato in campo religioso e dopo che sotto la pressante
suggestione della misteriosa voce «paterna» ebbe a dichiararsi unica e
vera incarnazione della divinità suprema universale, gli capitò una
disgrazia nuova da parte di chi nessuno si sarebbe aspettato: si erano
ribellati gli Ebrei. Questo popolo, il cui numero aveva raggiunto a quel
tempo i trenta milioni di individui, non era del tutto estraneo alla
preparazione e all’affermazione dei successi universali del superuomo.
Quando si era trasferito a Gerusalemme, aveva fatto segretamente
correre la voce nei circoli ebraici che il suo obiettivo principale era di
stabilire il dominio di Israele su tutto il mondo; e allora gli Ebrei lo
avevano riconosciuto come il Messia e la loro entusiastica dedizione per
lui non ebbe limiti. All’improvviso si erano ribellati spirando collera e
vendetta. Questo brusco voltafaccia, senza dubbio predetto e dalla
Scrittura e dalla tradizione, è presentato da padre Pansofio forse con
eccessiva semplicità e soverchio realismo. Il fatto si è che gli Ebrei, i
quali ritenevano l’imperatore come un perfetto israelita per razza,
avevano scoperto per caso che egli non era nemmeno circonciso.
Quello stesso giorno a Gerusalemme e l’indomani in tutta la Palestina
scoppiò la rivolta. La dedizione ardente e senza limiti verso il salvatore
di Israele e il Messia annunciato si tramutò in un odio altrettanto
ardente e senza limiti nei confronti dell’astuto truffatore e dello
sfrontato impostore. Tutto l’ebraismo si sollevò come un solo uomo e i
suoi nemici scopersero con sorpresa che l’anima di Israele nel suo
fondo non vive di calcoli e delle bramosie di Mammona, ma della forza
di un sentimento sincero, nella speranza ed il corruccio della sua eterna
fede messianica. L’imperatore che non si aspettava una simile esplosione
così all’improvviso, perdette la padronanza di se stesso ed emanò un
decreto che condannava a | morte tutti i ribelli ebrei e cristiani. Molte
migliaia e decine di migliaia di uomini che non avevano fatto in tempo
ad armarsi, furono spietatamente massacrati. Ma ben presto un esercito
di un milione di Ebrei si impadronì di Gerusalemme e costrinse
l’Anticristo a rinchiudersi in Haram-es-Scerif.
Questi non aveva a sua disposizione che una parte della guardia e non
poteva spuntarla contro la massa dei nemici. Mediante le arti magiche
del suo papa, l’imperatore riuscì a filtrare attraverso le linee degli
assedianti e ben presto egli ricomparve in Siria, alla testa di uno
sterminato esercito di pagani di varie razze. Gli Ebrei, anche se le
probabilità di vittoria erano scarse, gli mossero incontro. Ma non
appena le avanguardie dei due eserciti ebbero iniziato il combattimento,
ecco che si produsse un terremoto di inaudita violenza; sotto il Mar
Morto, presso il quale si erano schierate le truppe imperiali, si aperse il
cratere di un enorme vulcano e torrenti di fuoco, fusi insieme in un lago
di fiamme, inghiottirono lo stesso imperatore, tutte le sue innumerevoli
schiere ed il suo inseparabile compagno, il papa Apollonio, cui la magia
non recò alcun soccorso. Frattanto gli Ebrei corsero a Gerusalemme,
spaventati e tremanti, invocando la salvezza del Dio di Israele. Quando
la santa città apparve ai loro occhi, un grande baleno squarciò il cielo da
oriente a occidente ed essi videro il Cristo che scendeva loro incontro,
in veste regale, con le piaghe dei chiodi sulle mani distese. Intanto dal
Sinai si mosse verso Sion la folla dei cristiani guidati da Pietro, Giovanni
e Paolo, mentre da altre parti accorrevano altre folle entusiaste: erano
tutti gli Ebrei e tutti i cristiani mandati a morte dall’Anticristo. Erano
risuscitati e si accingevano a vivere con Cristo per mille anni.
È con questa visione che il padre Pansofio voleva finire il suo racconto
che aveva per soggetto non già la catastrofe dell’universo, ma soltanto la
conclusione della nostra evoluzione storica: l’apparizione, l’apoteosi e la
rovina dell’Anticristo.
L’Uomo Politico. E voi pensate che questa conclusione sia tanto
prossima?
Il Signor Z. Be’, sulla scena vi saranno ancora molte chiacchiere e
vanità, ma il dramma è già stato scritto interamente da un pezzo sino
alla fine e non è permesso né agli spettatori né agli attori di apportarvi
alcun mutamento.
La Dama. Ma in definitiva quale è il senso di questo dramma? Non
capisco infatti perché il vostro Anticristo nutra tanto odio verso Dio,
mentre in fondo è buono e non cattivo!
Il Signor Z. Il fatto è che in fondo non è buono. E in questo sta tutto il
senso del dramma. Io ritiro le parole che ho detto in precedenza e cioè
«che l’Anticristo non si spiega coi soli proverbi». Per spiegarlo
integralmente basta un solo proverbio e per di più di un’estrema
semplicità: «Non è tutto oro ciò che luccica». Lo splendore di un bene
artefatto non ha nessuna forza.
Il Generale. Vogliate però notare su quale evento cala il sipario di
questo dramma storico: sulla guerra, sullo scontro di due eserciti! Ed
ecco che il termine del nostro colloquio si è rifatto all’inizio. Che ve ne
pare principe?… Santi del cielo! ma dov’è il principe?
L’Uomo Politico. Ma non avete osservato? Se n’è andato alla
chetichella nel momento patetico, quando lo starets Giovanni metteva
l’Anticristo con le spalle al muro. Allora non ho voluto interrompere il
racconto e in seguito mi è passato di mente.
Il Generale. Quanto è vero Iddio è scappato per la seconda volta. Ha
saputo dominarsi. Però non ha saputo resistere. Ah, Dio mio!